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Ho voluto farvi una piccola sorpresina. Il capitolo non influirà sul corso della storia, ma sarà solo d'aiuto per arricchire la caratterizzazione di due personaggi e per avere più punti di vista. Inoltre, sarà molto diverso dagli altri: sarà narrato in prima persona! Allora? Che aspettate a leggere? Vediamo a che punto indovinate di chi si tratta...🙈
Dopo il primo personaggio ci sarà un segno di transizione, ovvero "。・:*:・゚★,‧͙⁺˚*・༓☾". Da quel punto in poi, cambierà il personaggio narrante.

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Mi era sempre piaciuto andare al parco.

Da quando ero piccolo, sgattaiolavo via da casa per arrivarvi, sedermi su una panchina che dava segni di cedimento e osservare tutti gli altri bambini che correvano e urlavano. Non ero uno che amava stare nella mischia: evidentemente col tempo le cose cambiano.

Ero seduto sulla mia solita panchina, quando mi immersi nei miei pensieri, che ultimamente erano tormentati da un paio di occhi blu. Per quanto non volessi ammetterlo, Grace McKrack mi faceva dare di matto. Era in grado di farmi morire dal ridere e arrabbiare allo stesso tempo. Amavo il suo sarcasmo, la sua riservatezza, la sua acidità e i misteri che si celavano dietro quel sorriso forzato.

Allo stesso tempo avevo una paura matta di lei: non mi piacevano le sensazioni che mi provocava, perché non volevo finire nella trappola un'altra volta, non volevo innamorarmi. Eppure mi sembrava quasi impossibile.

Il mio cellulare prese a squillare e sullo schermo apparve un nome: papà.

Risposi all'istante: anche una sua sola chiamata persa poteva significare la bara per me. Dava di matto quando non gli rispondevo al telefono, era in grado di mandare una pattuglia di polizia a cercarmi alla seconda chiamata senza risposta.

«Ehi papà, cosa c'è che non va?» Chiesi, rispondendo.

«C'è che sei sparito da casa mentre dovresti essere a studiare, dove sei?» Rispose mio padre, dall'altro lato del telefono.

«Sto...tornando papà, ero andato al parco...»

Lui chiuse la chiamata, borbottando "un ragazzo di diciassette anni al parco", ma non diedi peso alla cosa: non tutti potevano capirmi.

Quel pomeriggio non avevo la minima voglia di studiare. Il problema era che ogni pomeriggio era uguale a quello. Purtroppo tornai a casa.

Ero molto bravo a distrarmi, mi guardavo intorno e iniziavo a fare viaggi assurdi con la mente. Guardai il mio pallone da football: me lo aveva regalato mia madre all'età di quattro anni e mezzo, da allora non ero riuscito a separarmene. Entrare nella squadra della scuola era stato fantastico, era la mia distrazione ai mille pensieri che riempivano la mia testa.

Mi specchiai nello schermo del cellulare e presi a fissare il livido che Grace mi aveva fatto notare.

Forse aveva ragione lei, forse no. Ma soltanto il fatto che si fosse minimamente preoccupata per me era un punto a mio favore.

Cinque pomeriggi prima avevo espresso disaccordo per una strategia di gioco poco onesto che Joseph stava architettando, quindi lui aveva trovato giusto prendermi a pugni. E quello era stato il risultato. Ho sempre trovato difficile convivere con tante persone, ma a dispetto di ciò, mi sono sempre trovato a frequentare diversi ragazzi. Ad esempio la band, Minho Feller.

Non sapevo nemmeno io quale fosse il posto giusto per me. Mi trovavo bene in molti luoghi, ma soltanto per un breve lasso di tempo: dopo sentivo il bisogno di scappare via.

Le parole del libro di fisica iniziarono a vorticarmi davanti agli occhi, così mi distesi sul mio comodo letto e presi a fissare il soffitto. Era nero, ma vi erano schizzi di colore che lo rallegravano. Avevo fatto quell' "opera d'arte" assieme a mia madre.

