II - Il Maliardo
Villa Afrodite, come Lady Cheshire aveva pomposamente denominato la propria dimora, spiccava come una colomba in uno stormo di tortore, nel guazzabuglio di edifici azzurri e grigi del quartiere di Kensington; facendo impallidire le altre costruzioni per bellezza e splendore: le forme classicheggianti dell'architettura neogotica erano state messe in risalto dalla tinteggiatura candida, che difficilmente riusciva a passare inosservata e calamitava subito lo sguardo di chiunque si avventurasse nel quartiere. Non appena la carrozza svoltò nel viale alberato, permettendo di scorgerne qualche sprazzo tra le fronde degli ippocastani, ne venni subito attratto e il mio sguardo rimase avvinghiato alla villa fino a quando il veicolo non ebbe attraversato gli imponenti cancelli di ferro battuto della proprietà. Il metallo era stato piegato e modellato in forma di calle, intrecciate mollemente a gigli e crisantemi.
I miei occhi sgusciarono dalla bellezza rigida e ordinata della villa, a quella selvaggia eppure ponderata del giardino all'inglese che la circondava: un tripudio di alberi secolari, rigogliosi cespugli, specchi d'acqua e costruzioni di marmo, sapientemente distribuiti come se fosse stato il caso a determinare la loro posizione; il parco si contrapponeva armoniosamente alle forme icastiche della villa, e le piante e gli cespugli di rose parevano languire assieme alla costruzione sotto la lieve carezza del sole morente.
La carrozza si arrestò nello spiazzo antistante la magione, dominato da una fontana in cui putti ignudi versavano cascate di acqua cristallina su nereidi dalle forme prorompenti che fuggivano dalle avances di nerboruti tritoni vogliosi; dall'alto, una Venere di marmo osservava la scena, esibendo le forme perfette in una danza immobile.
Avevo sempre trovato volgare ed esagerata quell'ostentazione esasperata di erotismo: non ne avevo mai capito il senso, sebbene spesso e volentieri mi abbandonassi a questi piaceri. Ma vedermi rinfacciare in maniera tanto spudorata la mia lussuria mi infastidiva.
Scesi elegantemente dalla carrozza e sistemai le pieghe della giacca blu notte, confezionata secondo i canoni della moda rigida e sobria che stava dilagando in quel periodo: volevo presentarmi al meglio.
Passai accanto alla fontana e, sebbene non fossi mai stato superstizioso, sfiorai il seno prorompente della nereide che si stava sporgendo verso di me; il marmo era diventato lucido per le molte dita che lo avevano accarezzato: Lady Cheshire aveva diffuso la voce secondo cui quel seno portasse fortuna, e io, quella sera, ne avevo un disperato bisogno.
«Vi presentate ancora con il vostro nome,» mi accolse Lady Cheshire in un fruscio di gonne pervinca «sebbene siate stato diseredato.»
Una delle doti più apprezzate di Diana Sophie Cheshire era la sincerità, ma questa non era stata corredata né dal tatto né dalla discrezione, bensì dall'abominevole dono di lasciarsi sfuggire le considerazioni più sconvenienti nei momenti meno opportuni e a voce piuttosto alta.
«Fino a domenica mattina sono ancora un Blackwood» replicai, fingendo di non essere stato sfiorato dalla palese offesa, «e intendo approfittare il più possibile di questo privilegio, fin tanto che ne avrò la possibilità» e depositai un bacio leggero sul guanto di pizzo della padrona di casa. Una delle qualità di cui andavo più fiero era la mia galanteria, capace di conquistare e irretire anche le dame più restie.
L'accoglienza di Lady Cheshire si rivelò essere solo un preludio a ciò che mi avrebbe atteso al mio ingresso nella sfarzosa sala da ballo: sguardi eloquenti, sussurri e brusii furono la prova che in quella città, per quanto grande, le voci corressero in fretta e la decisione di mio padre fosse diventata di dominio pubblico nel giro di mezza giornata.
