Cap. III Catene Parte II

Dopo essere tornata alla carrozza, Gideon mi accolse con un tale evidente sollievo che per un attimo pensai che mi avrebbe abbracciato.

– Benedetto sia l'Unico! Sei tutta intera! – esclamò, aprendomi la porta della vettura. – Avete parlato a lungo, tu e i due del circo!

– No. Niente affatto – dissi, sporgendomi giusto un po' per afferrare la maniglia interna dello sportello e sbatterglielo in faccia.

– Va bene, Leda – sentii che diceva. – Mi pare che tu non abbia voglia di parlarne.

No, non ne avevo. Avevo solo voglia di piangere, di farmi uno di quei bei pianti che dopo mi facevano stare meglio.

Mi lasciai cadere su un fianco sul sedile imbottito e restai in quella posizione per tutta la durata del tragitto che mi separava dalle proprietà del barone. Non versai una sola lacrima.

Quando desideravo abbandonarmi alle emozioni il mio corpo manifestava l'irritante abitudine di restare impassibile. Quando invece mi sforzavo di mantenere il controllo, mi capitava di perderlo con estrema facilità. Mi scivolava via dalle dita, come le anguille ancora vive che le monache compravano una volta a settimana per tutte le orfane del monastero. Ricordavo bene il modo in cui guizzavano, quasi consapevoli della mannaia che si sarebbe abbattuta presto su di loro, mozzandone la testa. Anche dopo la morte continuavano a dimenarsi, reagendo al calore delle pentole.

Era mostruoso e bizzarro, eppure affascinante.

Arrivai alla tenuta che era quasi mezzanotte.

La signora Kant mi accolse sulla soglia con un viso smunto per la stanchezza e una candela in mano. – Leda, è molto tardi! Il barone è quasi impazzito perché non rientravi!

Sospirai, guardando l'orologio a pendolo con i dischi dorati degli ingranaggi in bella vista dietro uno sportello di cristallo. Quando non era impegnato a godere dei benefici dello ius primae noctis Edmund si accorgeva presto della mia assenza.

– Mi accompagna nella mia stanza, signora Kant? – chiesi, intrecciando il mio braccio al suo.

La donna mi guardò meglio stringendo gli occhi. – Sei una maschera di cera, ragazza mia! – esclamò. – Cosa ti è successo?

– Ho male alla schiena. Molto.

Quando m'innervosivo il dolore lo avvertivo più vivido, lungo tutta la colonna vertebrale. Affondava nella mia carne con dita acuminate e non aveva pietà.

– Che Dio ci aiuti, bambina mia! Appoggiati a me! – La signora Kant mi fece salire uno a uno i gradini della scalinata che conduceva ai piani superiori dove il barone e sue moglie avevano le loro stanze, rigorosamente separate.

Nella stessa ala del palazzo c'era anche la mia, piuttosto vicina a quella di Edmund.

Una volta là, la signora Kant mi aiutò a svestirmi, ma ogni movimento, seppur cauto, era una nuova stilettata alla schiena.

Soffrivo tanto che chiesi alla donna di somministrarmi della morfina e la pregai di fare in fretta. Poi lei si sedette sul letto e io mi sdraiai di lato, poggiando la testa sulle sue ginocchia. Indossavo solo una camicia di lino bianca senza maniche lunga fino ai piedi, con merletti di pizzo a decorarne l'orlo.

Malgrado la morfina sentivo il mio corpo andare a fuoco. Non riuscivo a dominare il dolore... Se almeno avessi potuto tirare con l'arco o esercitarmi con la frusta! Ma era troppo tardi e il barone mi avrebbe di certo reclamato subito per sé non appena si fosse accorto del mio rientro.

– Puoi dirgli che non stai bene, Leda – mi suggerì la governante, mentre mi accarezzava la fronte madida di sudore.

Ma io scossi la testa: Edmund era generoso con me, mi dava ciò che chiedevo, e soprattutto una certa libertà di movimento alla quale non potevo rinunciare. Se si fosse arrabbiato avrebbe potuto cambiare atteggiamento e diventare più possessivo nei miei confronti, cingendomi i polsi con catene invisibili che mi avrebbero tenuta ancora più legata a lui.

