Arleen. Mani di fata
Lunedì 2 luglio
Una nuova settimana stava iniziando e mi ero ripromessa di iniziarla al meglio possibile; uscendo di casa.
Dovevo consegnare il progetto al professore all’università, e con quella scusa ero riuscita ad allontanarmi tutto il giorno dalle mie pressanti amiche.
Da quando la sera prima durante il ritorno mi ero fatta sfuggire che conoscevo Jona Heart, Roxie non aveva smesso di parlarne, coinvolgendo la gemella pettegola non appena le era stato possibile.
Dopo una colazione fatta di cuoricini immaginari delle mie coinquiline che mi vedevano già accoppiata, avevo deciso di sparire. Dovevo farlo per la mia sanità mentale, quelle due mi stavano tartassando a ritmo di “non puoi dire che non ti fa scattare la scintilla, quello è uno che ti accende direttamente il fuoco dentro”.
Non avevano tutti i torti, Jona era davvero bello e dovevo ammettere che il mio cervello cominciava a dare retta alle due sorellastre se non altro perché mi riusciva difficile inquadrare Jona nelle due categorie di uomini che mi ero fatta, anzi, mi riusciva proprio difficile inquadrarlo. Un attimo sicuro di sè, quello dopo inerme sotto le mie mani, alla mostra mi aveva allontanata e poi appena mi aveva visto con un altro uomo aveva cercato di nuovo la mia compagnia. Davvero un uomo strano, non che io fossi una donna semplice, ma questo fatto di non inquadrarlo mi destabilizzava, anzi, mi ossessionava quasi, spingendomi a dare segnali contrastanti.
Mi rinchiusi tutta la mattina e buona parte del pomeriggio tra università e biblioteca mettendo la parola fine per tutta l’estate alle mie faccende scolastiche.
Vidi anche di sfuggita la piccola Iris, che forse per i mille libri che si portava dietro, o per la compagnia della bellissima ragazza che stava con lei, non mi degnò di attenzione più di un saluto accennato, un sorriso per me e poi tornò con lo sguardo serio a camminare, mentre la moretta la rincorreva cercando di parlarle.
Dopo essermi tolta il peso di tutto lo studio, sentivo il bisogno di togliermene un altro.
Gli uomini sono esseri stupidi, infidi, marpioni, con il solo scopo di vivere per trovare qualcuno su cui svuotare le palle, ed io perseguivo già da un po’ l’idea che per la loro sicurezza dovessero stare a cento km da me, ma a quanto pareva, con la mostra in ultimo, non riuscivano proprio a stare lontani, quasi fossi per loro una calamita.
Mi piace vincere, amo vincere, amo avere potere sugli uomini, mi fa sentire bene, mi fa sentire viva, eppure quando alla mostra avevo dato la battuta finale al barista mi ero sentita tutto tranne che realizzata.
Decisi quindi di placare quello strano sentore andando alla fonte per vedere se era tornato lo strafottente uomo conosciuto qualche giorno prima.
Entrai nel bar più affollato della scorsa volta, ma sempre con il mio abbigliamento forse un po’ troppo casual per il luogo. Ero fiera del mio vestitino, perché era comodo e nella sua forma di maglietta extralarge sapeva di sportivo ed allo stesso tempo estremamente sexy, e poi stonare con l’altezzosità del posto mi sembrava quasi fosse un primo affronto per lui.
Mi sedetti al bancone aspettando di vederlo, e, quando accadde, con il suo solito sorriso spaccone mi mancò quasi l’aria, finchè non aprì bocca, allora dovetti cercare nei meandri del mio cervello il ricordo del perché fossi lì.
«Chi si vede, mon cherì. Non mi dire che ti mancavo» esordì lui pieno di sè.
«No, assolutamente. Ho appena finito un lavoro ed ero da queste parti, ho pensato che la giornata è passata troppo tranquilla ed avevo bisogno di irritarmi un po’ prima di dormire.»
Sorrise. «Quindi ti irrito.»
«È palese» puntualizzai prendendo una nocciolina dalla vaschetta accanto a me.
«Vino rosso?» chiese cambiando argomento.
«Ti ricordi persino cosa bevo» dissi con finto stupore e lusinga. «Sì, un bicchiere» risposi questa volta più seria.
«È il mio mestiere ricordarmi cosa prendi, e come vedi sono bravo. Invece attendo con ansia di sapere se sei brava nel tuo» disse allungandomi il calice.