Vincent Blanchard Blackwood, secondo del suo nome, Duca di Queensbury, aveva preso l'irrevocabile provvedimento di lasciare le proprie sostanze e i propri possedimenti al secondogenito, reputando il primo un totale inetto, un mentecatto e un parassita, immeritevole della cospicua eredità dei Blackwood dal momento che sarebbe stata dilapidata in fuggevoli piaceri carnali. Ero da sempre stato considerato una delusione e una vergogna imbarazzante per mio padre, e negli ultimi anni aveva rafforzato la convinzione che non sarei stato un buon erede e che lasciare a me la direzione dei suoi possedimenti e delle sue sostanze avrebbe significato la rovina della famiglia e il disonore della casata: sarei stato capace di infangare la loro reputazione e il loro nome. Non ero degno di portarlo, e mio padre aveva pensato bene si sottrarmelo assieme al mio titolo, alla mia posizione e alle mie ingenti ricchezze. Tra meno di quattro giorni non sarei stato altro che un uomo.
Mi aveva concesso la grazia di novantasei ore, durante le quali avrei dovuto trovare una sistemazione, un patrono, un lavoro, un espediente qualsiasi per sopravvivere.
«Potresti diventare ricco come quei borghesi affamati di titoli nobiliari» erano state le sue parole di congedo «E comprarti il titolo di conte come molti di loro hanno fatto.»
Attraversare la sala mi fu penoso: tutti quegli sguardi calamitati su di me mi mettevano in soggezione, sebbene non mi fosse mai dispiaciuto monopolizzare l'attenzione, e i pettegolezzi che saltavano di bocca in bocca mi facevano sentire a disagio; i sorrisi artificiali e gli sguardi di maligna compassione mi nauseavano, ma rispondevo ad essi con cortesi cenni del capo e sorrisi smaglianti. Non avrei permesso a quegli avvoltoi vestiti di raso e gemme di banchettare con la mia vergogna: la nobile aristocrazia inglese si beava di quelle notizie, se ne nutriva e le stanava, le cacciava come una belva affamata, come un segugio, e vi si incollava come una sanguisuga, ingrassando con i fallimenti e la disperazione altrui. Ma non mi sarei abbassato a diventare il loro appetitoso rinfresco.
Attraversai la sala a testa alta, fiero e vagamente sprezzante, quasi che le occhiate che mi lanciavano non mi sfiorassero nemmeno, ma cadessero come strali scagliati da un arciere dalla pessima mira.
Notando che non avrei dato loro alcuna soddisfazione e non avrei raccolto la minima provocazione, gli ospiti tornarono alle loro occupazioni precedenti: un brusio indistinto riempì di nuovo la sala scintillante e il quartetto d'archi riprese a suonare, mentre le coppie danzanti scivolavano verso il centro della stanza.
Tirai un sospiro di sollievo e infilai due dita nel colletto inamidato, fattosi improvvisamente stretto e soffocante: quella camicia, chiusa da una cravatta di seta azzurra, mi ricordava il nodo scorsoio di un condannato a morte, e il caldo della sala e l'aria pesante e fremente che vi si respirava non erano di grande ausilio.
Un cameriere volteggiò accanto a me, sorreggendo un vassoio d'argento costellato da bicchieri di ponce; senza pensarci due volte afferrai uno dei bicchieri al volo e ne trangugiai il contenuto. Quella sera avevo bisogno di essere spigliato e intraprendente, e l'alcol l'avrebbe aiutato a sciogliermi.
Sondai con lo sguardo la sala e i suoi ospiti alla ricerca di coloro che mi interessavano e per i quali, quella sera, avevo ardito a presentarmi al ricevimento di Lady Cheshire: si diceva, infatti, che vi erano stati invitati anche gli eminenti membri del Circolo e che gli stessi vi avrebbero partecipato. Il Circolo era un'associazione estremamente potente e influente e se fossi riuscito a convincerli ad essere ammesso tra le loro fila, avrei dimostrato a mio padre di non essere quel buono a nulla che credeva. La selezione per entrare nel Circolo era severissima, e solo pochi fortunati avevano l'onore di potervi prendere parte: avrei dovuto impressionarli e dimostrare loro che rappresentavo un elemento fondamentale e indispensabile, di cui il Circolo mancava e di cui non avrebbero potuto più fare a meno. Ma avevo ben poco da offrire alle figure più ricche, stimate e temute della città: non potevo più contare né sul mio nome, né sul peso del mio casato o delle mie ricchezze, non avrei potuto fare promesse che sarebbero state infrante entro pochi giorni. Il nome dei Blackwood incuteva ancora rispetto e una sorta di timore reverenziale, ma sarebbe servito a ben poco se mi fosse stato strappato di lì a poco.