Se fosse accaduto ciò, non sarei riuscita a sopportarlo.

Anche se forse lo avrei meritato.

– Signora Kant – mormorai, sfiorando con le labbra il tessuto profumato della sua veste.

– Sì?

– Lei ha ragione quando mi dice che forse non ho più un'anima – dissi, sbarrando gli occhi come davanti a un inspiegabile fenomeno naturale. – Credo davvero di averla perduta anni fa.

La sua mano si fermò un istante tra i miei capelli, poi riprese ad accarezzarli. – Non dar retta ai vaneggiamenti di una povera vecchia! – esclamò con un sospiro. – Quando ti dico certe cose è solo perché mi preoccupo per quello che fai. Vorrei essere più dura, per convincerti a desistere. Ma poi alla fine ti lascio sempre fare tutto ciò che vuoi.

C'era del biasimo della sua voce ed era rivolto a se stessa.

– Non voglio essere un mostro – piagnucolai, nascondendo il viso nel suo grembo.

– Non lo sei, Leda, non lo sei...

Smisi di ascoltare le sue parole. D'un tratto l'unico suono che sentivo nel silenzio della notte era soltanto il cigolio della gabbia in cui era ancora esposto il corpo senza vita del mezzadro che aveva attentato alla vita del barone.

– Non voglio essere un mostro – ripetei a me stessa, immaginandomi in quella gabbia di ferro al posto del contadino. Forse era quello il mio posto.

Sono un mostro.


Mi svegliai all'alba, dopo un sonno che mi aveva avvolto come un velo intessuto di incubi.

Sulla schiena avvertivo un liquido denso e vischioso che si stava rapprendendo.

Scansai il braccio di Edmund abbandonato sul mio petto e mi levai a sedere, girandomi indietro per fissare le macchie scarlatte che avevo lasciato sul lenzuolo: mi ero agitata tanto che il busto aveva pressato la mia pelle fino a farmi sanguinare.

Quando mi alzai mi sentii debolissima. Il dolore mi faceva girare la testa, ottenebrandomi la mente.

Uscii dalle stanze del barone per tornare nella mia camera, senza curarmi di indossare la vestaglia. Attraversai un paio di sale di passaggio con il soffitto affrescato e icone dell'Unico affisse un po' ovunque. La sagoma dorata del dio, benché mancasse di un vero e proprio volto, pareva comunque seguirmi con uno sguardo opaco. Non avvertivo riprovazione in quello sguardo, né compatimento. Percepivo solo indifferenza.

Barcollando riuscii a raggiungere la mia stanza e a infilarmi dentro, evitando di essere vista dai domestici che si alzavano prestissimo. Mi avvicinai al secretaire aggrappandomi al suo bordo intagliato per aprire il cassetto e tirarne fuori una scatola di legno laccato, finemente decorata. Pareva un cofanetto per gioielli, ma conteneva altro.

Scarmigliata, a piedi nudi, uscii di nuovo, stavolta per allontanarmi dalla villa e dagli occhi della gente. Con la coscienza alterata dalla sofferenza fisica mi ritrovai ben presto nei giardini ben curati intorno al palazzo.

Avevo sentito qualcuno che mi chiamava, ma non mi ero fermata per capire chi fosse. Mi ero trascinata fuori con un'urgenza che avevo provato poche altre volte, percorrendo sentieri coperti di ghiaia che mi si conficcava nelle piante dei piedi e prati di morbido trifoglio. Alla fine mi gettai in ginocchio, sotto l'ombra di un boschetto di agrumi, e aprii la scatola.

Dopo un tempo che, secondo i miei sensi offuscati, si era snodato all'infinito, una mano mi scosse stringendomi una spalla.

– Leda! Leda, svegliati! Dio santo, ma che cos'hai combinato?

