XVII


Il mattino seguente, Allyson era quasi dimentica del comportamento tenuto dalla sua amica la sera precedente.

Le due ragazze si prepararono in tutta fretta - si erano svegliate molto tardi - e scesero a fare colazione. Non trovarono nessuno a tavola.

Uscirono salutando il vuoto e corsero alla fermata dell'autobus, sul quale saltarono velocemente.

Arrivate nel cortile della scuola, notarono che Larry e Magdalene erano distaccati dal loro solito gruppetto: infatti Minho, Nicholas e Shane, erano da soli al "loro posto" abituale.

Grace si diresse verso di loro, mentre Allyson corse verso i due amici, per capire cosa fosse successo.

«Ehi, come mai siete qui?» chiese la rossa, sorridendo.

«Io con quella lì non ci parlo» rispose Magdalene stizzita, indicando Grace.

Larry annuì, mentre Allyson li guardava confusa.

«Ora voi venite lì e ne parlate insieme...che cosa grave potrebbe essere mai successa?» Concluse con una scrollata di spalle.

I due seguirono Allyson con passo lento e degno di un funerale. Grace li salutò con la mano e Magdalene, innervosita, voltò il viso dall'altra parte.

In tutto questo, Shane, Minho e Nicholas "discutevano" per la non equa divisione della loro unica brioche.

«Che cosa succede?» Domandò Grace, notando gli sguardi pieni di astio dei due amici.

«Succede che mi hai rubato il fidanzato!» Esclamò Magdalene, con uno sguardo di fuoco.

«Ah, davvero? Sentiamo...chi sarebbe questo fidanzato?» Chiese la mora guardandosi attorno, fingendo di cercare il ragazzo. Il suo tono iniziava ad essere nervoso, astioso.

«Jason Kess!» Rispose la ragazzina, con voce stridula.

Grace scoppiò a ridere, seguita a ruota da Allyson e i tre ragazzi, che però ridevano per diversi motivi, alias Nicholas che aveva mangiato anche il pezzo di brioche che sarebbe toccato a Minho.

«Non ti ho rubato un bel niente. Vuoi sapere cosa è successo quando l'ho seguito pensando che volesse farmi vedere una sorpresa indirizzata a te? Mi ha quasi violentata. Contenta?» Sbottò la piccola McKrack, attirando anche l'attenzione dei tre ragazzi, che a quanto pare non avevano più nulla di cui discutere.

«E sai perché? Perchè è innamorato di Allyson, allora ha pensato "se non posso avere lei, mi prendo la sua amica". Capito?» Terminò Grace, mentre le si era formato un groppo in gola.

Nicholas si mise sull'attenti e si fece strada tra i suoi amici per passare. «Adesso vado a fare una faccia di schiaffi a quel bastardo e...»

Minho lo tirò per lo zaino. «Ah, ah, ah, aspetta. Ricordi quand'è stata l'ultima volta che hai vinto in uno scontro corpo a corpo?»

Nicholas parve pensarci.

«No, non lo ricordi, perché non lo hai mai fatto», continuò Minho, scandendo bene le parole.

Il biondo parve non sentirlo e riprese la sua camminata, fino a quando non fu Grace a chiamarlo. «Nicholas...»

Lui si voltò, con lo sguardo che faceva scintille. Faceva quasi paura.

Grace sussultò e si dispiacque. Lo aveva trattato male, la sera precedente. Ma a lui sembrava non importare.

Il ragazzo tornò alla sua postazione, senza mai smettere di guardare la McKrack.

Intanto, Magdalene non era ancora convinta.

«Io non ci credo. Lo fai solo per avere attenzioni, per assicurarti di avere lo sguardo di tutti addosso.»

Grace si sentì soffocare.

«Credi che mi sia lanciata da una finestra del secondo piano, in una piscina gelata, soltanto per avere attenzioni? Perché non mi era piaciuto come baciava Jason Kess? Se ti sto dicendo questo, è perché non voglio altro che toglierti dal pericolo. E se facesse lo stesso anche con te? Sapresti difenderti? Non voglio nemmeno augurarti che ti accada per farti capire che almeno è vero, ma se proprio ci tieni vai, vai dal tuo piccolo Jason!»

La prima campanella, che indicava l'ora di cantare l'inno americano, pose fine alla loro discussione.

Tornata a casa, Grace non volle far nulla. Si distese sul suo morbido letto e, rimandando i compiti al giorno seguente, si fece abbracciare dal sonno.