Individuai il gruppo del Circolo, appartato in un angolo lontano dalla pista da ballo e distante dal resto degli invitati; indossavano abiti vistosi che spiccavano per il loro anacronismo, i tagli e i colori appartenevano all'epoca precedente, segno che non avevano ceduto all'omologazione e alla conformazione con le mode del momento. Ciascuno di loro sfoggiava una rosa rossa, simbolo del loro gruppo elitario e ristretto: Lady Geogiana Winsey l'aveva intrecciata alla folta capigliatura scura, Lord William Blossom l'aveva appuntata al bavero della giacca di velluto blu, così come la maggior parte degli altri uomini; Lady Vyolet Herrick aveva disseminato un intero prato di rose di stoffa sulla scollatura generosa dell'abito rosa confetto, mentre Henry Wellesley giocherellava con la sua, tormentandola tra le dita. Quest'ultimo era l'unico a non indossare pantaloni al ginocchio bensì pantaloni lunghi e neri così come la marsina; risaltava come un corvo in uno stormo di colombe. Era il più giovane membro del Circolo, entrato a farne parte appena una settimana prima, come successore del padre defunto.
Era suggestionato da quelle figure, o per meglio dire, da ciò che essi rappresentavano; Lord Wellesley mi sembrava il più malleabile e accondiscendente, se fossi riuscito ad avvicinarlo e a sfoggiare le mie arti oratorie, forse sarei riuscito ad irretirlo abbastanza da fagli strappare la promessa di spendere una buona parola per me con gli altri membri.
Mi avvicinai a loro lentamente, cautamente, il cuore che batteva nelle orecchie e mi rintronava. Deglutii, sistemai la giacca e la cravatta, feci un respiro profondo. E fuggii.
Tornai sui miei passi, quasi di corsa, e mi rintanai su un divanetto nascosto, dall'altra parte della sala, ben lontano dal Circolo. Mi sentivo un viscido codardo, di quelli che avevo sempre disprezzato, ma all'ultimo il mio buon senso aveva decretato che quella di venire a quel ricevimento era stata un'idea sciocca e una perdita di tempo: come avrei potuto accostarmi a loro se non avevo nemmeno nulla da offrire e non avrei saputo dirli mezza buona ragione perché dovessi essere parte dell'associazione?
Mi sentivo un idiota ed un fallito, esattamente come mi padre mi aveva definito fino a poche ore prima; forse aveva ragione.
Cosa mi aveva spinto ad un'azione tanto avventata, inconcludente e stolta?
Con un sospiro feci un cenno ad un cameriere perché mi portasse dell'altro ponce: non volevo che la serata si concludesse in un completo disastro e fino a quando avrei potuto godere dei privilegi di essere un Blackwood, li avrei sfruttati fino in fondo, racimolando quanto più potessi da quell'ultima serata da conte.
Ero immerso nel quarto o quinto bicchiere quando notai, per un fuggevole attimo, un movimento che mi era parso fuori luogo in quella sala, come uno spasmo convulso; proprio perché inopportuno, era subito balzato al mio occhio vigile e attento.
Il movimento si ripeté, e questa volta fui sicuro che non si trattasse di un'allucinazione: uno dei camerieri aveva preso a muoversi in maniera meccanica e parecchio ridicola, imitando i movimenti delle marionette nei teatrini di strada della domenica mattina, e suscitando l'ilarità di coloro che gli stavano accanto. Gli ospiti erano convinti si trattasse di un qualche espediente inventato dalla loro ospite per divertirli, ma l'espressione genuinamente sorpresa e confusa del cameriere, suggerivano che lo stesso fosse all'oscuro di tutto.
Corrugai la fronte, cercando di dare una spiegazione a quel fenomeno anomalo: perché mai, di punto in bianco, un cameriere avrebbe dovuto atteggiarsi a marionetta?
