13
Erika's POV
Dietro casa di mia madre si estendeva per almeno un chilometro quadrato un prato, che era sempre stato terra di nessuno. Quasi al centro di esso, enorme e imponente, sorgeva una quercia secolare, per cui da adolescente, con l'aiuto di mio padre, combattei per non farla sradicare. Inoltre era il posto preferito di mio padre, sotto di essa ci aveva fatto mettere una panchina di ferro, in stile antico, di quelle che si comprano nei mercati d'antiquariato.
Il giorno dopo, appena sveglia e finito di fare colazione, decisi di andare là. Ci trovai ancora la mia vecchia altalena legata da due robuste corde ad uno dei rami bassi, decisi di sedermi lì per riflettere. L'unica cosa che trovai cambiata fu il legno dell'altalena, reso scuro dal tempo. Nonostante gli anni era ancora robusta, ma mi sedetti comunque con cautela. Volsi lo sguardo accanto a me, dove si trovava la panchina. Su quella, io e mio padre eravamo soliti sederci con un libro in mano, che lui mi leggeva. Crescendo cominciammo a parlare delle nostre vite e sopratutto della sua malattia.
"Quanto tempo abbiamo?" chiesi mentre il vento mi scompigliava i capelli e faceva svolazzare i vestiti.
"Un anno, Erika." Rispose mio padre, alzando lo sguardo al cielo. Il metallo della panchina sotto le mie mani si fece improvvisamente più freddo.
"Non voglio che tu muoia papà." Abbassai la testa, per nascondere le lacrime, che si raffreddarono cadendo dal mio viso.
"Non morirò, pulcino." Rispose, stringendomi con un braccio. "Non devi preoccuparti, i dottori dicono sempre meno del tempo che rimane."
E invece il tumore al cuore se lo portò via cinque mesi dopo. Cercai di trattenere le lacrime di fronte a quei ricordi così nitidi nonostante fossero passati quattordici anni. A quel tempo, diciannovenne, perdere mio padre fu la cosa più dolorosa che una figlia potesse mai provare. Fui costretta a lasciare l'università tre settimane prima che se ne andasse, e non riuscii a riprendere gli studi prima di due mesi. Mi alzai dall'altalena e feci un giro intorno all'albero, fermandomi dalla parte opposta alla panchina. Lì, ai piedi della quercia, stava incastrata nella terra una lastra di pietra spessa, coronata da dei fiori e bagnata dalla rugiada dei fili d'erba che il mattino aveva lasciato su di essa.
Aaron Theodore Watney
Memphis 10-05-1957 Dayton 24-10-2001
Non dimenticarti di chi ti ha voluto bene
Erano quelle le poche parole incise sulla lapide squadrata, papà non aveva voluto essere sepolto in un cimitero, preferiva mille volte la sua adorata quercia. Mi inginocchiai davanti alla pietra e ci posai una mano sopra, il lungo cappotto sulle mie spalle formò un cerchio quasi perfetto attorno a me, i miei pantaloni si bagnarono ma non ci diedi importanza.
"Papà, non andare." Le lacrime portavano con loro il mascara nero delle mie ciglia e cadevano sui miei jeans neri strappati, formando una piccola macchia scura che si asciugò in pochi secondi. Il letto d'ospedale di mio padre si fece ancora più freddo e con esso anche lui.
"Erika, non piangere per me. Vai e sii felice, non ascoltare le critiche, sii te stessa e sii forte." Rispose, con un filo di voce.
"Non ce la farò senza di te..." i sussulti mi riempirono la gola, impedendomi di continuare a parlare normalmente.
"Certo che ce la farai." Mi strinse la mano con più forza.
"Io ho bisogno di te." Con la mano libera strinsi con forza la mia felpa, nera anch'essa.
"Devi cavartela da sola adesso, la mamma ha bisogno di te, falle forza."
"Cambierò per te papà, non sarò più come sono adesso, non voglio più essere una dark." Dissi, togliendomi il piercing al naso che mi ero fatta anni prima con mani tremanti, continuando con tutti quelli alle orecchie e quello al sopracciglio destro.
"Puoi essere chi vuoi, non cambiare per nessuno. Tieni questa, voglio che ce l'abbia tu." Disse, togliendosi a fatica la sua catenina dorata.
"No, è tua, devi tenerla tu." Risposi, rifiutandola.
"Ti... prego, Erika... tienila." La lasciò cadere nella mia mano e si mise ad accarezzare i miei capelli. Mentre lui faceva quel gesto mi staccai le extension e le meches viola scuro, lasciandole cadere per terra. Quando non ebbe più la forza di tenere gli occhi aperti, li chiuse e mi sorrise, prima di spirare.
Strinsi forte la sua catenina, che da quel giorno non avevo mai tolto, mi accorsi che avevo le guance bagnate, le lacrime mi finivano in bocca o cadevano a terra. Me le asciugai con le dita e mi rialzai, in tempo per accorgermi che mia madre stava venendo a cercarmi.
"Tutto bene tesoro?" Mi chiese, vedendo che avevo gli occhi rossi.
