Jona
Martedì 17 luglio
Vanille. Era proprio lì davanti a me. Non potevo credere all’assurdità degli eventi che mi avevano portato a lei. Fissavo le sue labbra mentre blaterava senza sosta cose senza senso.
Osservai il suo volto come se fosse per la prima volta, soffermandomi su ogni singolo dettagli. I capelli cenere ben sistemati, incorniciavano perfettamente il suo volto, donandole un aspetto rilassato e naturale. Cosa che in effetti non era affatto.
Mi impiantai con gli occhi nei suoi, lì guardai veramente, lì scrutai fino in fondo erano gli stessi occhi di Emile.
Ecco perché ne ero così attratto, quegli occhi mi erano sempre stati familiari, qualcosa che facesse parte di me da sempre, qualcosa che mi appartenesse di diritto. Li conoscevo e loro, avevano riconosciuto me.
Ci fu una lunga pausa. Kat ridacchiò prima di avanzare quella richiesta che per me era tanto assurda quanto meravigliosa.
Avrei dovuto trattarla come una musa solo per quelle poche ore ma non sapeva che per me lo sarebbe stata a prescindere sempre.
Guardai le sue spalle scoperte e l’attaccatura lenta dell’accappatoio, l’idea di doverla fotografare senza veli mi eccitava ma sapere l’utilizzo di quelle foto mi mandava fuori di testa.
Si avvicinò al mio viso sfiorandolo, sembrava quasi volesse baciarmi.
Pregai che non accadesse, perché poi non avrei più potuto lasciarla andare.
Lei che ormai aveva deciso di non volerne sapere più, di partire, di allontanarsi da me.
Quel momento così intimo, fermò il tempo. Quando la sua mano sfiorò il mio viso mi resi conto di che uomo fottuto ero.
Max entrò smorzando l’atmosfera, i piedi tornarono per terra e tutta la troup sembrò rimaterializzarsi in quella sala.
Accompagnata da un passo lento e calcolato, Kat lascò cadere la spugna bianca dalle sue spalle, regalandomi una visione perfetta del suo fondoschiena, fin troppo candido per una donna che viveva sotto il sole di San Diego.
Decisi che avrei mantenuto il contegno e se era quello che voleva, mi sarei mantenuto professionale nella maniera più seria in assoluto.
Osservai le sue leggere lentiggini che alla luce dei flash sembravano fiorire come margherite, facendola sembrare una ragazzina.
Aveva un corpo naturalmente tonico, che non aveva bisogno di nessun ritocco photoshop.
Non lo stava facendo sul serio, lei non era così anche se insisteva nel ripeterlo, lei che per delle stupide foto in intimo aveva fatto scattare una denuncia, la mia Kat non si sarebbe abbassata a questo.
Mi limitai a darle qualche consiglio e scattai qualche foto di profilo, cercando di non far riconoscere il volto della mia donna.
Aspetta! Jona, l’hai appena chiamata tua donna.
Scossi la testa e scattai un’ultima foto. Feci cenno all’assistente che si avvicinò seguendo le mie direttive.
Portò sul set un oggetto di scena e lo lasciò tra le mani di quella modella improvvisata.
Istintivamente si stese per terra piegando le ginocchia, avvicinandole quasi al petto. Schiuse quelle gambe avvolte da leggere calze di seta con gli inserti in pizzo e si mi portò il libro tra di esse, fermandolo all’altezza del suo monete di venere.
Con solo due dita, quasi come per donarsi piacere schiuse le pagine di quel romanzo, mi si seccò la bocca pe quanto fosse eccitante in quel memento. Quanto arei volto prendere il posto di quelle pagine ingiallite. Quanto avrei desiderato poterla stringere forte a me. Sentii il suono della macchina, poi mi alzai per spegnere gli ombrelli.
«Grazie a tutti per la disponibilità, abbiamo finito.»
Misi la borsa in spalla e mi avvicinai all’uscita, senza parlare, senza salutare. Se aveva deciso di andare via per Dio solo sapeva dove, l’avrei lasciata andare come poi avevo già fatto.
