1 - Il primo salto
La tensione all'interno della sala operatoria era palpabile, gli unici rumori che si sentivano erano i "bip" ritmici dei macchinari e il leggero fruscio dei camici, il silenzio innaturale rendeva assordante ogni altro minimo rumore.
L'anestesista controllava la velocità d'infusione del farmaco, mentre il suo aiuto-infermiere si occupava di regolare la percentuale di ossigeno in base alla saturazione e di verificare che tutti i cavi dei monitor per i parametri vitali fossero ben attaccati.
Le infermiere al tavolo contavano per l'ennesima volta le garze, i ferri e i dottorandi ripassavano mentalmente la lista del materiale occorrente, anche in caso di emergenza.
Nessuno parlava, nascosti dietro ai lunghi camici verdi, con i volti semi coperti dalle mascherine, ognuno concentrato sul proprio compito e tutti in attesa dell'arrivo del cardiochirurgo che avrebbe avuto potere di vita o di morte su quella giovane donna sdraiata al centro della stanza.
Andrea McLeap fece il suo ingresso in sala e alla vista della giovane dottoressa fu come se l'intero personale di sala tirasse un grosso sospiro di sollievo; lei era la garanzia per la riuscita di ogni trapianto cardiaco.
Non appena fu vestita con l'aiuto dei colleghi, iniziarono le danze.
Con la sua voce ferma e decisa, la dottoressa McLeap ordinò uno per uno tutti i ferri che le servivano, senza mai battere ciglio o titubare un solo istante, neppure quando la riuscita dell'operazione sembrò difficoltosa per via di una lieve emorragia. Complicanza che seppe raggirare senza difficoltà.
L'anestetista, che aveva trattenuto il fiato come il resto del personale presente, si rivolse alla donna distesa sul tavolo operatorio: "Stai tranquilla, Lorraine, già si sapeva che sei in buone mani."
Si guadagnò un'occhiataccia nervosa della dottoressa e immediatamente si zittì, mortificata per essere stata ripresa da lei.
L'operazione ebbe finalmente termine e Andrea ordinò, chiara e decisa: "Defibrillatore!"
"Libera!" urlò l'infermiera e tutti si allontanarono dalla paziente.
Il monitor che segnava il tracciato cardiaco emise un "bip" e poi un altro e un altro ancora.
L'intervento era perfettamente riuscito e il nuovo cuore batteva regolare nel corpo di quella giovane madre.
Mentre Andrea procedeva veloce a suturare la ferita, intorno a lei tutti i presenti si lasciarono andare a sospiri di sollievo e complimenti, sussurrati dietro le mascherine chirurgiche. Nei loro occhi brillava un'ammirazione senza pari verso quella giovane cardiochirurgo che aveva appena salvato la vita della paziente.
Tuttavia, lei si mantenne calma e distaccata fino alla fine, ignorando quelle esternazioni di stima da parte dei suoi collaboratori. Alla soglia dei trent'anni concorreva per diventare la più giovane primario di cardiochirurgia dell'ospedale, ma non permetteva che ciò potesse suggestionare in qualche modo il suo operato, o la sua professionalità.
Aveva lavorato duramente per arrivare a quel traguardo, non permettendo a niente e a nessuno di impedirle di realizzare le sue aspirazioni, sacrificando moltissimo la vita privata e tutto ciò che non aveva a che fare col lavoro o che potevano distoglierla da esso.
Una volta tolto il camice e abbandonato la sala operatoria si preparò e uscì dall'ospedale in tutta calma, inforcando gli occhiali scuri per proteggere i suoi occhi color del cielo dai raggi del sole. Quel giorno, infatti, era davvero infuocato sopra Seattle, cosa molto rara da quelle parti, e la città era simile ad un forno rovente; l'asfalto assomigliava a una piastra incandescente e il sole picchiava davvero forte sulle teste della gente. Per ovviare a questo problema, Andrea si infilò un grazioso cappello, in modo da proteggere dai quei raggi i suoi capelli color del grano.