«Non so se ti va di spendere il tuo stipendiuccio, certo, ne valgo la pena, ma non vorrei farti mangiare pane ed acqua per il resto del mese.»
«Tranquilla, posso permettermelo» mi fece l’occhiolino. «Se può permetterselo Jona, penso che non sarà un problema neanche per me.»
«Ah, e così conosci davvero il fotografo, ecco perché eri alla mostra.»
«Pensavi fossi lì per te?»
«Pensavo mi stessi stalkerando, e dopo tutto non sarebbe stato così strano.»
«Hai molti stalker?» chiese interessato.
“No, per fortuna no perché non conoscono la mia identità...” «Più di quanto pensi» risposi con finta serietà.
«Sta’ attenta, il tasso di criminalità si è alzato a San Diego.»
«Tranquillo, so badare a me stessa.»
Continuammo a parlare, anzi, a battibeccare. Adoravo quel ritmo che si era creato tra noi, un gioco a chi diceva l’ultima ma senza mai cadere nel banale, dovevo ammettere che aveva una bella testa per essere un comune barista.
A spezzare le nostre discussioni arrivò una ragazzina che solo dopo qualche minuto e qualche sguardo riconobbi come l’amica di Sunny.
Cercai di dirle due parole sul fatto che ricordavo molto bene chi fosse e quello che aveva tentato di fare alla mia ex cognata, ma lei aveva uno sguardo perso e capii solo quando se ne andó che stava tentando di mantenere attivo il suo stato comatoso aggiungendo ancora alcol a chissà quale mix aveva già in corpo.
Scrisse il numero di casa dei Morgan su un tovagliolo e se ne andò come un fantasma così come era entrata.
Era una ragazza molto strana e sicuramente con molti problemi, chissà come c’era finita Sunny con lei, forse non aveva smesso di fare la crocerossina prendendosi carico anche di quel piccolo caso umano.
Non feci in tempo a prendere il tovagliolo che già la mia antitesi maschile lo aveva girato verso di sé e stava sfaccendando con il suo cellulare.
«Che fai? mi rubi i clienti adesso?»
«Ero solo curioso di vedere se il Ryan che conosco io era lo stesso del tuo appuntamento.»
«E?»
«A quanto pare sì»
«Ma conosci tutti tu? E dopo non ho ragione a dire che mi stalkeri?»
Prese il tovagliolo e lo gettò nel cestino sotto di lui. «Ecco, così abbiamo una conoscenza in meno in comune.»
«Ti gira bene che so come chiamarlo o avresti assaggiato la mia ira» dissi smettendo di scherzare, con il tono più serio ed austero che mi potesse uscire dalla bocca con lui.
«Sarei ben propenso a domarla, la tua ira.»
«Fidati, sarebbe lei a domare te» continuai combattendo la sua strafottenza con un pizzico di rabbia.
«Beh, allora perché non provarlo, così ci togliamo ogni dubbio?»
Mi sporsi verso di lui che ricambiò avvicinandosi a me. «Perché ti piacerebbe troppo» chiusi con un pizzico di malizia e la mia uscita trionfante.
Lasciai una banconota sul tavolo e mi diressi finalmente a casa, avevo scaricato ed accumulato rabbia ed insofferenza, ma avevo vinto un’altra volta, se non altro per il peso che non avevo più addosso.
Martedì 3 luglio
Cominciai la nuova giornata lasciando a casa con le mie coinquiline i pensieri su Jona, visto che l’agenda aveva il suo nome scritto tra gli appuntamenti.
Professionale, era il mio motto ed avrei combattuto per portarlo avanti, soprattutto con lui.
Arrivai a casa sua all’orario prestabilito in tarda mattinata e lo trovai ad aprirmi la porta in mutande.
Lo squadrai dalla testa ai piedi con una smorfia di disappunto in viso che lo fece rispondere allargando le braccia.
«Volevo solo farti risparmiare tempo.»
«Non deve preoccuparsi di questo, faccio i massaggi con il cronometro, e poi lei sarà anche pronto, ma io devo ancora cambiarmi.»
Mi feci strada verso la stanza da lui indicata per chiudermi poi la porta alle spalle e spogliarmi, faceva decisamente troppo caldo quel giorno per indossare il camice ma lo avevo messo, anche se sopra ad una misera canotta.
Legai i capelli in alto così da non patire ulteriormente l’afa ed uscii dalla stanza trovandolo ancora in piedi e mezzo nudo come poco prima.