"Più o meno..." risposi, senza voce.
"Manca a tutti, Erika." Mi disse, mentre tornavamo verso casa. Mi squillò il cellulare qualche minuto dopo, era Michael.
"Mike?" Chiesi, mentre salivo in casa per prendere la borsetta e andare in centro città.
"Ciao Erika..." il suo tono di voce non era per niente rassicurante. Certo, era un attore, ma in quel momento di sicuro non stava recitando.
"Va tutto bene?" Chiesi, preoccupata, prendendo la borsa.
"Sto bene grazie, sono qui in costume che stiamo finendo di girare una scena, ci hanno dato cinque minuti di pausa e ho deciso di chiamarti."
"Allora dimmi tutto." Risposi, salutando mia madre con un gesto della mano e uscendo di casa.
"Senti, sono davvero preoccupato per James. Non ti vede da tre giorni e già sta cominciando a dare di matto. Ti prego Erika, ti supplico per il bene di tutti, torna da lui." Entrai nella mia vecchia macchina, una Golf nera che non mettevo in moto da un pezzo. Fortunatamente partì al primo colpo. Misi il telefono in vivavoce e lo posai sul cruscotto.
"Mike, sai che non posso."
"Erika te lo sto chiedendo in ginocchio."
"No, lo sa che è sbagliato stare con me."
"Ma non riesci a capire? Lui senza di te non può vivere. È davvero messo malissimo, da quando te ne sei andata ogni sera beve per dimenticare. Se non ci fossimo io e Jennifer a quest'ora probabilmente sarebbe già finito in ospedale almeno un paio di volte. Stamattina quando sono andato a svegliarlo l'ho trovato seduto ai piedi del letto circondato da almeno una ventina di birre, semicosciente. Ora dimmi, preferisci aspettare di rivederlo al suo funerale o pensi di fare qualcosa?" Rimasi in silenzio, fermando la macchina per la strada appena fuori del vialetto di casa. Passai una mano tra i capelli, pensando alle parole di Michael.
"Non verrò Mike. Deve accettare il fatto che non voglio stare con lui." Risposi.
"Sicura? Sai che se glielo dico sarà ancora peggio, probabilmente ricomincerà anche a fumare." La sua risposta mi lasciò di stucco, perché ricordavo bene quanto fu difficile aiutarlo a smettere di fumare.
La pioggia cadeva insistente al di fuori della veranda della villetta. James, seduto vicino a me sul muretto freddo accanto alla porta d'ingresso, aveva appena trascorso una pessima giornata. Dalla tasca della giacca tirò fuori il pacchetto di sigarette e l'accendino, ne prese una e fece per accenderla.
"Non ci provi." Dissi, strappandogliela dalle labbra. Si bruciò il dito con l'accendino.
"Ridammela, Erika, ne ho bisogno." Disse, prendendola e accendendola. Era sul punto di aspirare, ma lo fermai.
"No James!" Esclamai, prendendola e buttandola al di là della finestra aperta, sotto la pioggia. Si spense qualche istante dopo con un sottile filo di fumo. Si voltò verso di me, guardandomi male. "La prego, si fa solo del male."
"Erika..." disse.
"No James, sto tentando di aiutarla. Mi aveva detto che avrebbe smesso, ma da quanto ho visto non si sta impegnando. Per questo cercherò di impedirle in tutti i modi di fumare."
"Grazie." Rispose, dandomi un buffetto sul braccio.
"Erika? Sei ancora lì?" La voce di Mike mi arrivò lontana.
"Impediscigli in ogni modo di mettere mano su una sigaretta."
James' POV
Non restare attaccati ad una bottiglia di birra anche quella mattina fu un'impresa davvero ardua. Oltretutto, cominciavo anche a perdere lucidità. Irascibile all'ennesima potenza, dopo neanche un'ora dall'inizio della giornata Brian mi spedì fuori a distendere i nervi insieme a tutti gli altri. Trovai Evan e Amber seduti su una panchina, che parlavano. Lei avrebbe saputo dirmi qualcosa in più su Erika, forse sapeva dove si trovava.
"Amber?" Chiesi, avvicinandomi con cautela. Lei smise di parlare con Evan e mi guardò.
"Oh James, ciao." Rispose.
"Senti... potrei parlarti? Magari... in privato?" Evan capì e salutando Amber con un bacio se ne andò. Quanto li invidiavo loro non potevano neanche immaginarlo.
Perché non possiamo essere così anche noi, Erika?
Mi sedetti accanto ad Amber, che reagì scattando sulla difensiva, era visibilmente tesa.
"Dimmi che sai qualcosa di lei. Ti chiedo solo di dirmi che sta bene." Dissi, le parole mi uscirono di getto, senza che potessi fermarle.
"Non ne so nulla." Disse, fredda.
"Ti prego Amber, non ti chiedo tanto." La implorai.
"Mi ha chiesto di non dirti nulla." Disse, cedendo e rilassando i muscoli. "Ha cambiato numero di telefono, ma questo forse lo sai già, e ha preferito che non ti venisse detto nulla. Mi dispiace, non posso esserti d'aiuto."
