PROLOGO

La notte è passata, credo.
Scorgo un chiarore filtrare dall’unica apertura presente nella cella. Una sbrecciatura nel muro che ho ampliato per farci passare la mano, ma che non rende più cedevole il perimetro della mia prigione. In qualche modo mi sento fortunata a percepire questa specie di luce, a toccarla, quasi. Credo che mi si sia rotto qualcosa nella testa, perché da quando l’Uomo me l’ha sbattuta per terra non riesco più a vedere niente, se non le fonti molto luminose e le ombre che si frappongono tra me ed esse.
Ed è peggio delle umiliazioni, peggio della mia nudità esposta, peggio degli abusi. Perché adesso si è rotta anche la mia forza di volontà. L’Uomo è riuscito a piegarla e a spegnere il mio spirito.
Cosa lotto a fare se fuori di qui non mi aspettano né Alexander né la possibilità di tornare a curare le persone? In questa cella buia nemmeno quello spiraglio di libertà che mi ha consolata nei momenti peggiori, ora sfocato alla mia vista malconcia, alimenta il sogno di poter sopravvivere a ciò che mi è capitato. Quante volte ho infilato le dita tra le pietre per farle scaldare dal sole? Quante volte mi sono ripetuta che avrei fatto di tutto per tornare libera, per riprendermi la mia esistenza, senza permettere all’Uomo di schiacciarmi, di farmi perdere le speranze, di strapparmi il futuro dalle mani?
Tutto questo era prima, perché ormai l’ho compreso: non uscirò da questa prigionia e finalmente, dopo tanti scontri, l’ho accettato.
Cerco a tastoni il secchio in cui poter svuotare la vescica e presto la massima attenzione a non farlo cadere, memore di quando ne ho rovesciato il contenuto sul pavimento e sono stata costretta a dormire sulla mia stessa urina. Mi piego e tutto gira. Mi aggrappo al muro e mi libero, con dolore. Mi fa male tutto. La pancia, la testa, gli occhi. Là in basso.
Mi chiedo quando il mio corpo accetterà che non serve a niente continuare a funzionare, perché Skylar Richardson è già morta. Torno ad accucciarmi nell’angolo più lontano dall’ingresso della cella e cerco la voce immaginaria di Alexander, quella che mi ha fatto compagnia giorno e notte nella mia mente persa, per estraniarmi dalla sofferenza che provo ovunque.
Ma quella voce non esisteva prima e ora non è più qui. Gli fa schifo ciò che ha visto, non vuole più parlare con me. Non la sento più. Credo di sapere in parte cosa mi sia successo: trauma cranico e relativa cecità funzionale. Ciò che non so, e che probabilmente non scoprirò mai, è se sia una condizione temporanea o permanente. Quanti colpi alla nuca contro le piastrelle di un bagno immacolato ci vogliono per rendermi cieca per sempre? La luce è scomparsa. Forse è di nuovo notte.
Ciò che mi ha fatto l’Uomo…umiliazione dopo umiliazione…alla fine si è appropriato di qualcosa che non gli apparteneva e che non apparterrà mai più a nessuno. Cerco di trattenere le lacrime che peggiorano il dolore che provo, così intenso da spaccarmi in due il cranio, ma quelle scendono, copiose, incuranti dell’istinto di sopravvivenza che mi prega di smettere. Singhiozzo così forte da coprire il rumore del chiavistello che si sblocca, ma non abbastanza da non farmi percepire che l’energia nella stanza è cambiata: l’Uomo è tornato.
«Ti prego», balbetto. Mi metto in ginocchio a fatica, la stanza oscilla e tenere su la testa è troppo difficile. Porto le mani di fronte a me, con i palmi aperti, il capo chino a mostrare ciò che rimane dei miei pochi capelli e delle mie ossa rotte. Soffoco lo strazio del mio polso spezzato ed espongo la mia resa. Dei polpastrelli mi sfiorano e una presenza incombe su di me.
«Ti prego», supplico le mani che mi stringono la carne, la voce che mi arriva ovattata, l’ombra che mi spara in faccia una luce che mi acceca ancora di più e mi provoca stilettate di dolore ovunque, gettandomi nella cecità più completa.
«Ti prego», ripeto piagnucolando, senza più alcuna vergogna. «Ti prego, uccidimi.»
  

 

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