Giovedì

«La ringrazio infinitamente, arrivederci» disse mia mamma chiudendo la millesima conversazione telefonica. Poi iniziò a digitare un altro numero che aveva appuntato sul foglio davanti a lei. «Salve sono la signora...» ripeté nuovamente il suo monologo. Ormai era diventata un'unica cosa con il cellulare mi stava prenotando visite a destra e sinistra senza nemmeno chiedere il mio parere. Naturalmente non avevo nessun impegno in particolare, tralasciando l'odioso psicologo "Uhm." Conoscevo il suo vero nome, ma questo mi sembrava più appropriato dato che quelle tre lettere potevano immediatamente far capire a tutti la sua spiccata intelligenza ad analizzare i pazienti. Ero convinta che anche sulla sua tesi di laurea ci fosse come titolo "Le importanti uhm delle uhm uhm uhm umane."

«Bene» dichiarò soddisfatta mia mamma chiudendo anche l'ultima conversazione. «Questo è il calendario delle tue prossime visite. Iniziano da lunedì e finiscono...»

«Il giorno del mio funerale.» La interruppi ironica. Lei mi fissò con sguardo truce e per niente divertita dalla mia battuta. Stava appendendo al muro il calendario tutto pieno di scritte e appuntamenti con futuri dottori.
«Ti accompagno a scuola va a prepararti» disse uscendo dalla cucina e lasciandomi sola a contemplare quell'opera di arte moderna che mi impegnava ogni giorno della mia inutile vita. Mi passa una mano in faccia per tentare di eliminare la disperazione che mi stava avvolgendo completamente.
In macchina non ci rivolgemmo parola, sembrava ancora arrabbiata con me per le battute di prima. O forse c'era dell'altro che il mio piccolo cervelletto da adolescente poco matura non riusciva a comprendere con esattezza.

«Buona giornata» mi salutò scoccandomi un sonoro bacio sulla guancia e sorridendomi calorosamente. La vista della scuola l'aveva messa di buon'umore o era il fatto che per qualche ora si sarebbe liberata di me? Non riuscivo mai a comprendere cosa passasse nella mia testa, figuriamoci in quella di mia mamma.

La prima ora fu una noia mortale e venni richiamata sull'attenti almeno quattro volte dall'insegnate. Ma non potevo farci niente se del greco non poteva fregarmene di meno. E per la testa continuavano a passarmi le immagini di ieri sera e di tutto quel sangue.
Durante la pausa pranzo venni letteralmente buttata fuori dall'aula perché due miei compagni volevano un po' di privacy. Disgustata non me l'ero fatto ripetere due volte. Stavo per entrare nel bagno delle ragazze, dove prospettavo di passare i minuti restanti della pausa quando una voce mi fece drizzare le orecchie.
«Ti ho detto che devi andartene!» tuonò qualcuno minacciosamente. «Questo posto non fa per te.»

«Sarò io a deciderlo» rispose un'altra voce. Provenivano entrambe dal bagno dei maschi e i toni sembravano essere piuttosto accesi.

«Credi che perché sei conciato in quel modo non possa darti una lezione» minacciò la prima voce. Ero già sicura di averla sentita da qualche parte. «Gli occhiali non mi fermeranno.» A quel punto sentii un forte impatto e senza pensarci spalancai la porta. 

Per la prima volta nella mia vita entrai nel bagno dei maschi. Sinceramente avrei preferito risparmiarmi quella puzzolente esperienza di piscio. La scena che mi trovai davanti era più o meno questa: il lui enigmatico che mi aveva intercettato nella mia aula aveva sferrato un pugno a un ragazzo molto più basso ed esile. Degli occhiali rotti erano riversi sul pavimento ricco sicuramente di germi. Ble. Il lui stava per mollare un altro gancio destro al ragazzo, non si era accorto della mia presenza e quindi quando mi posizionai tra i due –mossa alquanto ridicola- mi beccai un bel pugno in faccia. La testa quasi mi si torse e per poco non si staccò dal collo. Un dolore fortissimo mi fece quasi lacrimare gli occhi. Lui sembrò inizialmente incredulo dovette sbattere gli occhi tre volte prima di mettermi a fuoco.