Ero più che certo che non si trattasse di qualche distrazione ingegnata da Lady Cheshire per allietare i propri ospiti, e avevo studiato e letto abbastanza volumi da poter affermare che si trattasse di una qualche sorta di incantesimo o malocchio. Non erano studi abituali e diffusi, ma la mia famiglia era abbastanza particolare da potersi permettere di approfondire un simile argomento.
La magia era stata violentemente repressa negli anni precedenti con la sanguinosa caccia alle streghe, e gli strascichi di quella strage ancora guizzavano negli sguardi dei nobili più anziani e impressionabili. I roghi che avevano illuminato le città a giorno avevano provato a debellarla, ma questa non aveva mai smesso di esistere, diventando, per istinto di conservazione, una pratica segreta e taciuta, esercitata in privato e senza eclatanti dimostrazioni. Coloro che la eseguivano non amavano renderlo pubblico, e lasciava basito che un qualche mago se ne servisse così apertamente, e per mero gusto del divertimento.
Scandagliai attentamente la sala, alla ricerca della fonte e la individuai in un giovane che, affondato comodamente in una poltroncina, si stava sganasciando dalle risate. Il particolare che più mi colpì, fu il movimento delle dita, discreto e impercettibile, ma che per uno sguardo allenato e acuto, come il mio, non sfuggì: pareva che il giovane muovesse dei fili invisibili e con essi, il povero cameriere, vittima dei suoi sollazzi.
Mi alzai dal divanetto e puntai verso il giovane, intenzionato ad approfondire la sua natura e quella dei suoi poteri. Non era la prima volta che avevo a che fare con un praticante della magia e la maggior parte si erano rivelati o scontrosi e restii a condividere le proprie conoscenze, o gelosi di queste e tanto superbi e presuntuosi da non ritenere altri capaci di poterle comprendere e apprezzare.
L'altro si accorse del mio avvicinarsi, all'apparenza indifferente, e smise di muovere le dita, abbandonando la mano sopra l'altra, adagiata sulla gamba accavallata.
Si trattava di un giovane di bell'aspetto, con capelli castano scuro leggermente mossi e gli occhi di una sfumatura castana talmente chiara, da sembrare dorati, come quelli dei felini. Vestiva secondo i dettami di Beau Brummel: indossava una giacca da frac grigio chiaro e pantaloni attillati color crema, come la camicia; un fazzoletto grigio perla era avvolto attorno al collo, fermato da un topazio mentre una gardenia occhieggiava dal bavero della giacca. Nel complesso si presentava come un individuo elegante, raffinato e distinto, nonostante la tagliente scintilla maliziosa che accendeva il suo sguardo.
Mi scrutò incuriosito e vagamente divertito, l'ombra del trastullo precedente che ancora indugiava agli angoli della bocca, dalle labbra ben disegnate e piene.
«Siete venuto qui per rimproverarmi?» mi accolse.
«Rimproverarvi?» domandai a mi volta, confuso.
«Per aver usufruito della magia in maniera così manifesta e sconsiderata» continuò lui, dichiarando apertamente di essere un individuo con capacità magiche.
«In realtà non sono un membro del Circolo» risposi. Non ancora, perlomeno aggiunsi mentalmente.
«Non ancora almeno.»
«Come?» domandai, colto alla sprovvista dall'affermazione dell'altro; sembrava quasi che mi avesse letto nel pensiero, e mi trovai a domandarmi se le sue abilità comprendessero anche quello.
«Ho notato come avete provato ad avvicinarvi a loro, ma non ne avete avuto il coraggio» rispose l'altro, dando prova anch'egli di una grande attenzione, «E non penso che la vostra intenzione fosse quella di intavolare una conversazione con la spocchiosa Lady Winsey, non con lei soltanto, almeno.»
Era stato davvero così lampante il mio intento? E se quel giovane non fosse stato l'unico a notarlo? Se anche i membri stessi se ne fossero accorti? Avrei fatto una figura decisamente imbarazzante!