«Non voleva risparmiare tempo?» dissi sarcastica.
Lui rispose posizionandosi prono attendendo le mie gesta. Quella era una delle parti che amavo di più, vederlo aspettare, fremere per le mie mani, contare ogni secondo di attesa prima del piacere che sarei stata in grado di dargli.
Misi un po’ di olio nei palmi e li sfregai per prepararli.
Cominciai dalle spalle, cercando di sciogliere con i pollici i suoi nervi tesi.
«Tante preoccupazioni? È più teso del giorno prima della mostra.»
«Ho deciso che non ti rispondo.»
A quell’affronto risposi con un fremito delle mani che fecero una leggera pressione sulla sua pelle, forse percettibile solo a me.
Continuai scendendo lungo i fianchi.
«Non lo faccia» dissi seria.
«Ti rispondo se mi dici perché mi dai del Lei.»
Arrivai fino alla zona lombare, al confine con l’unico pezzo di stoffa che indossava.
«Perché sto lavorando e lei è un mio cliente.»
«Lo stesso che ci ha provato con te alla sua mostra» riprese appena finii la frase.
Altra pressione, non so perché quella conversazione mi disturbava.
«Non me ne ero accorta» dissi disinteressata.
«Sei intrigante, Arleen.»
«Lo dicono spesso.»
«Felice di non essere l’unico uomo rifiutato.»
«Beh, siete almeno due, non mi sembra che al regista abbia riservato un trattamento diverso.»
Sorrise, forse aveva capito che il mio rifiuto era per gli uomini e non per lui.
Risalii la colonna vertebrale, portando via tutto lo stress accumulato.
«Voltati.»
Ubbidì all’istante mettendosi supino ed incrociando subito i miei occhi che gli erano stati negati fino a quel momento.
Ancora olio nelle mani, questa volta le sfregai più lentamente e ritmicamente, quasi a fargliele assaggiare con lo sguardo.
Partii dalla clavicola per poi scendere in tutta la zona addominale.
Scesi lentamente, facendogli agoniare ogni centimetro che guadagnavo verso quella parte che non avrei mai toccato.
Anche se lo sapeva bene anche lui, lo vedevo fremere aggrappato a quel filo di speranza che le cose non si sarebbero fermate al professionale.
Chissà perché gli uomini si eccitavano così tanto per un massaggio, forse non erano più abituati a fare le cose lentamente, a godersi ogni attimo di piacere dei propri sensi, ormai facevano tutto veloce, tutto di corsa, fottere fottere, sempre di più e sempre più intensamente.
Non so se Jona cercasse di nasconderlo o di mostrarlo, ma il rigonfiamento negli slip era palese ogni secondo di più.
«Arleen?»
«Sì?»
«Se ti pago un extra puoi non fermarti?»
«Intendi proseguire qui?» dissi sfiorando delicatamente e distrattamente la sua protuberanza al passaggio per poi rimettere la mano a posto.
Fremette con tutto il suo corpo.
«Sì» sibilò pensando di essere riuscito a convincermi.
«Hai bisogno di una massaggiatrice per avere un orgasmo? Eppure non pensavo fossi così disperato.»
Forse avevo esagerato un po’ troppo perché scattò seduto e mi afferrò di colpo la mano.
Ecco, un agnellino e poi un leone.
«Non ho bisogno di una massaggiatrice, ma di te.»
Il mio polso era ancora stretto nella sua mano, anche se si era alzato a guardare dritto i miei occhi alla stessa altezza.
Mi divincolai dopo qualche secondo.
«Non ti azzardare più a toccarmi» dissi mantenendo il suo sguardo ma indietreggiando di qualche passo.
Lui mi avanzò dietro. «Perché? Posso fare solo il bambolotto sotto le tue mani?»
«Mi paghi per essere un bambolotto sotto le mie mani» ribattei mentre lui tentava di nuovo di alzare la mano verso il mio volto per quella che ero certa sarebbe stata una bellissima carezza. «Jona, forse è meglio che smettiamo di prendere appuntamenti, è ovvio che vuoi qualcosa che non posso darti.»
«Non piacerebbe anche a te?»
«Non mi piacciono gli uomini» dissi prendendo i soldi dal tavolo e avvicinandomi alla porta.
«Sei lesbica?» chiese incredulo mentre io mi chiudevo la porta alle spalle.