Io non potevo essere nulla per lei, lo aveva detto chiaro e tondo e se non potevo averla, non sarei stato ipocritamente suo amico. Anche se da giuramento fatto, avrei sempre trovato il modo di proteggere Vanille.
«Jona.»
Mi voltai, al suo di quella voce a me ormai familiare. Ma mi rivolsi a lei come persona perfettamente sconosciuta.
«Signorina Lemoine, spero sia soddisfatta del suo operato, domani sarà sulla scrivania di Goya.»
«Ma Jona...»
Non l’ascoltavo, continuavo solo a rispondere a domande mai poste.
«Spero solo che lei si sia resa conto che questo non è un semplice shoot fotografico, le sue foto non sono artistiche, non serviranno ad una mostra. Lei sarà venduta al miglior offerente all’occorrenza, sarà solo lo sfizio di qualche ricco annoiato.»
Non volevo essere così duro nei miei toni ma ero arrabbiato, deluso da quell’atteggiamento. Se aveva bisogno di soldi avrebbe potuto dedicarsi ai suoi libri o di certo avrebbe potuto chiederli in prestito. Ma no, ancora una volta aveva deciso di farla pagare a me. Ed io avrei taciuto, solo perché decisi di doverla dimenticare.
…
Stavo controllando e modificando alcuni scatti, avevo saltato anche la cena per quanto ero concentrato dal non lasciarmi travolgere dal turbinio di emozioni che mi avevano accompagnato quella mattinata. Il cellulare iniziò a squillare e quasi ero tentato di non rispondere a quel numero sconosciuto.
Le persone che evitavano di presentarsi non erano tra le più gradite per me.
Ma sarebbe potuto essere lavoro e avrei comunque voluto staccare la spina almeno cinque minuti, prima che di lì a poco l’adolescente che viveva in me potesse prendere il controllo.
Mi guardai, ero ridicolo col telefono in mano e una mezza erezione nei pantaloni.
Heart stai perdendo colpi, eccitarsi con le foto di Kat, atteggiamento da pivellini.
Sorrisi e tra me e me, accettando la chiamata in entrata.
Fui travolto dalla voce di Ari, dalla sua richiesta d’aiuto improvvisa ma se lei era con Goncalo, cosa l’aveva spinta a chiamare me.
Non le dissi niente, aggiunsi solamente “Arrivo”. Afferrai la mia macchina fotografica e le chiavi della moto e mi precipitai.
Per tutto il tragitto pensai a quell’unica frase “Se tutto va bene mi risentirai.” Il mio istinto fu quello di recarmi immediatamente alla polizia ma sapevo che le avrei fatto correre un rischio ancora più grande.
Non so come ci riuscii ma in meno di un quarto d’ora fui sul luogo indicato.
Mi guardai in torno non era una zona molto degradata anzi e quindi il mio unico pensiero si rivolese a quegli unici fabbricati abbandonati costruiti in prossimità del mare. Principiante, pensai.
Una macchina nera era parcheggiata da quelle parti, speni il faro della moto e mi avventurai in quel viottolo.
Degli uomini erano posti all’esterno e trovai uno squarcio laterale per far in modo di scattare qualche foto. I due energumeni erano stati immortalati, come la targa dell’auto. Poi, aiutandomi con le braccia scavalcai un piccolo muretto poggiandomici sopra, finalmente trovai Arleen.
Non riuscivo a visualizzare bene il volto dell’uomo, data la mia posizione precaria.
Allargai il mio campo visivo zoomando il più possibile.
La vidi e mi si gelò il sangue. In una situazione diversa le corde che la legavano l’avrebbero divertita e non poco. Ma in quel momento, non aveva nessun controllo, niente poteva dipendere da lei, era qualcosa che andava oltre anche per una donna impudente come lei.
Fotografai, lei su quella sedia, il suo sangue e tutte le scene che si susseguirono una dietro l’altra. Immortalai la pistola tra le mani dell’uomo, cosa avrei dato per fare irruzione, per portarla via da lì. Ma io non ero il cavaliere che Goncalo tanto decantava, ero solo uno stupido fotografo che di tanto in tanto dava cazzotti ad un sacco da box.