«Non vi preoccupate» mi rassicurò, «Erano tutti troppo occupati a confabulare fra di loro perché prestassero attenzione a voi. Ma, mi vergogno a dirlo, per quanto mi riguarda vi ho tenuto d'occhio per tutta la serata...Non fraintendetemi, non avevo alcuna intenzione di importunarvi, ma il mio sguardo è stato subito calamitato da voi...Spero non vi sia dispiaciuto.»
Non sapendo cosa rispondere, mi limitai a scuotere la testa.
«Siete un personaggio davvero interessante. E non solo per le voci che circolano sul vostro conto.»
«Quali voci?» domandai con voce strozzata. Speravo vivamente che non fosse trapelato nulla circa la natura della nostra famiglia, o avrebbe significato la nostra estinzione: non tutti riuscivano a raggiungere compromessi e a capacitarsi dell'esistenza di creature sovrannaturali non necessariamente diaboliche. Il Circolo era nato proprio per preservare queste creature dall'isteria di uomini dalla mente chiusa e retrograda.
«Quelle sulla decisione presa da vostro padre, naturalmente!» ammiccò il giovane, lasciando intendere che, in realtà, sapesse molto di più di quanto volesse far credere.
Mi sentii rincuorato, almeno per il momento: il segreto della mia famiglia pareva essere al sicuro.
«Immagino che sia il principale argomento di conversazione di questa serata» commentai.
«Godono nel vedere il fallimento di un altro, perché non è accaduto a loro e si sentono protetti e graziati» rispose il giovane gettando un'occhiata alla sala, le sue iridi chiare trasudavano disprezzo.
«Non prestare loro attenzione, sono solo dei meschini parassiti, che anelano a vedere gli altri cadere nel fango per sentirsi superiori nella loro piccolezza.»
«Sono parole dure» commentai.
«L'aristocrazia è condannata: la borghesia arricchita preme alle porte dei palazzotti per entrarvi e i nobili si sentono minacciati, hanno paura di venire schiacciati dal peso dell'oro di questi nuovi ricchi. Dal canto loro, non hanno nulla da offrire se non il proprio nome: un'entità eterea e immateriale, che almeno per il momento, gli protegge come uno scudo dalle pretese della borghesia...Si sono barricati dietro questa ipocrita sicurezza, trasformando la classe in un gruppo elitario, in cui solo i più meritevoli meritano di restare; e la clausura forzata e la paura non hanno fatto altro che esacerbare gli animi e inaridire i cuori, rendendo tutti più suscettibili, disgraziati e violenti. Rinchiudete in una stessa stanza delle vipere e gettate la chiave, vedrete come queste inizieranno ad aizzarsi l'una contro l'altra»
Il giudizio affilato e atroce del giovane mi lasciarono senza parole: la sua visione era cupa, negativa e disperata. Ci mostrava come una casta destinata all'autodistruzione, soppiantata da una borghesia, che con solerte impegno e fatica, aveva accumulato abbastanza ricchezza da pretendere una maggiore considerazione. Nemmeno a me erano sfuggiti questi piccoli cambiamenti, queste quasi impalpabili sommosse che sconvolgevano appena la superficie placida di un lago, ma che rappresentavano il preludio per qualcosa di più grandioso e distruttivo. Lo stesso ricevimento di Lady Cheshire era un inno alla nobiltà, alla sua purezza e alla sua distinzione dalla massa amorfa e arrivista della borghesia.
«Avete una visione ben precisa della realtà, sir...»
«Sono stato un gran maleducato!» esclamò questi, riprendendosi dal suo monologo ispirato e tornando a fissare lo sguardo su di me, «Io so praticamente tutto di voi, ma voi non sapete assolutamente nulla di me!»
Con un sorriso smagliante si alzò e mi porse la sua mano destra, sull'anulare scintillava un anello con sigillo, simbolo della sua casata, «Percival William Gray, Marchese di Hereford» si presentò.
Gli strinsi la mano, cercando di nascondere il tremore che quel nome tanto ampolloso aveva provocato: si trattava di una figura importante, un nobile di alto rango, per quanto anch'io, se avessi mantenuto il mio nome, avrei acquisito quel titolo dopo la morte di mio padre.
«È un onore conoscervi» recitai diligentemente.