Avevo sacrificato il suo pensiero su di me e la maglietta che avevo lasciato in camera sua, ma almeno avevo messo un punto, se credeva che fossi lesbica forse avrebbe smesso anche di provarci ed avrei anche potuto riprendere a fargli i massaggi, perché non ci avevo pensato prima?
Invece di chiamare Sunny al telefono decisi di andare proprio con lei a pranzo, la scena sembrava assurda di persona, figuriamoci come lo sarebbe stata al telefono.
Se non fosse per il mio bisogno di lavoro forse avrei riso davanti a quella ragazzina, probabilmente lo avrei fatto anche se non avesse detto di essere amica di Sunny.
Un numero di telefono, un “chiama” e neanche un acconto, condito dal fatto che quella ragazza, della quale avevo poi scoperto il nome, Veronika, non sembrava neanche affidabile.
Bisognava essere prudenti, succede in un attimo di ritrovarti invischiata in un qualche casino.
Sunny era entusiasta dell’idea di Veronika e si prodigò subito a farmi un assegno per tre sedute, mettendomi anche in guardia su suo fratello, dicendomi di non fare caso al suo carattere scontroso.
La salutai sorridente, se era così scontroso e sulle sue come diceva, forse sarei riuscita a fare il mio lavoro serenamente questa volta.
Arrivai all’appartamento dei Morgan e quando Ryan mi aprì la porta rimasi un secondo male. Tutto quello che mi era stato detto su di lui doveva farmi capire che fosse un paraplegico, eppure me ne ero resa conto solo alla vista.
«Sì?» disse in maniera arrogante e sbrigativa, come se fossi un impiccio da togliersi velocemente.
«Sono Arleen, la tua fisioterapista» mi presentai con un sorriso di cortesia sul volto ed una mano tesa che non afferrò.
«Chi lo dice?»
«Chi mi ha pagata per esserlo.» Sunny aveva detto che era intrattabile, ma mi stava facendo una vera e propria inquisizione sull’uscio della porta.
«Non ho bisogno di te.»
«Questo sarebbe da appurare.»
«Non ho nessuna intenzione di farmi toccare da te» disse cercando di chiudermi fuori.
«Che ne dici magari se ne parliamo dentro?» dissi sgattagliolando tra la porta e la sua carrozzina.
Appoggiai la borsa e le mie cose sul tavolino e legai di nuovo i capelli provati dalla camminata estiva sotto il sole.
«Allora, tua sorella mi ha pagata per una seduta di massaggi, pensa che tu sia un po’ teso e non le do per niente torto.»
«Pensate quello che volete, io da te non mi faccio toccare.»
«Io da qui non me ne vado finchè non ho finito l’ora per cui sono stata pagata» dissi prendendo una sedia e sedondomici a cavalcioni.
«Ah sì, accomodati pure» disse sarcasticamente arrabbiato.
«Scusa, tu puoi stare seduto ed io devo stare in piedi? Visto che abbiamo appurato che devo stare un'ora qui a non fare nulla almeno la passo comoda.»
Non rispose, forse stranito dalla mia spiazzante risposta.
«Come è successo?» chiesi facendo un cenno alla sua carrozzina.
«Chi ti dice che sia successo?»
«Studio medicina, forse so distinguere un disturbo congenito da un incidente, o forse non ricordo semplicemente che Sunny avesse un fratello in carrozzina.»
«Beh, ti sei risposta da sola.»
«Deduco anche da non molto visto che non hai mai avuto bisogno di massaggi.»
«I muscoli delle mie gambe non li salvi neanche con le tue manine di fata, e poi dimmi, visto che sai tutto signorina dottoressa, che effetto fa vedere delle mani che ti toccano e non sentirle?»
«Non hai avvicinato nessuno dopo l’incidente vero? È paura o rabbia?» chiesi forse un po’ troppo compassionevole.
«Non hai risposto alla mia domanda» disse evitando a sua volta la mia.
Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai a lui che indietreggiò. «Sono pagata per stare qui, tanto vale che mi lasci fare, tanto tra meno di un ora me ne vado e non dovrai più pensare a me fino a dopodomani.»
Si fermò e mi assecondò anche se sempre vigile e restio.
Scivolai alle sue spalle e delicatamente appoggiai le mani sopra la maglietta che indossava.
«Cerca di rilassarti, anche se penso sia una contraddizione insita in te.»
A palmo pieno a contatto con lui, divise solo dalla stoffa cominciai a sciogliere i muscoli cervicali.
