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Quella notte non riuscii a dormire. Sia per il fatto che ero in casa di Erika, sia per il fatto che il suo profumo inondava la camera come una specie di gas letale che non dà tregua. Senza contare il caldo. Non pensavo di aver mai sofferto così tanto il caldo in vita mia, evidentemente mi sbagliavo. Ogni ora che passava mi svegliavo, per l'uno o per l'altro motivo. Il risultato fu che la mattina ero sudato dalla testa ai piedi nonostante avessi dormito praticamente nudo. Alle prime luci dell'alba ero già in piedi, nella testa avevo solo cinque parole: Aeroporto Intenazionale JFK, New York.
Presi dalla valigia dei boxer, dei vestiti puliti e le mie cose per il bagno e, ancora in mutande, uscii silenziosamente dalla camera, diretto in bagno. Nel corridoio tutto era immobile e silenzioso, solo la porta del bagno era aperta e dalla finestra entravano i primi raggi del sole; la porta dell'altra camera era socchiusa, dentro era completamente buio. Mentre entravo in bagno mi accorsi che dal piano inferiore non proveniva alcun rumore, segno che la signora Watney stava ancora dormendo. Chiusi la porta del bagno a chiave ed aprii l'acqua nella doccia, una volta liberatomi dei boxer entrai e lasciai che l'acqua tiepida mi distendesse i nervi e alleviasse quel senso di pesantezza che sentivo sullo stomaco.

Erika's POV

Non dormii. Non mi svegliavo in continuazione, semplicemente passai la notte in bianco. La camera in cui mi avevano sistemata non sembrava più tanto calda e accogliente come quando ci ero entrata qualche ora prima: con le luci della Grande Mela, il bianco delle pareti e dei mobili ed il velluto blu scuro delle poltroncine uniti al copriletto dello stesso colore davano una sensazione di ansia. Alle tre circa provai ad accendere la tv a parete di fronte a me, un enorme schermo che da spento rendeva l'atmosfera ancora più inquietante e mi metteva in soggezione. Come si fa a dormire in pace se in camera tua c'è un aggeggio da quarantacinque pollici che ti guarda? Cercai qualcosa di interessante, ma non trovai nulla, solo repliche delle repliche delle prime tre stagioni di Sherlock, serie tv che sapevo a memoria. E trovai anche la replica di una conferenza stampa del presidente Obama di qualche settimana prima. Non gli lasciai finire la frase. Per quanto lo stimassi, spensi la tv alla quarta parola che gli sentii dire. Mi scoprii le gambe e scesi dal letto, diretta alla vetrata che dava sulla città. Scostai le tende bianche ed osservai il panorama per qualche minuto. Il caldo mi si appiccicava alla pelle e scompariva solo vicino ai piedi, dove il pavimento fresco compensava l'aria calda della stanza. Nemmeno il silenziosissimo condizionatore sembrava aver voglia di rinfrescare l'ambiente. Chiusi le tende bianche e anche le pesanti tende di velluto blu scuro, immergendo la camera nella più totale oscurità. E in quell'oscurità, mi ricordai di un impegno di James, che mi tornò alla mente quasi lo volesse fare apposta.

L'incontro con Jason Blum ti era sembrato tanto strano quel giorno, vero? Era una settimana fa, ricordi? Dì la verità Erika, non lo vedi da una settimana, stai scappando da lui, ma non è quello che vuoi veramente.

Se fossero passati pochi giorni probabilmente avrei inveito contro quella vocina nello stesso modo in cui si esprime uno scaricatore di porto, ma mi sorpresi a non darle torto. Non le stavo dando nemmeno ragione se per questo, ma ripensandoci a lungo, era molto vicina alla ragione.

Ti manca.

Scacciai dalla mente quel pensiero, ma tornò più prepotente di prima.

Ti manca, Erika.

"No." Sussurrai.

Ti manca, Erika.

"No, non è vero." Dissi, ad alta voce, nel tentativo di farla smettere, ma non ne voleva sapere. Avevo i nervi a fior di pelle.

Ti manca. Ti manca. Ti manca.

E ad oltranza, per quelle che mi sembrarono   delle ore.

"No. Non è vero."

È vero. È vero. Ti manca.

"Non è vero!" Le parole mi uscirono in un grido strozzato.

