Kat. Marchiata a vita

Uno sparo.

Avrei potuto giurare di aver sentito uno sparo rimbombare nell’assordante silenzio di quella notte senza stelle. Lo avevo capito alla sola vista del cielo che quella notte sarebbe successo qualcosa di grave, di terribile, e che, in un modo o nell’altro, mi avrebbe rovinata per sempre.

Mi ero sempre fidata delle mie sensazioni, difficilmente fallivano.

Era come se riuscissi a fiutare il pericolo incombere su di me a chilometri di distanza.

Avevo detto ad Emile che non volevo dormire da sola quella notte. Gli avevo detto che avevo paura del buio più del solito. Avevo anche detto che quella notte la camomilla non aveva fatto effetto su di me, e che non riuscivo a chiudere gli occhi nemmeno sotto tortura.

Glielo avevo detto. Ma lui non mi aveva ascoltato.

Mi sollevai di colpo con il busto e in fretta e furia accesi l’abat-jour sul comodino, per rendere quel buio meno inquietante e più caldo.

Mi guardai attorno, tendendo bene le orecchie.

Non sentivo più nulla, non c’era nulla di sospetto in quelle quattro mura.

Il finestrone era leggermente socchiuso, le tende bianche svolazzavano per via di quella poca brezza notturna, la candela profumata si era consumata completamente e una pila di vestiti ingombrava la sedia della mia scrivania. Cianfrusaglie sparse sul ripiano della specchiera e la mia copia di Madame Bovary che troneggiava sul comodino, come a invitarmi a leggerla anche a quell’orario improponibile.

Le due e trentasette del mattino.

Che avessi sognato tutto?

Poggiai i piedi sul tappetino davanti al mio letto e feci per indossare le pantofole, quand’ecco che udii dei rumori al piano di sotto.

«Emile?» chiamai sottovoce istintivamente poiché poco dopo avevo sentito dei passi vicino la mia porta.

Nessuno rispose.

«Emile» chiamai ancora una volta ma con un tono di voce più alto mentre tremante mi mettevo in piedi e mi avvicinavo alla porta.

Altri rumori, come di oggetti rotti. Voci autoritarie che non conoscevo. Ordini che riuscivo a percepire ovattati dal piano di sotto. Passi possenti. Qualcuno che saliva le scale in maniera rozza e potente. Qualcuno che ordinò: «Trovate la ragazza.»

In preda al panico mi precipitai alla porta e la chiusi a chiave.

Chiunque fosse nel corridoio si accorse della mia presenza e abbassò la maniglia, una, due, tre volte… e tutte le volte con maggiore forza, con più rabbia, poiché mi ero chiusa dentro e non c’era modo di entrare se non sfondare la porta.

Volevo chiamare Emile, ma riuscii solo a piangere e singhiozzare terrorizzata, mentre indietreggiavo da quella porta, incapace di ragionare e di trovare un modo per scappare da chiunque avesse fatto irruzione in casa mia.

Feci pochi passi. Cinque, sei al massimo, poi qualcuno dietro di me.

Due mani che, non so come e con quale rapidità, mi legavano i polsi con delle corde ruvide e fredde. Io che cominciavo ad urlare scalciando e dimenandomi a più non posso.

Nessuno che sentiva. Nessuno che mi aiutava. Emile che non veniva a salvarmi.

Qualcuno che mi chiamava.

Katelyn! Katelyn!

Katelyn? Ma io non sono Katelyn!

Katelyn! Katelyn, cazzo, svegliati!

Aprii gli occhi di colpo e mi sollevai immediatamente dal materasso, completamente madida di sudore e con il fiatone.

Dio Santo, ancora una volta un incubo riguardante quella notte.

«Katelyn, tutto bene?» chiese improvvisamente la voce che era penetrata nel mio sogno permettendomi di non morire di crepacuore. Poi una mano si posò sulla mia spalla.

Mi scostai di colpo, come se fossi stata colpita da una scossa con quel semplice tocco, ma no. Avevo paura di essere toccata alla sprovvista da qualcuno.