«Fai male» disse infastidito.
«Certo! Con la maglietta che ti aspettavi? Le mani dovrebbero venire a contatto con la tua pelle, ma se sei afefobico non è colpa mia.»
«Afe-che?» chiese girandosi verso di me e sfuggendo alla mia presa.
«Afefobia, paura di essere toccato.»
«Io non ho paura di essere toccato.»
«”Io non mi faccio toccare da te”» cercai di fargli il verso simulando una voce maschile e lui di risposta mi guardò storto.
«Ryan, fidati che è brava» disse una voce appena entrata nella stanza.
La guardammo entrambi ma per motivi diversi, era vestita, se così si può dire, con una maglietta bianca molto larga, forse proprio di Ryan, ed era stravolta, più del giorno prima quando l’avevo vista.
«Da’ retta alla fantasmina» decisi che l’avrei chiamata così, non per la carnagione che non era poi tanto chiara, ma per il suo sguardo smunto e la sua eccessiva silenziosità nell’apparire di colpo.
Guardò la ragazza, mentre si toglieva finalmente la t-shirt, sembrava quasi uno sguardo ammonitore, come per dire a Veronika “se mi fa qualcosa che non voglio poi è colpa tua”. Lo fece lentamente e solo quando la tolse del tutto capii quanto faticoso potesse essere stato per lui quel gesto.
Ero di nuovo alle sue spalle, ma titubai un attimo nel toccarlo di nuovo, adesso che potevo vedere i segni del suo malessere incisi sul suo corpo. D’istinto mi sarebbe venuto da accarezzarli, come avrei fatto con mio fratello, come avrei fatto per Sunny e per tranfert ero tentata di farlo con lui.
«Non hai detto di essere una professionista? E non hai mai visto un corpo nudo?»
«Stavo scaldando le mani» mentii.
Appoggiai i palmi di nuovo su di lui, questa volta la pelle calda quasi mi diede la scossa, una scossa emotiva, una forte. Avere a che fare con questo tipo di pazienti sarebbe stata la carriera di tutta una vita, eppure già con lui non mi sentivo serena.
Alternavo lo sguardo dalla sua schiena alla ragazza che non si era mossa, come per assicurarsi che davvero non facessi niente di male a Ryan.
I suoi occhi guardavano me e poi lui che anche se non voleva ammetterlo sentivo si stava rilassando sotto le mie mani.
«Stai bene?» chiesi a Veronika che per continuare a guardarci si era appoggiata alla colonna.
«Sì, ho solo un po’ di nausea» disse prima di portarsi le mani alla bocca e correre verso il bagno.
Ryan sfuggì dal mio massaggio inseguendola.
«Aspetta, vado io» dissi sorpassandolo e rincorrendo la ragazza.
«Veronika?» chiesi prima di entrare nel bagno.
«Sto bene, sto bene» disse alzando il volto verso di me.
La guardai un attimo, il maskara di non so quanti giorni le contornava gli occhi come un panda, ma quello che mi preoccupava era il rosso che striava la poltiglia appena rigettata.
«Da quanto stai così?»
«Così come?»
«Il sangue Veronika!, da quanto vomiti sangue?»
«È normale.»
«Non lo è» dissi seria guardandola, poi mi voltai verso la stanza in cui stava ancora Ryan e lo chiamai urlando.
«Ryaaaan, hai la macchina?»
«La macchina? Ovviamente no, come faccio a guidare?» disse quasi arrabbiato.
«Potrei spiegarti che ci sono auto per chi sta nelle tue condizioni, ma adesso non servirebbe a nulla.»
Presi il telefono dalla tasca e chiamai il numero del bar.
«Chi chiami?» mi chiese Ryan.
«L’unica persona che so che conosciamo entrambi, il tuo amico barista.»
«Vuoi dire Matt?»
«Non so come si chiama, ma se rispondesse te lo dico subito.»
La voce del mio antagonista finalmente si degnò di farsi sentire.
«Matt?»
«Sì?»
«Sì, è Matt» dissi coprendo il microfono per parlare con Ryan. «Sono Arleen.»
«Ah Arleen» disse con il suo tono divertito come se pensasse già ai più peccaminosi risvolti.
«Ho bisogno di te, non sapevo chi chiamare, sono a casa di Ryan, devi accompagnarmi all’ospedale.»
«Arrivo subito» furono le sue ultime parole.
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