«Suvvia, accantoniamo questi cerimoniali spocchiosi e polverosi. L'era delle farse sfarzose e delle parrucche ridicole è terminata, solamente quei barbagianni del Circolo pretendono di difendere strenuamente usanze ormai cadute nel ridicolo.»
«Non sembra che li vediate molto di buon occhio» cercai di sondare il terreno.
«Anche se fosse, non potrei mai dirlo apertamente. Ritengo un atteggiamento profondamente meschino parlare male dei propri patroni e protettori.»
«Quindi voi...?» domandai sorpreso. Percival rise di nuovo, prendendosi gioco della mia ingenuità.
«Penso che abbiate compreso da voi chi io sia» sorrise.
«Un mago» sussurrai.
«Un Maliardo» mi corresse. Accompagnò le sue parole con un gesto elegante delle dita, e un cameriere, come mosso da una forza misteriosa e attratto inspiegabilmente da noi, incespicò fino al cospetto di Percival, come se vi fosse stato trascinato da fili invisibili.
Questi offrì un calice di vino color sangue al marchese, lo stupore e la confusione dipinte sul suo volto, così come la stessa espressione lampeggiava pochi attimi prima negli occhi dell'altro cameriere.
«Siamo un po' più complessi dei banali maghi che praticano trucchetti illusori nei teatri» continuò centellinando la bevanda.
«Cosa intendete?» domandai, «Non praticate la magia?»
Percival scoppiò a ridere di nuovo, questo suo atteggiamento stava iniziando ad innervosirmi: mi sentivo costantemente schernito e sottovalutato da quel giovane di poco più grande di me.
«Definiamo magia tutto ciò che non possiamo spiegare con la logica, ma le mie capacità sono perfettamente comprensibili» mi fece cenno di prendere posto accanto a lui, e si strinse su un lato del divano di broccato per permettere anche a me di accomodarmi.
Sedetti esitante: non ero ancora pronto ad accettare quello che mi avrebbe rivelato: si prospettava una storia fantasmagorica, e per quanto avessi sempre studiato e fossi entrato più volte in contatto con la magia, e sebbene avessi visto con i miei occhi quegli eventi inspiegabili, ero scettico, e mi sarei soffermato a riflettere profondamente su ogni sua parola.
«Vedete, noi utilizziamo solo una minima parte del nostro cervello, una percentuale estremamente esigua, ma vi sono alcuni che hanno trovato un modo per utilizzare una maggior frazione del nostro potenziale, una porzione più ampia: i Maliardi, appunto. Chiamati così perché capaci di irretire e controllare le menti più deboli e grette, piegandole alla propria volontà. Siamo più intelligenti, in un certo senso, perché utilizziamo una porzione maggiore della nostra mente, e con essa affasciniamo e ammaliamo, appunto.»
Scoppiai a ridere a mia volta: la sequela di corbellerie che quel giovane aveva appena pronunciato era stata esilarante. Non avevo mai sentito supposizioni più assurde ed infondate. Per quanti progressi la scienza avesse compiuto, nessuno studioso era mai giunto a concludere simili assurdità.
«Non mi credete, come immaginavo» sospirò Percival, abbandonandosi contro lo schienale del divano, «Eppure dovreste essere un esperto di questo genere di argomenti.»
«Cosa stareste insinuando?» mi ripresi subito.
«Suvvia, smettetela di fingere con me. Come Maliardo tutto quanto esula dall'ordinario è per me lampante e luminoso. So cosa siete voi Blackwood, e comunque, non sono segrete le insinuazioni sul vostro conto.»
Mi morsi le labbra in un gesto istintivo, per quanto ci sforzassimo di mascherare la nostra natura e adattarla a quella dei comuni mortali, le nostre particolarità e stranezze sarebbero state sempre in risalto.
«So che è vostro dovere studiare tutte le forme di magia, e se ciò può aiutarvi a comprendere la natura delle mie capacità...consideratela come tale. Sebbene la definizione sia impropria e restrittiva, può essere ricondotta ad essa.»