Sollevai le palpebre, stringendole per mettere a fuoco la vista. Dovetti sbattere gli occhi un paio di volte perché l'immagine del volto di Gideon, da doppia che era inizialmente, tornasse a essere soltanto una.

– Che cosa vuoi? – domandai, con voce impastata.

La zazzera di capelli biondi tremò sotto le sue dita. – Sai che ore sono, Leda? – Quando scossi la testa il ragazzo sospirò. – L'una del pomeriggio. E sei ancora mezza svestita! All'ora di pranzo il barone ti ha cercato nelle cucine, ma non c'eri. La signora Kant gli ha detto che non stavi bene e non volevi che nessuno si avvicinasse alla tua stanza, poi mi ha mandato a cercarti. Ma io era già da un po' che tentavo di trovarti!

Mi sedetti in mezzo all'erba, piegando le gambe di lato, poi scrollai i capelli per far cadere polvere e fili d'erba che vi si erano intrecciati.

Malgrado non fossi una domestica, non ero nemmeno un membro della famiglia e non contava quanto fossero splendidi i miei abiti o costosi i miei gioielli, né quanto fosse bene arredata la mia stanza: i pasti, quando non me li facevo portare in camera, li consumavo nelle cucine, insieme alla servitù.

– Che vuoi, Gideon? – ripetei, sentendomi come se mi fossi appena svegliata da un sonno secolare. Solo che a causare il mio risveglio non era stato il bacio di un principe ma il rude scuotermi del mio cocchiere.

Lui sembrava essere stato improvvisamente attratto dal contenuto della scatola di legno aperta accanto a me. – Ma che hai combinato? – ripeté a sua volta, rigirandosi tra le dita un paio di boccette di vetro ormai vuote. – Quante dosi ti sei iniettata di questa roba? Ci avresti addormentato un elefante!

La sua mano depositò le boccette per esaminare la siringa di vetro e metallo contenuta nell'astuccio foderato di velluto. – Avresti potuto lasciare qualcosa per me – bofonchiò, osservando con attenzione l'ago di platino.

Riprendendomi di colpo, gli strappai di mano l'astuccio per richiuderlo con uno scatto. – Queste sono medicine per il dolore, stupido! – lo rimproverai. – E ti auguro di non dovere avere mai bisogno di farne uso! Mi pare che già l'oppio basti a mandarti in fumo il cervello.

Il ragazzo mi ringhiò scherzosamente contro e poi mi tese una mano per aiutarmi ad alzarmi. – Adesso stai meglio?

Provai a muovere le spalle, poi accennai un sorriso. – Sì, meglio, ti ringrazio.

Lasciandomi andare la mano, Gideon arrossì leggermente, d'un tratto a corto di parole, e io ricordai che, come mi aveva già avvisato, indossavo soltanto la camicia da notte.

Abbassando gli occhi, avvertendo anch'io un certo imbarazzo, tentai di spezzare il silenzio: – Perché mi cercavi?

– Come?

– Hai detto che mi stavi cercando già prima che te lo chiedesse la signora Kant.

– Ah, sì, certo! È successa una cosa che pensavo potesse interessarti – disse lui, in tono concitato. – Ho sentito uno degli altri cocchieri che ne parlava un paio d'ore fa. Era stato in città e stava dicendo qualcosa a proposito di quell'Alato del circo...

Io sollevai di scatto gli occhi, scorgendo l'eccitazione nei suoi. – Che è accaduto?

– Pare che fosse uno schiavo fuggito da non so quale città! Quando sono andati a prenderlo, stamattina presto, hanno scoperto che il documento che attestava il riscatto della sua libertà era falso.

Distolsi lo sguardo dal suo viso per non vedere più quel lampo che gli baluginava nelle iridi scure. Una voragine famelica mi aveva ingoiato il cuore, perché non lo sentivo più battere.

Tentando di controllare il tremore delle mie mani, raddrizzai le spalle e mi avviai verso il palazzo. – Prepara la carrozza! – ordinai a Gideon, accelerando l'andatura.

Lui mi seguì con il solito passo che sprizzava ottimismo e voglia di superare i limiti. – Immagino di doverti accompagnare a Cartago, dico bene?