«Che ci fai tu qui?» sbottò adirato. «Vattene.» Il suo braccio si mosse velocemente in aria e istintivamente avevo chiuso gli occhi per paura di ricevere un altro pugno, ma quando li riaprii capii che stava semplicemente indicando la porta.
Stavo per dirgliene quattro sul fatto che lui non fosse nessuno per dettare legge e che doveva smetterla di prendersela con i più deboli, ma qualcuno entrò sbraitando.

«Cosa ci fai tu qui?» Inizialmente stavo per scoppiare a ridere. Il prof. Garred era entrato dicendo la stessa frase di lui e aveva quasi la stessa espressione alterata, con l'unica differenza che uno dei suoi sopraccigli si alzo ogni secondo di più mentre attendeva una mia spiegazione. Io dal canto mio aspettavo che il prof. si rendesse conto da solo della situazione e del perché fossi in quel posto. Peccato però che ogni volta l'intuito porta le persone verso strade sbagliate. Così cominciai a dire «Vede io non volevo entrare ma lui...» Il prof. non mi fece nemmeno finire la frase. «Tu immediatamente in presidenza!» urlò Garred puntando il dito contro lui. «Per aver tentato di molestare una tua compagna di classe.» Tentai di parlare di nuovo ma l'insegnate mi zittì infastidito con un gesto della mano. «Allora?» disse impaziente vedendo che lui non si muoveva di un passo. «Ti accompagnerò personalmente» aggiunse in tono autoritario. Poi si rivolse a me e allo sfortunato ragazzo vittima di bullismo «Tornate nelle vostre classi con voi parlerò dopo.» Lui e il prof. uscirono ma non prima che il ragazzo enigmatico mi scoccasse un'occhiataccia glaciale. Sembrava voler dire «La pagherai!» Un brivido mi percorse tutta la schiena.

«Tutto bene?» chiese la vittima indossando gli occhiali dopo averli sciacquati e asciugati distrattamente sulla maglietta che citava il nome di una band musicale in voga negli anni 70'. Io annuii pensando ancora allo sguardo di lui.
«Tieni» disse porgendomi un tovagliolo di carta con mani tremanti. «Il tuo naso sanguina un po'.» Portai una mano sopra il labbro inferiore e sentii quella consistenza ormai a me troppo nota. Non lo guardai. Sarei sicuramente svenuta. Presi il fazzoletto cercando di controllare la respirazione e tamponai il liquido.
«Sono Luca» disse poi sorridendomi. Era più alto di me e non molto magro come sembrava in confronto a lui. Senza esserci il suo metro di paragone Luca risultava essere un bel ragazzo. Capelli castani scompigliati sulla testa come se si fosse svegliato adesso. Occhiali non troppo grandi da farlo apparire secchione e nemmeno troppo piccoli da sembrare un filosofo o uno scrittore.
«Miriam» risposi impacciata cercando di non mangiare pezzi di fazzoletto mentre parlavo.
«Credo di doverti ringraziare per prima.»
«Tranquillo normale amministrazione» dissi pentendomi subito. Normale amministrazione? Da dove mi era uscita questa frase di merda. Luca si accigliò un po' confuso. «Lascia perdere è la prima volta che prendo un pugno» continuai tentando di salvarmi in extremis. Il sorriso dolce che sfoggiò mi fece comprendere che gli facevo tenerezza.

«Vieni, posso offrirti qualcosa alla macchinetta almeno per sdebitarmi un po'?» propose.