Scappi da lui ma in realtà vuoi che ti cerchi.

"Non è vero!" Urlai nel cuscino, una volta che mi lasciai cadere sul letto. I nervi cedettero e mi lasciai andare ad un pianto liberatorio. In quei minuti in cui rimasi sveglia prima di addormentarmi, piansi tutte le lacrime che potevo versare, bagnando il cuscino sia da sveglia che nel sonno. Quando poi mi svegliai, scoprii che avevo dormito solo due ore. Aprii le tende, dietro le quali le prime luci dell'alba illuminavano New York, lasciai quelle bianche chiuse. Ero tentata di chiamare Amber, ma era relativamente presto. I pensieri mi invasero quindi la testa, mi stavano lentamente distruggendo. Provai a non pensare, ma il silenzio era un killer anch'esso. La mia mente, oltretutto, veniva continuamente catturata da pensieri ogni volta diversi: avevo abbandonato un uomo nel bel mezzo delle riprese di un film; avevo fatto saltare tutti i miei impegni e di conseguenza buona parte dei suoi; avevo lasciato la mia amica a vedersela con lui quando avrei dovuto affrontare io i miei problemi, invece di rischiare che lei finisse in ospedale per colpa mia; ero scappata da casa di mia madre senza darle nemmeno il tempo materiale di sapermi in casa.

Ma non ti vergogni?

Un'ottima domanda che non tardò ad arrivare, davvero una scelta azzeccata. Mi buttai giù dal letto a forza e mi recai in bagno, fermandomi davanti allo specchio sopra il lavandino. Mi guardai negli occhi e constatai in quale condizione fossi, partendo dai capelli, passando dalle guance e gli occhi rossi, fino ad arrivare al corpo, concentrandomi più sulla condizione interna che su come appariva esternamente. Una fitta al livello dello stomaco mi procurò una smorfia di dolore. Mi avvicinai allo specchio ancora di più, guardandomi negli occhi. Vedevo che in loro c'era qualcosa di diverso, non erano più felici e luminosi come un tempo. Gli occhi della ragazza di fronte a me trasmettevano tristezza, malinconia ed erano spenti, pieni di sensi di colpa. E dato che uno specchio non mente mai sulla realtà, vedermi in quello stato diede una risposta più che soddisfacente alla domanda della mia coscienza.

Ero riuscita a distruggere James e ad autodistruggere me stessa allo stesso tempo. Mi vergognavo, eccome se mi vergognavo.

James' POV

Nonostante la doccia fresca, non appena mi vestii cominciai a morire nuovamente di caldo. Chiusi la valigia non senza difficoltà e con essa al seguito scesi le scale. La madre di Erika mi aveva preparato la colazione, ma non volevo disturbarla troppo, perciò accettai solo il caffè e qualche biscotto. Mentre finivo di far colazione, la signora Watney salì al piano di sopra, mentre io cominciavo a scorrere la rubrica del mio cellulare fino a trovare il numero di Evan Peters.

"James?" Chiese Evan non appena mi rispose.

"Ehi ciao... Amber è lì con te?"

"Sì, te la passo. Ah, comunque Brian mi ha detto che ti ridurrà lo stipendio per tutte le tue assenze e partenze varie."

"Non mi importa, se fosse lui nella mia situazione di sicuro farebbe le stesse cose che sto facendo io."

"Ma infatti non è nella tua situazione."

"Male. Mi passi Amber?" Sbottai.

"Ma certo." La linea rimase muta per qualche secondo finché la ragazza non mi rispose.

"Ciao James." La sua voce tradì una punta d'ansia.

"Ti prego, dimmi che hai notizie di lei." Le parole mi uscirono forse troppo velocemente.

"James piano, sai che faccio fatica a capirti con il tuo accento scozzese."

"Scusami. Per favore, ti scongiuro dimmi di Erika." A quel punto quasi mi dimenticai come si respirava.

"Non so nulla di lei James, non la sento da giorni ormai. Mi dispiace." Rispose, rimasi in silenzio per qualche secondo.

"Grazie lo stesso. Comunque è andata a New York, se vuoi saperlo."

"New York?"

"Sì, l'ho scoperto ieri pomeriggio. Ho il volo alle due."

"James?"

"Sì?"

"Ti prego, riportami la mia amica."