Annuii, stringendomi al petto l'astuccio di legno. Per una volta, Cartago era davvero l'unico posto in cui desideravo essere in quel momento.

Eppure, al mio arrivo alla casa d'aste sul lungofiume, restai per diverso tempo in piedi davanti all'ingresso, con il mio ombrellino di seta a ripararmi la testa dal sole.

Mi trovavo appena fuori dal Quartiere delle Catene e il fiume Isidro, uno dei corsi d'acqua che attraversavano la città, sciabordava dietro di me.

Il palazzo che ospitava uno dei luoghi più frequentati per la compravendita degli schiavi era un ex teatro, fallito e poi ricomprato da una compagnia di schiavisti che guadagnava con la deportazione di schiavi dalle colonie.

La facciata era sobria, con due ingressi costituiti da porte di vetro con infissi di legno, contornate da archi a tutto sesto; in alto, dominava una serie di finestroni affiancati a destra e a sinistra da bifore alte e strette.

Feci un respiro profondo e chiusi il parasole appendendomelo al braccio.

Era una delle rare volte in cui non indossavo un mantello e l'abito che avevo scelto era uno dei più eleganti, anche se non sfarzosi: il giacchino corto era di un azzurro intenso e i baveri aperti erano coperti di inserti di pizzo tono su tono. Lo stesso pizzo era stato applicato alla parte terminale delle maniche, in morbida seta.

La gonna, di un azzurro leggermente più chiaro, aveva due pince che partivano da altrettante serie di bottoncini rivestiti di tessuto. Mi piaceva soprattutto perché si abbinava in maniera perfetta con gli stivaletti a punta, dall'allacciatura alta, anche se li copriva quasi interamente.

La signora Kant mi aveva acconciato i capelli arricciandomeli sulla fronte e intrecciandoli dietro. Mi ricadevano sulla schiena in morbidi boccoli fiammeggianti ed erano ornati da fiori di seta, bianchi come il pizzo delle maniche della giacca.

– Dove vai, così elegante, senza neanche aver pranzato? – mi aveva domandato la donna, picchiettandomi sulle labbra una crema rosso corallo dopo avermi allacciato al collo una delle costose collane che possedevo.

Io avevo assunto un'aria innocente. – A fare compere.

Era stata la stessa risposta che avevo dato a Edmund, quando ero andata a salutarlo. Lui si era portato alle labbra una ciocca dei miei capelli e poi me l'aveva sistemata davanti al collo, proprio dove avevo ancora il segno del graffio dell'angelo demoniaco.

– In questi giorni sei così sfuggente, mia Leda...

Mi aveva scrutata per un attimo con uno sguardo che non ero riuscita a capire se fosse d'ammirazione o di sospetto, e io gli avevo premuto le labbra sulla guancia per rassicurarlo. Anche se dentro di me tremavo per la paura.

Prima che mi scostassi da lui, aveva girato improvvisamente il viso e la sua bocca aveva cercato la mia. Lottando contro il desiderio di sfuggirgli, lo avevo lasciato fare. Mi aveva baciato in modo avido, pungendomi la pelle con i baffi che si stava facendo crescere.

Quando mi aveva permesso di separarmi da lui avevo le labbra che bruciavano.

Il barone si era passato il dorso della mano sulla bocca per pulirsi del mio rossetto, poi mi aveva fissato con soddisfazione. – Ricordati sempre a chi appartieni, Leda.

Io avevo mostrato un sorriso sicuro. – E tu ricordati chi ti ha salvato la vita, Edmund – avevo replicato, con una dolcezza che contrastava con quanto le mie parole sottintendevano.

Mentre osservavo la porta d'ingresso principale della casa d'aste, senza decidermi a entrare, ripensai al momento in cui mi ero congedata dal barone e la mia pelle si accartocciò per il nervosismo.

Trassi una serie di respiri profondissimi, fissando lo sguardo sulla scritta "Teatro" che nessuno si era preoccupato di cancellare. Le mani mi sudavano come se le tenessi infilate in guanti di caucciù.