Ecco perché continua a squillare a vuoto e ieri sera il suo numero è diventato inesistente...
Cercai mantenere la calma, ma non ci riuscii. Avevo bisogno di una sigaretta.
"Hai una sigaretta per caso?" Chiesi distrattamente.
"No, non fumo." Rispose. Mi alzai, intento a cercare Oscar Isaac. Lui, da fumatore, sapevo che ne avrebbe avuta una. Lo intravidi mentre rientrava sul set, lo fermai mettendomi davanti a lui.
"James, qualcosa non va?" Truccato da Apocalypse faceva impressione, le ragazze del trucco avevano fatto un lavoro davvero eccellente.
"No, va tutto bene... solo mi stavo chiedendo se per caso avresti una sigaretta, ne ho un bisogno assurdo."
"Compensi la mancanza della ragazza con il fumo?" Chiese, porgendomi una sigaretta e l'accendino. "Bello mio, della vita non hai capito ancora niente." Mi superò ed entrò nel set.
"Sempre meglio che drogarsi, no?" Esclamai, dopo aver acceso la sigaretta. Mi tenni l'accendino in tasca, e riempiendomi i polmoni di quel fumo letale, mi allontanai verso un albero lì vicino. Mi appoggiai al tronco, facendo un altro tiro. Non feci in tempo ad avvicinare le labbra alla sigaretta per la terza volta che una voce familiare attirò la mia attenzione.
"James, no! Che diamine stai facendo?" Michael, vestito da Magneto, si stava avvicinando a me con fare incazzato.
"Problemi, Mike?" Lui mi strappò la sigaretta dalle mani e dopo averla buttata per terra la calpestò per spegnerla. "Beh?"
"Non ricaderci." Disse, per poi allungare una mano verso di me, a chiedere l'accendino.
"Che te ne frega di quel che faccio io?" Cercai di ripararmi dal sole, troppo caldo nella fresca giornata di Montréal.
"Hai fatto una fatica tremenda per uscirne, ora vuoi mollare tutti i sacrifici che hai fatto?"
"Si, e allo..." Un momento. Come fa a dire che è stato difficile se ho sempre detto a tutti che ne ero uscito con facilità? Solo Anne ed Erika sanno quanto sia stato difficile... oh. Ecco perché. "Hai parlato con lei." Dissi, incavolato più che mai.
"Con chi?"
"Con chi?! Non fare il deficiente Michael, sai benissimo con chi!" Urlai, fuori di me.
"Non accusarmi di cose che non ho fatto!" Alzò le mani in segno di difesa.
"Non sono cretino Mike! Hai parlato con Erika, ammettilo! Ti sei tradito da solo, solo lei sa quanto sia stato difficile uscirne!" Non ci vedevo più dalla rabbia, camminai più veloce che potevo verso il set, alla ricerca di Amber. Entrai e subito gli occhi di tutti furono su di me. "Amber!" Esclamai.
"James, che diavolo ti prende?" Chiese Sophie.
"Non mettertici anche tu, Sophie." Risposi. "Amber, dove sei?!"
"Sono qui." Rispose flebilmente. Mi voltai nella direzione da cui proveniva la sua voce e avvicinandomi a lei, esplosi definitivamente.
"Dimmi dov'è." Ringhiai tra i denti. Appena le fui abbastanza vicino, lei indietreggiò, finendo con le spalle al muro. Le bloccai le braccia alla parete. "Dimmelo Amber!"
"Mi ha detto di non farlo!" Esclamò, sul punto di scoppiare a piangere.
"James!"
"Evan stanne fuori!" Ringhiai nella sua direzione. "Avanti parla!" Dissi, allontandola dal muro e sbattendola indietro, si sentì il rumore secco della sua testa che urtava il muro. Mi sentii afferrare per il braccio, mi liberai dalla presa assestando al malcapitato un pugno nello stomaco. Evan indietreggiò piegato in due. "Ti ho detto di starne fuori."
"Evan!" Gridò Amber, prima di trovarsi nuovamente bloccata tra me e il muro.
"Dimmi dov'è Erika." Scandii le parole una ad una. Un attimo prima di scoppiare in lacrime mi confessò quello che volevo sentirmi dire.
"È a Dayton, è tornata da sua madre!" Esclamò. Mi allonanai da lei e senza dire più una parola uscii e mi diressi verso il parcheggio, dove la mia macchina mi stava aspettando già aperta.
Erika's POV
Stavo camminando per il centro città assorta nei miei pensieri quando il telefono si mise a squillare insistentemente.
"Pronto?" Chiesi.
"Erika, sono Amber. Senti, non ho potuto fare altrimenti, era troppo incazzato..." Amber si interruppe per via di un singhiozzo.
"Amber, che è successo?" Ero preoccupata che le fosse successo qualcosa di male.
"Erika... James sa dove sei. Oggi pomeriggio prenderà il primo volo per Dayton."
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Scusate la lunga assenza ma non ho potuto fare di meglio, vorrei ringraziarvi per la pazienza (rime time) nei miei confronti.
~Jess
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