I fatti supportavano l'ipotesi che Percival non avesse mentito e fossero davvero esistenti persone in grado di controllarne altre con la semplice forza della loro mente. Pensai a quello che avrei potuto ottenere se mi fossi impossessato di tale capacità: il Circolo non avrebbe esitato ad accettarmi, comprendendo come potessi risultare tanto prezioso tra le loro fila, quanto pericoloso al di fuori.
«Potrebbe insegnarmi?» domandai in un verso strozzato.
Lo sguardo dell'altro iniziò a scandagliarmi, come se cercasse di leggermi dentro e mi provasse, per vedere se fossi all'altezza per ricevere un potere di tal guisa.
«Non è una capacità che si insegna, ma la si acquisisce in maniera...anticonvenzionale, secondo alcuni.»
«Cosa intendete?» domandai, iniziando a preoccuparmi.
«Consiste in un passaggio passivo di conoscenze e si attua con un'iniziazione che comprende un atto sessuale» il candore con cui pronunciò quelle parole mi lasciò allibito.
Ero costernato: quell'uomo voleva approfittare di me e aveva inventato la storia sui Maliardi per adescarmi; non riuscivo a credere quanto vile e meschina potesse rivelarsi la natura umana!
«Non è come credete» cercò di spiegarsi, «Ma questa conoscenza ha bisogno di una privazione totale delle inibizioni per essere appresa, e l'unico momento in cui siamo realmente e inconsapevolmente liberi da queste inibizioni è durante l'orgasmo. In molte culture l'atto sessuale veniva utilizzato come mezzo per facilitare le pratiche divinatorie e il contatto con una dimensione ulteriore, e la Malia stessa riposa oltre i confini del conosciuto e del razionale, o almeno di quello che viene considerato logico dalla mente ristretta e chiusa degli uomini.»
La sua spiegazione sembrava essere stata creata a regola d'arte, era fin troppo convincente nella sua incredibilità.
«Cosa avete da perdere?» provò a convincermi, «Non avete nulla da offrire al Circolo, e la Malia potrebbe rappresentare una moneta di scambio parecchio allettante per quei corvi arcigni. Pochi eletti sono a conoscenza di questo potere e voi risaltereste subito ai loro occhi se scoprissero che lo possedete. Perché non tentare?»
«Andrei contro i miei principi morali!» ribattei. Non mi sarei mai piegato ad accondiscendere alle richieste di quell'uomo, nemmeno sull'orlo della disperazione.
«I principi morali sono buoni solo per i codardi, quando vogliono giustificarsi! Non esistono principi morali, non nell'accezione sua propria, o tutti gli infrangeremmo in continuazione.»
Il marchese si era alterato, e le sue iridi si erano accese di rabbia. Quello sguardo mi terrorizzava e mi preoccupava e temetti che potesse farmi del male.
«Non voglio obbligarvi» continuò calmandosi, «Ma sappiate che se è vostro desiderio apprendere la Malia, dovrete sottoporvi a questa umiliazione.»
Mi concessi un paio di secondi per riflettere: assieme a quella capacità avrei ottenuto la possibilità di riscattarmi, oltre che un immenso potere che sarebbe potuto rivelarsi utile in molteplici occasioni.
Fui costretto ad ammettere a me stesso che Percival, in fondo, aveva ragione: non avevo nulla da perdere, tutto quello che poteva essermi tolto mi era stato strappato e l'unica maniera che avevo per riconquistarlo sembrava essere rappresentato da quella Malia misteriosa eppure promettente.
«Mi assicurate che sia l'unico modo?» sussurrai con voce rotta.
Percival annuì serio.
Mi morsi le labbra, gettando uno sguardo ai membri del Circolo: la loro postura e il loro atteggiamento emanavano potenza e suscitavano un naturale rispetto frammisto a un timore quasi reverenziale.
Avrei voluto anche io essere trattato nello stesso modo e provare la stessa sensazione di potenza e comando.
Emisi un lungo sospiro che l'altro interpretò come la mia decisione definitiva.
«Lady Cheshire tiene sempre un paio di stanze pronte nel caso i suoi ospiti vogliano intrattenersi con contatti più intimi» mi sussurrò all'orecchio, mentre la sua mano si arrampicava lungo la mia coscia.
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