Alla fine entrai spingendo la porta a vetri, ma mi fermai quasi subito quando l'odore di ferro, sudore e tabacco m'investì.

Di fronte a me si allungava un dritto corridoio tra due ali di panche di legno. Là seduti c'erano due dozzine di uomini intenti a fumare e a scambiarsi informazioni sui prezzi del mercato. Ne discutevano a voce alta, descrivendo le caratteristiche di ciò che cercavano come se stessero parlando di bestiame.

Deglutendo un'abbondante quantità di saliva m'incamminai lungo il corridoio, verso il palco in fondo alla grande sala. Com'era prevedibile tutti gli occhi dei presenti si puntarono su di me: ero consapevole di essere fin troppo appariscente nel mio bell'abito di lana azzurra. L'unica donna in mezzo a una platea di compratori di schiavi.

Gideon si era offerto di accompagnarmi, ma io avevo rifiutato. Ero certa che sarei riuscita a cavarmela.

Andai a sedermi su una panca proprio davanti alla struttura sopraelevata su cui una volta recitavano gli attori. Anche se c'era molto spazio mi sentii stretta tra le colonne laterali, dallo stucco scrostato, che sostenevano due logge con sei ampli palchi.

Di fronte a me, su una pedana di legno, c'era un uomo dall'aspetto rubicondo che si tergeva continuamente il sudore dalle tempie con un fazzoletto di cotone. Quando fece un cenno a qualcuno che sembrava nascosto dietro le quinte, uno schiavista con lo sguardo truce salì sul palco trascinandosi dietro una donna con i polsi legati. Era giovane, forse quanto me, e aveva la pelle di un bianco latteo e i capelli biondi. Non aveva un viso particolarmente attraente, ma aveva forme morbide e sembrava in salute.

Girai la testa dall'altra parte nel momento in cui l'uomo che la teneva in catene le aprì la bocca per mostrare a chi l'avesse chiesto che non aveva denti guasti.

E mi venne voglia di vomitare.

Qual era il nome di quella ragazza? Qual era la sua storia? Proveniva da uno dei villaggi del Nord? Era stata la sua stessa famiglia a venderla per pochi spiccioli e perline di vetro a mercanti di schiavi senza scrupoli? Oppure era stata rapita?

Non avrei mai potuto dare delle risposte alle mie domande, così feci finta di non essermele mai poste.

E feci lo stesso anche quando sul palco salirono gli altri schiavi, venduti al miglior offerente dopo che l'uomo rubicondo aveva annunciato il prezzo base da cui partiva l'asta e poi aveva battuto quello più alto proposto.

Man mano che il tempo passava, sentivo il mio stomaco sempre più aggrovigliato e le mani più sudate. Le colonne laterali parevano ormai quasi ripiegarsi su di me, minacciando di crollarmi addosso con tutte le logge.

Cominciai ad agitarmi sulla panca, desiderando di avere al mio fianco una persona amica. Gideon, la signora Kant. Mi sarebbe andata bene persino Debra Waltz.

Mi meravigliai di quanti pochi conoscenti potessi davvero considerare degli amici. Fu come se lo scoprissi solo in quell'istante.

Ancora presa dalle mie considerazioni non mi accorsi subito delle due figure che erano salite sul palco, così come mi era accaduto al circo. Fu l'improvviso silenzio che si fece nella sala a farmi levare lo sguardo e il mio stomaco si contrasse così dolorosamente che mi parve di aver ingoiato un rasoio.

Quando posai lo sguardo su Mizrael mi pentii di trovarmi in quel posto. Sarei voluta fuggire lontano cento miglia.

Avevano evidentemente provato a far sparire la tinta verde dei suoi capelli, che ancora gli gocciolavano su collo e spalle. Immaginai il modo brutale con cui gli avevano immerso la testa in una bacinella d'acqua fin quasi a soffocarlo.

Il respiro ancora affaticato indicava che lo avevano fatto fino a pochissimo tempo prima di portarlo dentro il teatro.