Ricordo che era una giornata piovosa e io ero anche ammalato, quindi per la noia avevo preso a pitturare delle pietre. Mia madre era entrata in camera e aveva osservato per un po' di tempo il soffitto che a suo parere era troppo buio, dopodiché mi propose di colorarlo. Io ovviamente accettai.

Quel soffitto me la ricordava, mi faceva stare bene.

Senza nemmeno sapere come, dagli occhi grigi di mia madre, mi teletrasportai a quelli blu di Grace. Mancava da scuola da ormai due giorni, ed io iniziavo a preoccuparmi, ma non avevo modo di parlarle.

Deciso a non voler più pensare a lei, presi il mio pallone da football e, dopo essermi assicurato che mio padre non fosse in casa, uscii, dando un ultimo sguardo ai libri abbandonati sulla mia scrivania.

Non avevo un posto vero e proprio per giocare, ma a me bastava camminare tenendo il pallone tra le mani, così mi ritrovavo nel campo, i cui spalti strabordavano di tifosi.

Parli del diavolo, spuntano le corna.

Incontrai Mike che camminava mano nella mano -bleah, che schifo- con la sua ragazza, Mary Harrison. Li salutai con un cenno della mano e Mary ricambiò, sistemandosi i capelli castani con fare civettuolo. Nonostante non fosse vista sempre di buon occhio, io sapevo che era una brava ragazza. Alcuni avvenimenti della sua infanzia e della prima adolescenza avevano sancito dei cambiamenti radicali nei suoi modi di fare, eppure mi capitava di riuscire a scorgere, talvolta, i segni della "vecchia" Mary che divideva la merenda con me alle elementari.

Mike mi diede una pacca amichevole sulla spalla.

Li guardai andare via, sorridendo.

Come cavolo faceva Mary ad indossare quei tacchi? Sembrava quasi più alta di Mike.

Continuai a camminare ancora per un po', fino a quando giunsi alla fontana meravigliosa che si ergeva in una delle piazze, a mio parere, più belle della città.

Mi avvicinai al bordo e bagnai la mano libera nell'acqua. Il suono di quest'ultima che veniva smossa, mi provocava una sensazione di calma e pace.

Restai per un po' con gli occhi chiusi, per godermi il suono dell'acqua.

Quando li riaprii, mi accorsi di aver perso la presa del mio pallone, che era già finito tra le mani di due bambini.

Cavolo, dovrebbero sapere che non si ruba!

Mi alzai di scatto e corsi nella loro direzione, ma mi videro.

Per lo spavento, forse, uno di loro lo lanciò in aria e andò a finire nel porta-carichi  di un camion.

Potevo dire addio al mio pallone.

Addio alla mia infanzia.

Addio alla distrazione.

Addio a mia madre.

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Ero sul punto di lanciarmi dalla finestra e prendere il posto che mi spettava negli inferi.

Stavo fissando lo schermo del PC con lo sguardo aggrottato. Mi passavo nervosamente una mano tra i capelli, mentre con l'altra premevo insistentemente il tasto d'accensione del marchingegno tecnologico.

Il mio amatissimo computer mi aveva abbandonato e quindi avevo perso ben cinque pagine dedicate ad alcuni avvenimenti che si erano verificati durante l'ultima settimana.

Camminai tastoni verso l'interruttore della luce e premetti quest'ultimo, così da illuminare tutta la stanza.

Era un vero e proprio disastro, ma a me piaceva così.

Non sono mai stato un tipo ordinato, ho sempre amato il caos, difatti ho sempre dovuto combattere contro un disordine mentale.

Ritornai alla mia postazione e tentai di riaccendere il PC, che però continuò a non dare alcun segno di vita. Ringraziai i numi per aver scritto parte dell'articolo nel mio quadernetto di Iron Man, così da dover recuperare soltanto la metà.