Mi voltai spaventata verso quella figura allontanandomi di un bel po’, scostando le lenzuola in maniera rovinosa e, ahimè, non riuscii a controllarmi e gettai un urlo.

«Calmati, Kat!» esclamò l’uomo accanto a me raggiungendomi e bloccandomi in una sorta di abbraccio per tranquillizzarmi. «Sono io, Alexander.»

Smisi subito di dimenarmi.

Era solo Alexander, il mio agente, editore, o qualunque altra cosa fosse. Solo lui aveva le chiavi della mia nuova casa e poteva buttarmi giù dal letto a qualsiasi orario.

Maledetto, mi stava prendendo un infarto!

«Lasciami…» sussurrai testarda come poche volte al mondo.

Non volevo essere toccata, non volevo essere confortata, non volevo che si avvicinasse. Doveva stare lontano dal mio corpo, soprattutto in quella situazione.

Alexander recepì il messaggio e si allontanò come avevo richiesto; sapeva che in certe situazioni era meglio lasciarmi perdere. Anche lui conosceva bene quei miei incubi, proprio come conosceva la mia volontà di non essere toccata o sfiorata a meno che non lo richiedessi io. Sapeva tutti quei dettagli, ma non sapeva quanto di più importante, nonché la mia vera identità e l’intera mia storia.

Mi concesse qualche istante per calmarmi e mi porse un bicchiere d’acqua. Approfittai di quel momento anche per controllarmi i polsi, assicurarmi dunque che su di essi ci fossero i soliti segni indelebili di escoriazioni, niente sangue o altro. Era un mio modo personale per accertarmi che tutto era stato un incubo e io ero ancora una volta viva e salva.

I polsi. I miei polsi che ancora portavano quei segni dell’unica cosa che mi incuteva paura, nonché l’essere legata, dunque, perdere la capacità di muovermi e di ribaltare la situazione in mio favore.

Minuti di snervante silenzio, ma necessari per far riequilibrare la mia mente ormai totalmente instabile.

Non avevo il coraggio di pronunciare una sola parola, niente di niente, avevo solo paura che lui potesse aver capito qualcosa. Fortunatamente ad interrompere tutti quei miei dubbi e quelle paranoie fu Alexander stesso che, quasi timidamente, mi chiese: «Ancora quegli incubi?»

«Sì» dissi posando il bicchiere d’acqua sul comodino e alzandomi dal letto per poter sfuggire il più in fretta possibile dai suoi profondi occhi azzurri. «Ho scordato di prendere le gocce ieri sera» mentii dirigendomi in cucina per prendere qualcosa da mangiare.

«Non mi avevi detto che prendevi delle gocce» mi ammonì lui seguendomi.

Da quando c’eravamo conosciuti, Alexander aveva capito fin da subito che qualcosa in me non andava, che non ero la classica ragazza solitaria e menefreghista; aveva intuito che c’era qualcosa di più, ecco perché si era ostinato così tanto con me e aveva insistito affinché mi fidassi di lui.

Non era stato comunque semplice.

«Sì, invece» mentii versandomi dei cornflakes in una ciotola e mettendomi a sedere sul bancone. «Solo che eri troppo preso dalle tue scartoffie per darmi ascolto.»

«Sai benissimo che mi prendo cura di te e che mi ricordo ogni singola cosa» disse per farmi capire che lui aveva ragione e io stavo solo tentando di mentire.

Touché.

«Perché sei qui?» chiesi di punto in bianco tentando di cambiare argomento. Sgattaiolare da certe situazioni in fondo era la mia specialità.

«Per sapere come ti stai trovando in questa nuova casa e a che punto è il tuo nuovo libro» rispose lui mirando dritto al sodo.

Perfetto. Le sue domande mi facevano passare dalla padella alla brace; forse era anche questa la ragion per cui non mi sentivo pienamente a mio agio con lui, non riuscivo a raggirarlo.