Il suo corpo svestito era esposto agli sguardi dei potenziali acquirenti in tutta la sua perfezione e potenza e l'uomo che lo aveva trascinato sul palco ne decantava la forte muscolatura e l'aspetto sano.

Il mio cuore quasi si fermò quando riconobbi, nel mercante di schiavi, l'uomo con l'anello di onice che mi aveva offerto da bere la sera prima, alla Locanda dei Bastardi.

In una mano stringeva una sorta di scudiscio e con il manico batteva contro il petto o l'addome dell'Alato per sottolinearne le qualità fisiche. Mizrael trasaliva ogni volta a quel contatto, i suoi occhi si spalancavano, le braccia tendevano la catena che collegava i ferri intorno ai suoi polsi: anelli più sottili rispetto a quelli che esibiva al circo e che non coprivano le scarificazioni e la vistosa cicatrice sull'avambraccio, testimonianza dei suoi trascorsi di schiavo.

Quando lo sguardo mi cadde sulle ali, sobbalzai anch'io, come se mi avessero pungolata con lo scudiscio.

Dicevano che il taglio delle penne remiganti non provocava dolore, ma, nel guardare l'ala destra dall'insolita forma irregolare, intrappolata insieme all'altra in una rete metallica, mi domandai se fosse vero.

Ma la menomazione era solo temporanea: le piume di un Alato ricrescevano sempre, erano forti come le radici di certi alberi frangivento.

Io deglutii, poi trattenni il fiato per qualche secondo mentre il banditore d'asta dichiarava il prezzo di partenza per l'acquisto dell'azrariano.

Rimasi stupefatta nell'accorgermi che era sorprendentemente basso, inferiore a quello della ragazza del Nord. Eppure gli uomini sulle panche non parevano sorpresi.

Non mi ci volle molto per comprenderne il motivo, mi bastò guardare le sue ali: anche se gliene avevano tarpata una per impedirgli di volare, restavano armi molto pericolose.

Mentre chiudevo un istante gli occhi, per riprendermi dall'amara visione dell'ala sfrangiata da un taglio deciso, il rubicondo banditore d'aste ripeté il prezzo che era stato stimato per Mizrael, ma nessuno si fece avanti. D'altronde chi mai avrebbe voluto uno schiavo che era impossibilitato a lavorare agevolmente, impedito dal peso e dall'impaccio della rete di ferro?

Uno schiavo non produttivo era uno schiavo inutile. E togliere la rete significava rischiare di essere fatti a pezzi dalle lamine esterne delle penne di quelle ali taglienti.

– Allora, signori! – l'uomo esortò la platea. – Possibile che non ci sia nessun'offerta per questo meraviglioso esemplare di uomo alato?

Giocherellai con i grani della mia collana, battendo nervosamente con un piede a terra, quando si levò improvvisa una voce dal forte accento straniero: – Io ho un'offerta da fare!

Mi voltai verso l'uomo che aveva parlato: era vestito in modo vivace, con abiti ampi in cui si alternavano il bianco candido e il verde smeraldo, gli stessi colori dell'elegante turbante che gli copriva il capo. Sul mantello che gli copriva le spalle spiccava la figura di un leone rampante.

Un Leone di Nemea!

Era così che chiamavamo gli abitanti dell'isola di Nemea, un piccolo ma antichissimo principato estremamente ricco che commerciava con diverse città-Stato del continente, tra cui Cartago.

L'uomo si alzò in piedi, lanciando all'Alato una lunga occhiata con cui sembrò analizzarlo in ogni dettaglio. Poi ripeté la cifra che era disposto a pagare: una somma discretamente alta.

– Sarà perfetto per il serraglio del mio principe – aggiunse, con un ampio sorriso.

Mizrael sbatté appena le palpebre, lo sguardo vitreo.

– C'è qualcun altro che offre di più? – chiese l'uomo dall'aspetto rubicondo, continuando ad asciugarsi il sudore con il fazzoletto, ormai quasi completamente bagnato.