«Sì, ho proprio voglia di una cioccolata calda» dissi ed era vero visto che avrei potuto avere un calo di zuccheri da un momento all'altro. Gettai il fazzoletto intriso di sangue senza guardarlo nella bidone dei rifiuti e dopo ci incamminammo per i corridoi. Parlammo molto con Luca, avevo una strana sintonia che mi spingeva a conoscerlo. Amava la natura ed andava spesso per i boschi per ammirare gli animali. Mi mostrò anche molte foto, scattate da lui, veramente belle e suggestive.

«Domani il meteo ha detto che ci sarà una splendida giornata di sole» disse inserendo il numero 13 nella macchinetta. «Ti andrebbe di farmi compagnia?» Sapevo che la mia vita dopo domenica sarebbe stata tutta ricca di gentili medici pronti ad esaminarmi. Quindi perché non andarci? Ma per quanto fossi diventata stranamente socievole con Luca, niente mi assicurava che fosse un tipo a posto.

«Non saremo soli» disse quasi leggendo nel mio volto la titubanza. «Vengono pure altri miei amici con cui condivido la stessa passione.»
«Va bene» dissi senza pensarci più. Luca mi passò il bicchiere di plastica con la cioccolata fumante. Poi mi accompagnò alla mia classe che casualmente era due porte dopo la sua.
«Allora a domani» mi salutò sorridente prima di scomparire nella sua classe.
Stavo per aprire la porta ma qualcuno mi afferrò per il braccio.
«Domani cosa?» ringhiò guardandomi con ira funesta. Era lui e senza il mio permesso mi stava trascinando vicino la palestra.
«Lasciami!» mi divincolai urlando. Lui mi tappò la bocca con la sua mano. Fui tentata di morderlo. Ma dopo essersi guardato in giro mi liberò.

«Non voglio farti niente. Mi dispiace per prima ma ti sei messa tu in mezzo...» Stava tentando di spiegarmi ma io non volli sentire ragioni. «Smettila! Non mi interessano le tue motivazioni. Sei un bullo e non avevo bisogno di vederlo con i miei occhi per saperlo.»

«Tu non capisci» disse passandosi nervosamente una mano tra i capelli. «Qualsiasi cosa Luca ti abbia detto tu non devi più vederlo.»
«Eh?» risposi sbigottita. «Credi di essere mio padre forse. Senti non mi interessa avere a che fare con un pazzo che dice frasi intimidatorie e picchia i più deboli. Quindi...» La frase mi morì tra le labbra perché fui bloccata dalle sue mani che mi cinsero il volto. Il suo tocco era così gentile da essere quasi un sogno. 

Era la prima volta che vedevo negli occhio carichi di desiderio. Lui voleva me. Mi attirò a sé poggiando le sue labbra voluttuose sulle mie. Non pensai che quello fosse il mio primo bacio, che eravamo a scuola e un professore poteva sbucare da un momento all'altro, non ricambiai nemmeno rimanendo immobile. Avevo il cervello in modalità off e il cuore in prestazioni elevate. Tutto era scomparso, persino io mi sentivo leggera e per la prima volta nella mia vita provai qualcosa di simile alla felicità estrema. Quasi sussultai quando la sua bocca si dischiuse e le nostre lingue s'incontrarono. 

Poi un fischio fortissimo mi trapanò i timpani. Mi staccai immediatamente da lui per portarmi le mani sopra le orecchie, tentai di guardarmi in giro per capire da dove provenisse e in quel momento vidi che le pareti vicino la porta della palestra erano piene di sangue che colava da tredici corpi dilaniati sul soffitto. Il fischio cessò e io atterrita esaminai meglio quelle persone. I loro volti, dapprima sfocati per le lacrime di terrore che mi riempirono gli occhi, iniziarono a perdere pelle. Pezzi di carne facciale si staccavano come carta da parati vecchia e cadevano giù sul pavimento vicino i miei piedi. Facendo un salto indietro urlai come se non ci fosse un domani. 


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