Fece sogni strani, nei quali faceva peripezie, nei quali parlava con persone che credeva di non aver mai visto nella vita reale. Ma sapeva che tutto ciò fosse impossibile, si era data all'approfondito studio del mondo onirico, quindi era a conoscenza del fatto che non si potessero sognare sconosciuti.

Probabilmente erano persone che avevano fatto parte del suo passato, della sua vita a Beatty. Persone a cui non aveva mai dato molta importanza, poiché tutti i vicini, tutti i compagni di scuola, avevano soltanto dei ruoli marginali nella sua "monotona" vita.

Erano semplicemente persone che era costretta a salutare quando le incontrava per strada, con cui doveva convivere in alcune ore della sua vita, ma niente di più.

Le era sembrato normale fino a quel momento.

Ma dopo aver smesso di vivere in completa solitudine, aveva capito che quegli anni trascorsi in isolamento non l'avevano preservata dal male. Per niente. Era diventata lei stessa parte di quel circolo vizioso che è la cattiveria.

Era cresciuta acida, meschina, egoista. Un po' egocentrica. Per niente matura come credeva di essere. Quel suo modo di pensare, "meglio sola che con persone che mi fanno soffrire", che la faceva sentire tanto intelligente e tanto grande, non era altro che paura. Perché lei non era che una vigliacca. E lo era così tanto, da non riuscire ad ammetterlo.

Non era mai stata una tipa coraggiosa, lo sapeva bene. Lo era a tratti.

Aveva paura di sé stessa.

Diamine se ne aveva.

Era terrorizzata.

Si svegliò quasi ad ora di cena. Sobbalzò, perché credeva che fosse mattino e che fosse in ritardo per la scuola. Controllò la sveglia sul comodino.

Le sette e trentatré.

Quell'orario le ricordava qualcosa, ma non riusciva a capire bene cosa. Era di una certa importanza, ma non ne voleva sapere di ricordarlo.

Forse quello non era il momento giusto.

Andò a fare un bagno caldo e poi indossò un pigiama che aveva portato con sé quando era arrivata: sebbene le camicie da notte di flanella la tenessero al caldo, in quel periodo il freddo era davvero pungente.

Scese di sotto e si mise al suo posto, guardando Cornelia cucinare. Non si era neppure accorta della sua presenza.

La osservò mentre preparava con amore e dedizione la cena, e si chiese come fosse realmente quella donna. A tratti appariva dolce, gentile, disponibile. Poi ti ruggiva contro, ti voltava la faccia. Era altalenante.

E Grace era molto confusa. Come lo era stata nei confronti di Kristina. Aveva avuto bisogno di tempo per capirla, per comprendere di che stoffa fosse fatta.

Forse avrebbe dovuto aspettare anche con lei. Osservarla, afferrare ciò che pensava attraverso un solo sguardo. Monitorare i suoi modi di fare in differenti situazioni, con differenti persone.

Ad esempio. L'aveva mai vista maltrattare suo padre e Kristina? No. Come si comportava in presenza di persone estranee alla famiglia? Con premura.

Doveva scoprire come trattava suo fratello.

Ma non in quel momento. Non poteva piombare in camera sua e chiedergli se la "tata" gli preparava il latte come piaceva a lui o per dispetto gli metteva qualche cucchiaino di zucchero in meno.

Avrebbe trovato occasione.

Aiutò la donna a sistemare il tavolo, poi si mise in attesa di Kristina. Suo padre non c'era di nuovo. Ma questa volta era davvero via per lavoro. Precisamente, era ad una cena. Il ristorante si trovava poco distante da casa loro e, volendo, si poteva scorgere l'uomo d'affari seduto a tavola con altri tre signorotti vestiti di tutto punto.

Era ancora difficile credere che suo padre fosse riuscito a diventare così ricco. Ma in fondo, erano passati ben dieci anni da quando era andato via alla ricerca di una nuova vita.

Di una nuova vita senza lei e sua madre.

Nonostante avesse molti sospetti nei confronti della compagna.

Nonostante avesse dovuto sapere che Grace, la sua piccola Grace con cui organizzava tre serate cinema a settimana, lì non fosse felice. Non lo sarebbe mai stata.

Grace sospirò e Kristina si voltò verso di lei. La ragazza non lo notò e si dedicò al pollo che troneggiava nel suo piatto.

Dopo cena, salì in camera sua per riposarsi ancora un po', ma poi le venne in mente che poteva andare da suo fratello.

Allora, come ogni volta, attese che i rumori in casa cessassero.

Nel frattempo, frugò tra le sue cose, trovando ciò che cercava: degli scacchi in miniatura. Si chiese se Nathan sapesse giocarci, poi si disse che glielo avrebbe insegnato.