Camminò risoluta verso la sua macchina, attraversando il parcheggio dell'ospedale con la sua solita compostezza, salutando con un breve cenno del capo le varie persone che incontrava lungo il tragitto e che si mostravano a lei come tanti leccapiedi, desiderosi di farsi notare. Quello era un aspetto della sua carriera che digeriva poco. Ovviamente era ben contenta che la gente la conoscesse come un bravissimo cardiochirurgo, ma spesso tutte quelle manfrine la infastidivano. A volte avrebbe preferito soltanto che la lasciassero in pace. Voleva poter tornare a casa con tutta tranquillità, specialmente quando aveva dovuto passare diverse ore in sala operatoria e dopo più di dodici di servizio.
Salì finalmente in macchina e si sistemò al posto del guidatore. Controllò lo specchietto retrovisore e la posizione del sedile. Gesti inutili, dato che era l'unica ad usare quell'auto, nessun altro avrebbe potuto cambiare la posizione dello specchietto e dello schienale, ma ormai erano gesti che compiva meccanicamente, era talmente abituata al controllo che non ci faceva nemmeno più caso. Una volta acceso il motore, attivò l'aria condizionata dell'abitacolo e subito mugolò di piacere al contatto con quel refrigerio. Nella sua mente si figurava già immersa nella sua vasca idromassaggio, pregustando il bagno rilassante che si sarebbe concessa una volta a casa.
Fece manovra e uscì dal parcheggio, guidando in direzione del suo appartamento a circa poche centinaia di metri dall'ospedale. Come chirurgo all'avanguardia era abituata a rispondere a qualsiasi chiamata d'emergenza, e abitare vicino all'ospedale era essenziale per lo svolgimento del suo lavoro.
Una volta varcata la porta di casa si concesse di sorridere, compiaciuta per l'esito del trapianto che aveva effettuato.
Un intervento di quella portata era sempre rischioso, perché, a prescindere dalla bravura ed esperienza del chirurgo, la complicazione era sempre dietro l'angolo: una reazione inaspettata dell'organismo ricevente, una sutura sbagliata, un conteggio delle garze fatto male. Tutto poteva andare storto nel giro di qualche istante e una vita si sarebbe spenta. Nessuna di queste cose era accaduto, altrimenti sarebbe stata una macchia indelebile nella sua carriera.
Si sciolse finalmente i capelli, da troppo tempo trattenuti in una crocchia bassa sulla nuca, e massaggiò il cuoio capelluto dolorante. Abbandonò la borsa sul divano in salotto e si avviò in bagno, con l'intenzione di riempire la vasca e togliersi di dosso la stanchezza delle lunghe ore di lavoro.
Mentre l'acqua scorreva, si tolse le scarpe e si concesse di rilassarsi brevemente sul suo divano. Si stropicciò la faccia e sognava già le lenzuola fresche che la attendevano nel suo letto. Fece esercizi con la testa per sciogliere la tensione dai muscoli del collo, muovendola dapprima in senso orario poi antiorario, fu a quel punto che lo squillo del suo cellulare la interruppe bruscamente, facendola gemere.
Senza lamentarsi troppo raggiunse la sua borsa allungandosi sul divano, recuperò il suo cellulare e, come spesso le capitava, rispose senza nemmeno controllare chi la stava chiamando. Era sicura che si trattasse dell'ospedale. Era abituata ad essere contattata per un'emergenza a qualsiasi ora del giorno e della notte, anche se era appena tornata da un turno di parecchie ore, quindi non si premurò di controllare.
"Pronto?"
"Pronto, tesoro. Sono papà!"
Il cuore di Andrea fece un balzo nel petto. "Papà?"