Strinsi con forza i denti, facendoli scricchiolare, poi fissai il profilo dello straniero di Nemea.

Un serraglio, pensai. Un maledetto serraglio!

Mi alzai di scatto dalla panca, gridando una cifra leggermente superiore a quella appena offerta.

Un brusio sconcertato si levò alle mie spalle quando avanzai con lentezza, arrivando fin sotto il palco e poggiando entrambe le mani sulla pedana del banditore.

Lui mi guardò stupito, poi chiese di nuovo se ci fosse qualcuno disposto a fare un'offerta migliore.

Il Leone di Nemea si alzò a sua volta, pur restando vicino alla panca sul quale era stato seduto, e propose un prezzo un po' più alto del mio.

Girandomi indietro lo fulminai con lo sguardo, poi tornai a guardare verso il banditore, già stanca di quella irritante competizione.

Senza dire una parola aggirai la pedana, poi, sollevandomi l'orlo della gonna sui piedi, salii i rozzi gradini di legno che portavano sul palco e raggiunsi l'uomo con l'anello di onice.

Lui mi rivolse uno sguardo ammiccante. – La bella signorina della locanda! – esclamò. – Rivederla in un posto come questo mi procura strane sensazioni...

– Rinfoderi pure le sue sensazioni! – replicai, avanzando ancora di un mezzo passo. – E mi dica il prezzo.

Le sue palpebre sbatterono infinite volte. – Il prezzo?

– Sì. Per lo schiavo. Se mi dirà una cifra che potrò pagarle, gliela darò subito, senza battere ciglio, altrimenti non farò più alcuna offerta e lei dovrà accettare necessariamente la proposta del Leone di Nemea.

Sapevo che nessun altro avrebbe osato tanto. E lo sapeva anche lui.

Ma fece finta di pensarci.

Mentre l'uomo si grattava il mento coperto da un velo di barba, sentii lo sguardo di Mizrael su di me. Girai lentamente gli occhi verso di lui, cogliendo nelle sue iridi azzurro-verdi uno sconcerto che non aveva eguali.

Il suo respiro rapido gli faceva gonfiare il petto e fremere i muscoli dell'addome, come se stesse sopportando un peso che non poteva essere solo quello della rete metallica.

Sto facendo una pazzia... Sto facendo una pazzia!

I soldi che avevo messo da parte fino a quel momento sarebbero andati in fumo. Avrei messo a rischio la mia posizione scatenando le ire del barone e...

La voce del mercante di schiavi mi chiamò insistentemente. – Allora, signorina, siamo d'accordo?

Abbassai lo sguardo sulla mia mano destra stretta nella sua, percependo sotto il pollice la consistenza dell'anello di onice. Non avevo nemmeno sentito la cifra che mi aveva chiesto, eppure annuii meccanicamente con la testa.

– Allora affare fatto: quest'Alato d'ora in poi sarà suo.

Restai immobile ad ascoltare il rimbombo del mio cuore che batteva contro le costole, poi provai a incrociare di nuovo lo sguardo di Mizrael, ma lui aveva chinato il capo.

Temetti che la collera che avevo avvertito pulsargli sotto la pelle nella Locanda dei Bastardi stesse per riaffiorare, invece nulla accadde.

Sembrava davvero che davanti ai miei occhi ci fosse un uomo spezzato.

Un uomo che adesso apparteneva a me.


Buongiorno!

State meglio, in questa fase 2? Spero di sì!

Affinché possiate ingannare un po' il tempo, vi ho regalato la parte conclusiva del terzo capitolo di questo libro. Piano piano la storia prende corpo!

Vi aspettavate che l'intenzione di Leda fosse di comprare lei il povero Mizrael?

E che cosa succederà adesso?

Di sicuro Leda non si rende bene conto di quali conseguenze avranno il suo gesto, anche se lo ha intuito. E il nostro angelo demoniaco probabilmente non accetterà in modo passivo di perdere ancora una volta la sua libertà.

Prevedo leggerissime tensioni...

Aspetto pareri e pronostici.

Un bacione <3


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