Era andata in camera sua più volte, non poteva non andarci ora che sapeva di essere più vicina a quel bambino di quanto credesse.

Sapeva che la porta sarebbe sicuramente stata chiusa a chiave.
Fece un lungo sospiro e organizzò il suo ponte per arrivare alla finestra.

Le provocò una paura tremenda, come la prima volta.

Ma trovò la finestra chiusa.

Cosa abbastanza ragionevole, essendo in pieno dicembre.

Diede tre colpi secchi al vetro e poco dopo, era già nella stanza.

«Grace!» Nathan corse ad abbracciarla e, dopo un po' di esitazione, Grace si abbassò per fare lo stesso.

Si voltò per chiudere la finestra - non voleva morire congelata -, poi tirò una mini-scacchiera da sotto la maglia del pigiama.

«Sai giocare?»

Nathan annuì.

Giocarono a lungo, parlando di cose stupide, che Grace non si sarebbe mai aspettata di dire. Nathan le stava restituendo la spensieratezza che non aveva voluto da piccola.

Arrivarono a parlare di cartoni animati, di film, di libri.

«Scacco matto», disse Nathan, con un'espressione neutrale.

Grace sgranò gli occhi. Lei era la regina degli scacchi. Infatti,

era.

«Ora mi leggi un libro?» Chiese il bimbo, supplichevole.

«Ma tu sai leggere...» rispose Grace, scrollando le spalle.

«Ti prego», fece lui, con un'espressione irresistibile.

«Va bene.» Grace si voltò verso la libreria. «Quale?»

«La fiaba dell'albero triste», rispose Nathan, prendendo il libro e stendendosi sul letto.

Grace si schiarì la voce e, avvicinandosi a Nathan, prese a leggere.

«C'era una volta un bellissimo giardino, con alberi e fiori di ogni tipo, meli, aranci e rose. Tutti felici e soddisfatti. C'era solo felicità in quel giardino, tranne che per un albero che era molto triste. Il povero albero aveva un problema: non sapeva chi fosse. "Ti manca la concentrazione" gli disse il melo "se davvero ti impegni, puoi fare mele deliziose. Guarda com'è facile".»

«Adesso arriva il cespuglio di rose!» La interruppe il bimbo. Grace ridacchiò.

"La conosce a memoria."

«"Non ascoltarlo" intervenne il cespuglio di rose "e guarda quanto siamo belle noi!". L'albero, disperato, provò a seguire ogni consiglio. Cercò di produrre mele e far sbocciare rose ma, non riuscendo, a ogni tentativo si sentiva sempre più frustrato. Un giorno un gufo arrivò nel giardino.»

«I gufi mi piacciono, hanno degli occhi giganteschi», la interruppe ancora Nathan, facendo con le dita delle mani due cerchi sui suoi occhi.

«E poi possono vedere anche col buio pesto», aggiunse Grace, accarezzandogli una ciocca di capelli.

Poi continuò la sua lettura. «Era il più saggio di tutti gli uccelli e vedendo la disperazione dell'albero esclamò: "Non ti preoccupare. Il tuo problema non è così serio. È lo stesso di tanti esseri umani! Ti darò io la soluzione: non passare la tua vita ad essere ciò che gli altri vogliono che tu sia. Sii te stesso. Conosci te stesso e per far ciò ascolta la tua voce interiore". Poi il gufo scomparve. "La mia voce interiore? Essere me stesso? Conoscere me stesso?" l'albero disperato pensava tra sé e sé alle parole del gufo quando all'improvviso comprese. Si tappò le orecchie e aprì il suo cuore e sentì la sua voce interiore che gli stava dicendo "Non darai mai mele perché non sei un melo, e non fiorirai ogni primavera perché non sei un cespuglio di rose. Tu sei una Sequoia, e il tuo destino è crescere alto e maestoso. Sei qui per offrire riparo agli uccelli, ombra ai viaggiatori, bellezza al paesaggio! Tu hai questa missione! Seguila!". A queste parole l'albero si sentì forte e sicuro di sé e cessò ogni tentativo di diventare qualcun altro ed esattamente quello che gli altri si aspettavano da lui. In breve tempo riempì il suo spazio e divenne ammirato e rispettato da tutti. Solo da quel momento il giardino divenne completamente felice».

Grace chiuse il libro e si accorse che Nathan si era addormentato. Lo poggiò quindi al suo posto sullo scaffale, raccolse gli scacchi e tornò in camera sua, sempre in silenzio, per non farsi sorprendere.

Un pedone la tradì.

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