Mi ritrassi un attimo cercando di fare più attenzione possibile a non fari vedere, quando notai che stavano uscendo dalla palazzina. Fu lì che immortalai il volto del pezzo di merda che stava facendo soffrire la mia Ari.
Ero lontano e le luci della sera non illuminavano abbastanza nitidamente ma la cicatrice sul suo collo quella si che mi apparve nitida.
Si misero in macchina e mi affrettai a raggiungere la mia moto.
Li seguii per un tratto fino alla stazione, aspettai che la macchina si allontanasse e decisi di entrare anche io.
Avrei trovato il modo di parlare con Arleen, come mai la stavano lasciando lì, come mai nessuno era rimasto con lei?
Che fosse stata una trappola? Non a causa mia le sarebbe accaduto qualcosa, allora feci l’unica cosa che mi riusciva meglio. Fotografai ogni suo movimento, andai alla biglietteria fingendomi il suo uomo e chiedendo di stamparmi lo stesso biglietto della mia ragazza.
Mi inventai il nostro litigio, confusi l’uomo e mi credette.
Presi tutto il materiale e istantaneamente le inviai a l’unica persona che avrebbe potuto aiutarmi. Kaylee.
Osservai Ari da lontano, aspettando sino a che il suo treno partisse. Pregai che sarebbe andato tutto per il meglio.
…
Quell’ora era sembrata infinita. Gli ultimi giorni erano stati assurdi.
Iris, Arleen, Kat.
Sembrava quasi come se vivessi un romanzo giallo, ero io oppure San Diego si era trasformata in una città per criminali e spie.
La tentazione di bere e rilassarmi era troppa tanta, ero incazzato nero e nulla mi avrebbe permesso di addormentarmi. Il pensiero di Arleen in pericolo mi attanagliava le budella.
E come se qualcuno dall’alto si fosse messo le mani sulle orecchie,, evitando di ascoltarmi. Il nome di Kat apparve sul display.
Quando arrivai a casa di Morgan, pensai che l’unica cosa positiva fosse che lui era più alcolizzato di me e quindi, mi sarei finito la sua scorta.
Non avevo ben compreso il motivo per cui Kat fosse lì ma io dovevo aiutarla.
«È in salotto.»
Ryan mi aprì rabbuiato, stava messo peggio di me e qualcosa mi diceva che erano state le donne.
Le donne c’entravano sempre, ti complicano la vita e noi felici di farcela complicare.
Mi diede le spalle con la carrozzina e mi fece strada, come se non la conoscessi già.
«È ubriaca e fuori di sé.»
Mi passai una mano tra i capelli, quella giornata stava avendo dei risvolti assurdi.
Entrai e mi accovacciai ai suoi piedi davanti alla poltrona nel momento in cui Morgan ci lasciò da soli.
«Gesù Kat, che hai combinato?»
Mi toccò il viso sorridendo ad occhi chiusi.
«Non mi hai chiamata Vanille e mi dai del tu.»
«Ti prego Kat, non è il momento. Quanto hai bevuto!»
Si poggiò sulle con i gomiti sulle ginocchia. Guardandomi negli occhi, quando iniziò a parlare il suo alito appesantito dai toni amari della birra mi investì.
«Kat non è il momento. Kat non sei quella che credevo. Kat sono troppo orgoglioso e stupido per chiederti di restare. Bè, Kat si è rotta di essere Kat.»
Mi vomitò tutto quello che aveva dentro non tralasciando nulla, mi mostrò le foto di Gonçalo, le stesse che lui mi aveva mostrato quella sera a casa di Iris. Quelle dell’omicidio. Mi raccontò della denuncia, menzionò Emile e la Polinesia. Ecco dove sarebbe dovuta andare. Ma io ero lì, proprio davanti ai suoi occhi. Sparò cose a caso ma tutte con un senso. Tanto da non riuscire a capire se in quel momento fosse realmente ubriaca oppure se fosse semplicemente in una fase di depressione isterica.
«Jona!»
Fermò la sua valanga di parole chiamandomi.
«Portami a casa, ti prego.»