Sentii un ad un certo punto il rumore di ruote che stridevano contro l’asfalto. Scattai in piedi e abbandonando la mia colazione mi avvicinai al balcone del salone che dava proprio sulla strada.

Mi sentivo spiata anche in quella città e tutti quei rumori non mi rassicuravano, anche se sembravano insulsi, frutto di coincidenze.

Per maggiore sicurezza scostai anche le tende e risposi distrattamente, mentre controllavo che fuori non ci fosse davvero nessuno: «Ehm, benissimo… va tutto benissimo.» E mi voltai verso di lui abbozzando un sorriso, anche se tutti i miei sensi rimanevano sull’attenti.

Guardati bene le spalle, mi aveva detto Emile prima di sparire per sempre dalla mia vita. Non dare mai nulla per scontato e tieni le orecchie e gli occhi ben aperti. Mi raccomando. È per la tua salvezza.

Per la mia salvezza…

Ma come diavolo potevo ritenermi salva se ero sola e vivevo con la costante paura che qualcuno mi stesse ancora cercando?

Alexander mi squadrò ancora e sospirando chiese: «Cosa c’è stavolta che non va?» e si alzò per potermi raggiungere alla finestra.

«Ti senti ancora osservata?» chiese dopo avermi raggiunto e scostando a sua volta le tende per potersi assicurare che fuori non ci fosse nulla di preoccupante per me.

«Sì» ammisi guardando ancora una volta fuori per poi giustificarmi: «però immagino sia solo questione d’abitudine» e mi allontanai ancora una volta.

«Kat, lo sai che se hai qualche problema basta solo dirmelo» mi rammentò seguendomi ancora una volta.

Kat.

Mi aveva chiamato in quel modo fin dal primo giorno in cui ci eravamo incontrati, mi aveva detto che era una semplice abbreviazione di Katelyn, ma per me, lui mi chiamava in quel modo perché i miei occhi gli ricordavano parecchio quelli di un felino… ma forse tutto il mio essere, il mio atteggiamento gli richiamavano alla mente qualcosa di sinuoso, elegante, attraente e a volte infimo.

«Non c’è nessun problema, Alex» ripetei per l’ennesima volta riprendendo a mangiare la mia ciotola di cereali.

«Se è così allora perché nella mia posta elettronica ancora non c’è nessuna tua mail?» chiese ritornando ad essere il solito boss borioso, con il quale avrei litigato molto volentieri.

«Perché sai che non scrivo email da più o meno una vita. È roba per vecchi» tentai di sviarlo con le mie solite irritanti risposte da finta tonta.

«Bel tentativo!» commentò lui che ormai aveva imparato a conoscere ogni mia mossa, «ma ora dimmi… come procede il tuo nuovo romanzo d’esordio?» e con una faccia quasi sadica intrecciò le dita delle mani, come se stesse per pregustarsi chissà quale mia reazione.

«Procede» risposi senza scompormi più di tanto e deglutendo. «Non devi preoccuparti. È tutto sotto controllo» e continuai a reggere il suo sguardo, per fargli capire che aveva davvero poco controllo su di me, che gli piacesse o meno.

«Smettila con questi giochetti» cominciò a dire lui visibilmente irritato, «questo non è un film o un cartone animato, non puoi fare quello che vuoi» concluse serrando la mascella.

«Infatti ho eseguito tutte le tue direttive» continuai a dire imperterrita, «ho fatto la ghostwriter in questo periodo proprio come mi avevi chiesto, mi sono trasferita nella città che preferivi maggiormente e ho perfino pensato al mio romanzo» continuai a raggirarlo, anche se mi ritrovavo nel torto più marcio.

Insomma, erano mesi che mi chiedeva di buttare giù qualche idea e non far scemare la mia popolarità, ma io mi ero ritrovata senza ispirazione e, ancora una volta, annoiata da tutto ciò che mi circondava, oltre che spaventata da quella sensazione di persecuzione.