Odiavo quando mi accadeva, ma spesso avevo la fortuna di riuscire a salvare i file in tempo, prima che il computer smettesse di funzionare. Nonostante ne avessi due, entrambi mi davano spesso problemi, ma il preside non aveva la minima intenzione di concedermi un PC portatile.

Dovevo lavorare con delle carcasse di computer risalenti agli anni '90. Certo, mi piaceva poter fare un salto nel tempo, ma erano poco pratici.

Spesso avevo scritto gli articoli sul PC a casa mia, ma non avevo molto tempo per dedicarmi al giornalino quando non ero a scuola, quindi mi riducevo a dover scrivere il numero settimanale durante l'ultima notte disponibile.

Sono sempre stato il numero uno nel procrastinare.

Diedi un'occhiata all'orologio e mi accorsi che si era fatto tardi, quindi raccolsi tutte le mie cose frettolosamente e le infilai, in modo poco ordinato, nello zaino. Salutai alcuni collaboratori scolastici e uscii di corsa dall'edificio.

Saltai sul primo autobus che arrivò e dopo poche fermate scesi davanti al comune. Salii la lunga rampa di scalinate e, pensando a qualche giorno prima, quando ero rotolato giù sotto lo sguardo di Grace McKrack, risi.

Entrai nell'edificio e, dopo aver salutato i segretari all'ingresso, bussai alla porta che dava nello studio del sindaco.

«Avanti», mi rispose una voce calda.

Spinsi la porta ed entrai, lasciai cadere lo zaino in un angolo della stanza e mi diressi verso una delle sedie davanti la scrivania dove sedeva un uomo sulla cinquantina, dai capelli brizzolati e gli occhi castani.

«Come è andata oggi a scuola?» Mi chiese l'uomo in questione, che era occupato a smanettare sulla tastiera del PC.

«Mh...bene papà, ho solo avuto qualche problema con uno dei computer dove stavo scrivendo l'articolo da pubblicare dopodomani e...sono a dir poco disperato!»

Mio padre annuì comprensivo, mentre terminava di scrivere qualcosa...forse qualche progetto per la città?

Schioccai le dita delle mani e mi stiracchiai, cercando di non cedere alla tentazione di poggiare i piedi sulla scrivania. Mio padre lo avrebbe aggiunto alle mille cose da rinfacciarmi quando se la prendeva con me.

Le nostre non potevano essere chiamate liti, perché lui parlava, parlava e parlava, mentre io restavo in silenzio e pensavo a tutt'altro. Lui odiava quando facevo così, la mamma invece di meno: lei faceva lo stesso.

Tutti e tre trascorrevamo poco tempo in casa, poiché mia madre lavorava come commessa in un grande centro commerciale, "The Grove", mentre papà restava tutto il giorno in comune.

Di solito, dopo scuola, andavo da mio padre e tornavo con lui a casa la sera, dato che abitavamo abbastanza distanti dal comune. Altre volte andavo da solo a casa, ma non accadeva molto spesso, poiché non adoravo trascorrere molto tempo a bordo degli autobus.

Roy Feller, ovvero il sindaco, ovvero mio padre, mi dedicò una strana occhiata.

«Allora esci con la figlia di Robert McKrack?» Chiese alzando un sopracciglio.

«No! La settimana scorsa l'ho soltanto accompagnata al negozio musicale per aiutarla a scegliere una chitarra...»

«Mm...bene, sai che non voglio che abbia a che fare con quell'uomo, e quindi con tutta la sua famiglia», sciorinò lui.

Il mio sguardo si fece più duro, ma non dissi nulla, limitandomi ad annuire.

Sapevo benissimo che lei era diversa da suo padre, che non voleva essere conosciuta come "figlia di...", ma semplicemente come Grace.

Mi voltai a guardare la finestra e mi persi nel cielo che a quell'ora si stava già imbrunendo.

L'inverno era alle porte.











***

Ciao belle persone! Spero che questo capitolo un po' particolare vi sia piaciuto ;) xxx

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