«Sì che ti porto a casa, ragazzina.»
Mi prese la testa portandosela in grembo.
«A casa tua intendo.»
Non sarebbe accaduto, non avrei potuto portarla lì perché poi non avrei più potuto lasciarla andare.
La presi tra le braccia e la portai nella stessa stanza dove la trovai rannicchiata diverse sere prima.
Ancora abbracciata a me la sentii bisbigliare parole inarticolate.
«Kat è un idiota per ammettere che tiene a te. Kat ci tiene a Jona, anche Vanille. Kat sa di provare qualcosa per Jona.»
Spalancai gli occhi e la poggia sul letto. Non poteva aver detto una cosa del genere, il mio difetto era quello di credere alle persone ubriache. Ti sputavano momenti di perfetta sincerità e io ne sapevo qualcosa. Come sapevo che il giorno dopo non avrebbe ricordato nulla di questi ultimi attimi di slancio.
Così le baciai la fronte e mi aprii anche io. «J'ai peur de avoir perdu la tête pour la vanille.»
Chiusi la porta e mi venne voglia di urlare, ma inibito com'ero nel mostrare anche il più ridicolo dei sentimenti non oasi farlo. Per la prima volta in vita mia volevo che il tempo non si fermasse e che tutto scorresse veloce, il solo modo per farlo era andare a dormire.
Lo feci dopo aver parlato con Ryan e avergli spiegato tutto mostrandogli falle su falle della vita di Llanos.
Chiusi gli occhi su una poltrona in vimini fuori al suo terrazzo, con una bottiglia mezza vuota di gin in mano e la mente più ubriaca del corpo.
Il giorno dopo arrivò comunque, anche quello successivo e l'altro ancora. Anche se ormai avevo perso l'appetito, il sonno, l'abitudine di lavarmi.
Di Arleen non avevo ancora avuto notizie, Kaylee mi aveva detto di aspettare ma come si poteva in una situazione del genere?! Il fatto che Ari stesse bene mi rasserenava ma fino a che punto? Volevo vederela, sentire la sua voce, volevo sapere che cavolo stava succedendo.
La polizia aveva tutto, dello stalker, di Gonçalo. Che probabilmente tra poche ore avrebbero rilasciato.
Dovevo svagarmi e lo feci senza riflettere, come facevo prima senza conseguenze. Freddo, calcolato e senza sentimento.
«Charlotte, sì piccola, succhia, così.»
Era piegata tra le mie gambe avevo una mano stretta ai suoi capelli e nell'altra una birra gelata. Glielo stavo piantando in gola, così da zittirla evitando qualsiasi stupida domanda sul mio cattivo umore.
Provai quella scossa all'inguine e poi un vuoto al petto.
Mi staccai dalle sue labbra carnose dopo essermi riversato completamente dentro quello spazio caldo e tracannai la mia bionda. Lei si pulì la bocca con il dorso sorridendomi.
Ma per la prima volta non mi sentii bene, non ero soddisfatto, mi sentivo sporco.
La lasciai fare le sue cose, andò in camera da letto si infilò la sua gonna nera e delle scarpe troppo volgari anche per il sabato sera.
Ci eravamo dati tutto il pomeriggio e la notte e avevamo concluso quella mattina. L'avevo scopata per bene e a fondo, tanto da dimenticare per un po' la frustrazione di quei giorni. Ma ingordigia dà la nausea, si sa.
Passò dietro al divano posandomi un bacio sulla guancia, non la guardai nemmeno, ero troppo impegnato a stravaccarmi in mutande col cellulare in vivavoce sul numero di Arleen. Segreteria per l'ennesima volta.
Portai la testa in alto chiudendo gli occhi esausto, i passi di Charlotte li sentii chiari ancora una volta dietro il divano.
«Hai dimenticato le mutande oppure vuoi un'altra lezione?»
«Ho dimenticato quanto fossi stronzo!»
La sua voce era inconfondibile. Che ci faceva Kat lì nel mio appartamento?!
Spalancai gli occhi per rendermi conto di non sognare. Era appena venerdì ed il mondo mi era crollato addosso per la terza volta.
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