Una volta a New York si trattava solo di... girare la città nel lungo e nel largo nella speranza di trovare Erika. Non sapendo in quale hotel avesse prenotato, ne scelsi uno a caso appena nel centro di Manhattan. Non appena sistemai la valigia in camera chiesi in reception se avevano una prenotazione a nome Erika Watney, ma la receptionist mi rispose... no. Sulle prime ci rimasi un po' male, ma per lo meno avevo un posto in meno in cui cercare inutilmente. Decisi di uscire a prendere una boccata d'aria, puntando dritto a Central Park.


Erika's POV

Decisi di uscire di casa, mi portai dietro il bancomat per effettuare un prelievo e dedicarmi un po' allo shopping. Nonostante stessi cercando di evitare in tutti i modi una persona volevo comunque rilassarmi per un po', probabilmente a quest'ora James era a Dayton che cercava di capire da mia madre dove fossi, ma poco mi importava, sinceramente.

Camminai per un po' per le strade di New York, il traffico era abbastanza scorrevole e molti taxi percorrevano le vie fermandosi solo per far scendere i passeggeri o per caricarne di nuovi. I passanti erano per la maggior parte turisti che scattavano foto a destra a manca come se non ci fosse un domani. Camminai finché non mi fermai all'ingresso del parco più famoso del mondo: Central Park. Entrai, attraversai il ponte sul lago artificiale e vidi in lontananza una bellissima panchina, un po' isolata dalle altre e dal viale principale su cui mi ci sarei potuta sedere per godermi il venticello e il frusciare delle foglie. Avrei potuto farlo se non fosse stato che qualcuno venuto prima di me dalla direzione opposta alla mia ne prese il possesso. Qualcuno che purtroppo conoscevo molto bene e che non sarebbe dovuto essere lì in quel momento. Si sedette e cominciò a guardarsi intorno, iniziando dalla parte opposta a me. Rimasi paralizzata per un po' di tempo. Sarei potuta restare ferma lì, ero abbastanza distante e con un pizzico di fortuna forse non mi avrebbe riconosciuto; ma le mie gambe si mossero prima che il mio cervello potesse fermarle, guidandomi a nascondermi dietro l'albero più vicino. Pregai che non avesse fatto caso alla donna che correva in direzione dell'albero sulla sua sinistra, al limitare del suo campo visivo. Pregai che non venisse a cercarmi, mentre mi appoggiavo con la schiena alla ruvida corteccia marrone, pregai di avere più tempo. Mi squillò il cellulare, era Amber.

"Amber!" Esclamai a bassa voce, sperando che lui non mi sentisse.

"Erika, scusami, avrei voluto dirtelo prima... James sta venendo a New York, sta venendo a prenderti." Rispose.

"Amber è tardi ormai, avresti dovuto avvisarmi..." chiusi gli occhi e feci un respiro profondo.

"Perché? Che succede?"

"Lui è già arrivato. James è già qui." La mia amica rimase in silenzio. "Devo lasciarti ora."

"Aspetta!" Ma non la lasciai continuare, le chiusi il telefono in faccia. Considerai due opzioni. Per confermare o smentire la prima mi sporsi oltre l'albero per vedere se James fosse ancora seduto sulla panchina. C'era. Calcolai la prospettiva che aveva di quest'albero e provai a immaginare l'area di parco che copriva: ci avrei dovuto correre in mezzo. Poi però scartai la prima scelta: lanciai uno sguardo alla mia sinistra prima di fare un respiro profondo ed inoltrarmi dove la vegetazione era più fitta.

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Non so se ridere o meno.

L'ho pubblicata venerdì sera. Bah, non ho mai capito le classifiche di wattpad, ma se lo dice lui, va bene uguale. \(o.o)/

Sono super contenta perché mi sono montata la libreria di due metri da sola (RIP schiena per i 25 kg con cui l'ho caricata) e l'ho fatto talmente tanto bene (parola di mia mamma) che porca miseria uomini spostatevi.

E infine il mio cellulare aveva deciso di farsi una nuotata lo scorso weekend, ma per fortuna è ancora vivo.

Vi farà piacere sapere che ho già cominciato a scrivere il prossimo capitolo, mi sento buona in sto periodo, forse perché la scuola mi sa uccidendo e quindi in qualche modo devo pur rimediare, no?

A presto,

~Jess

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