☣☣☣
Bussò con apprensione alla porta dello studio di suo padre, cercando di controllare il nervosismo. Aveva chiuso l'acqua della vasca ed era scappata di casa in fretta e furia, cercando di capire il motivo di tanta insistenza da parte di lui nel raggiungerlo. Era raro che suo padre la chiamasse ad un'ora così stramba, e soprattutto che la facesse venire di corsa al suo studio anziché al suo appartamento. Da quando i suoi genitori avevano divorziato, cosa che risaliva a più di quindici anni prima, lei e suo padre avevano mantenuto uno strano rapporto. Non tanto perché si fosse schierata dalla parte della madre durante il divorzio, ma perché suo padre da quella volta aveva iniziato a cambiare atteggiamento, forse in peggio. Andrea non gli faceva una colpa, anche se all'epoca era poco meno che quindicenne, comprendeva la pena che aveva portato i suoi genitori a divorziare e il motivo del cambiamento di lui, anzi di entrambi, e si rendeva pienamente conto che il divorzio era stata la scelta migliore che potessero prendere, anziché continuare a distruggersi a vicenda. Sapeva benissimo che se fossero rimasti insieme avrebbero continuato a darsi la colpa di quello che era successo, quando sapeva altrettanto benissimo che la colpa non era di nessuno dei due. L'unica cosa per cui forse li rimproverava era che, presi dal dolore e dallo sconforto per la loro perdita, avevano iniziato a non curarsi della loro unica figlia rimasta, facendola sentire spesso sola e abbandonata.
Bussò insistentemente per un bel pezzo senza ricevere risposta, finché non decise di fare il giro del caseggiato che ospitava lo studio di suo padre. In realtà, più che studio consisteva in una sorta di laboratorio, dove suo padre si rinchiudeva per la maggior parte della giornata, trafficando su delle sue strambe invenzioni, le quali, ne era certa, non avrebbero mai visto la luce. Guardò attraverso il vetro della finestra chiusa e l'unica cosa che vide furono una serie di marchingegni complicati e apparecchi strani,
"Bingo!" Esclamò entusiasta quando ne trovò una sotto un vaso.
Infilò la chiave e girò la serratura, al primo scatto la porta si aprì, rivelando uno studio completamente in disordine, pieno di scartoffie gettate alla rinfusa sulle varie scrivanie presenti e dove ogni cosa era ricoperta da un sottile strato di polvere. Confusa dallo spettacolo che si ritrovò dinnanzi, si avvicinò a una delle tante scrivanie e prese in mano una di quelle scartoffie, osservando il disegno ivi raffigurato ma non comprendendolo minimamente. Rimise il disegno dove lo aveva preso e fece qualche passo verso una porta nel muro di fronte.
"Papà, ci sei?" Chiamò a gran voce, ma non ottenne risposta. "Papà!" Ripeté più forte, ma ancora niente.
Arrivò alla porta che aveva visto e la aprì, titubante. Non era mai stata nel laboratorio di suo padre, era sempre andata a trovarlo nel suo appartamento in centro, in cui aveva persino una camera tutta sua, dove, prima di laurearsi e andare a vivere da sola, ogni tanto aveva dormito. Si ritrovò a fissare quei macchinari dall'aria complicata che aveva visto attraverso la finestra. Si avvicinò a uno di questi, cercando di capirne il meccanismo, ma l'unica cosa che comprese era che non avrebbe mai potuto farlo. L'unico oggetto tra questi che riconobbe fu un gigantesco schermo collegato a una sorta di tastiera con dei simboli che non avevano niente a che vedere con l'alfabeto.
Da quando suo padre aveva abbandonato la casa di famiglia per vivere da solo, si era licenziato dal suo lavoro di professore di scienze e matematica all'università, accettando di scrivere da casa per una rivista scientifica, e aveva iniziato a trafficare in questa sorta di laboratorio/studio, dove diceva di dover fabbricare l'invenzione che avrebbe cambiato per sempre la loro vita.
Sia Andrea che sua madre non lo avevano mai preso sul serio, pensando che la tragedia che aveva colpito la loro famiglia lo aveva reso malato di testa. Di conseguenza, Andrea non si era mai interessata a quello che suo padre effettivamente faceva in quel posto, aveva sempre preferito tenersene lontana e coltivare con lui un rapporto che non andava oltre a brevi visite settimanali nel suo appartamento. Aveva il suo lavoro e i suoi problemi da affrontare senza dover vedere suo padre che, da uomo impegnato e autorevole che era, si trasformava lentamente in un pazzo con qualche rotella fuori posto.