«Ancora non hai ispirazione» disse lui come se mi avesse letto nel pensiero.

«Ho qualche idea» ripresi a mentire sfacciatamente.

«Le tue festicciole non ti sono state per niente utili? Quei ragazzi che ti sei portata a letto?» infierì ancora Alexander, ma stavolta con una punta di cattiveria e di rabbia.

Mi stava accusando di essere stata negligente, e non aveva tutti i torti.

Il mio primo romanzo, scritto basandomi sulla mia vera storia, sulle mie sensazioni, ricordi ed esperienze, era stato un successone e ovviamente si era concluso con la promessa di un sequel. La priorità poi era passata alla scelta del nome con cui firmarmi.

Mi serviva qualcosa che mi tenesse ben lontana dalla mia vita presente e passata, ma che allo stesso tempo mi indicasse che non potevo comunque far finta di nulla. Avevo scelto così due semplici lettere VK. Vanille e Katelyn, una sola persona dimezzata.

Avevo dato il via alla pubblicazione e frotte di ragazzine si erano gettate sul mercato a comprarlo, richiedendo sempre più copiosamente il continuo di una storia “tanto appassionante”.

Non avevo fatto caso a nulla. In quei mesi avevo provato a divertirmi, a vivere ancora una volta come una normale ragazza della mia età, senza preoccuparmi di chi ci fosse attorno, di chi mi guardasse, del modo in cui mi venivano rivolte certe attenzioni… avevo provato a far sentire viva Vanille Lemoine.

Tutto però era stato inutile.

Vanille non era risorta, era rimasta intrappolata nella sua paura, e io continuavo ad essere Katelyn.

Il mio romanzo aveva cominciato ad eclissare lasciando spazio ad altri scrittori emergenti e mandando su tutte le furie Alexander, il quale riteneva che io fossi dotata di grande talento. Riponeva sempre tutta quella fiducia in me… era incredibile.  

«Ti ho detto che scriverò qualcosa. Ho solo bisogno di tempo» insistetti alzando gli occhi al cielo, come se fossi io quella a dover essere seccata da quella situazione.

Alexander mi fissò senza alcuna espressione precisa; non riuscivo neppure a decifrare ciò che stesse pensando vedendomi lì in quel modo, oltre al suo solito cruccio di dovermi portare a letto prima o poi si intende.

Sospirò: «Stasera ci sarà una mostra d’arte parecchio interessante.»

Fantastico, lui sì che sapeva quali fossero le mie passioni.

L’arte era stata la mia fedele compagna quando non ero in grado di trovare nessun’altra compagnia che potesse ascoltami, capire. Era stata quella luce che non mi aveva abbandonata mai, che mi aveva dato forza. Era quella forma che mi permetteva di immaginarmi ancora una volta come normale, che mi mostrava come in certe cose non poteva esserci il male, che un rapporto poteva essere molto più intenso di semplice carnalità.

L’arte era tutto per me.

«Capito il concetto» dissi nascondendo perfettamente il mio entusiasmo. «Mi metto addosso qualcosa di decente e vengo con te per cercare la mia ispirazione perduta» dissi marcando soprattutto quelle due parole, mentre provavo a beffeggiare Alexander mettendo su un finto tono maschile e autorevole.

Lui si trattenne dal mostrare un sorriso e, alzandosi, disse: «Ti farò sapere per che ora verrò, e, mi raccomando porta il tuo quadernino» concluse alzandosi e puntandomi contro l’indice destro come se fosse una sorta di minaccia.

«Agli ordini, capitano» dissi sospirando e portando la ciotola al lavello.

Almeno totalmente immersa nella bellezza avrei cancellato tutto e potevo sperare davvero in un’illuminazione che guidasse la stesura di quel romanzo.

Avrei dimenticato tutti e tutto, sarei stata solo io, concentrata su me stessa… D’altronde non avrei avuto neppure l’occasione di flirtare con nessuno, difficilmente si incontravano tipi interessanti in certi luoghi. No?

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