Vagò con lo sguardo in quel luogo ammassato di cose strane finché non incontrò un oggetto che attirò la sua attenzione. Cosa ci fa un frigorifero nel mezzo a tutto questo putiferio? Si chiese. Si disse che suo padre avesse trovato il modo di mangiare nel suo laboratorio mentre lavorava alle sue strambe invenzioni. Si avvicinò e lo aprì, aspettando di ritrovarsi davanti cibo e bevande. Fu oltremodo sorpresa di verificare che, invece, l'interno del frigo era pressoché vuoto, tranne che per una sedia di legno e una luce fioca in alto che si accendeva e si spegneva con l'apertura dello sportello. Confusa più che mai lo chiuse e contemplò il frigorifero dal di fuori. Solo allora notò i cavi e i fili elettrici che partivano da esso e si congiungevano con il resto dei macchinari vicini, tra i quali anche con il gigantesco schermo. Seguì alcuni cavi tra questi e li vide scomparire dentro ad un muro fatto di pannelli di compensato. Osservò meglio e si accorse che suo padre aveva ricreato una stanza dentro il suo laboratorio, fatta esclusivamente di pannelli di compensato. Aprì la piccola porta ricavata tra questi pannelli e si ritrovò all'interno di una altrettanto piccola stanza, interamente dipinta di bianco, dal soffitto, alle pareti, al pavimento. C'era talmente tanto bianco, illuminato da un'unica lampada al neon, che accecava. Oltre alla panchina bianca, all'interno non vi era altro se non una sorta di tastierino della grandezza di un cellulare incastrato nel pannello al lato destro della porta con dei simboli simili alla tastiera che aveva vista appena lì fuori.
Chiuse la porta e tornò davanti al grande frigorifero, decisa a capirne di più del suo utilizzo e funzionamento. Aprì di nuovo lo sportello e osservò con più attenzione il suo interno. Solo allora si accorse che le pareti del frigorifero erano rivestite da un'intricata rete di componenti di microelettronica, come una scheda madre di un computer sofisticato. Per curiosità entrò al suo interno, convinta che in questo modo avrebbe potuto comprendere almeno un po' il suo funzionamento e osservò più da vicino tutti quei componenti che rappresentavano le pareti interne. Il frigo era abbastanza grande da ospitare una persona, specialmente una come lei, magra e bassa come una ragazzina. Per avere poco meno di trent'anni era più bassa del normale, e anche se a volte poteva dimostrare meno della sua età reale, in passato si era dimostrata un'arma a doppio taglio, in quanto all'inizio veniva presa poco seriamente nell'ambiente ospedaliero. Era stato uno dei motivi che l'avevano spinta a lavorare più del normale per farsi accettare dai colleghi maschi.
Di colpo lo sportello del frigorifero si chiuse con un botto, regalandole una scarica di paura in tutto il corpo. Iniziò a spingere per aprirlo dall'interno, ma più spingeva e più la cosa si faceva difficile, sembrava davvero che fosse rimasta chiusa dentro un frigorifero. Iniziò ad urlare presa dal panico.
"Papà! Ci sei?! Aiuto!"
Urlò e picchiò con la mano contro lo sportello, ma nessuno poteva sentirla. Cercò di calmarsi, farsi prendere dal panico avrebbe potuto soltanto peggiorare la situazione, lo sapeva bene. Se entro breve tempo nessuno le avesse aperto, avrebbe potuto morire per mancanza di ossigeno. Bussò con forza contro lo sportello ma presto calde lacrime le affiorarono agli occhi. Scoraggiata, si sedette sulla sedia asciugandosi il viso, e all'improvviso avvertì uno strano calore salire dai suoi piedi. Spaventata ancor di più, osservò la base di quello strano aggeggio infernale in cui era finita e si accorse che stava vibrando. Una forte luce azzurra la avvolse completamente, accecandola e facendole perdere i sensi.
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