1. LA FOLLIA DI UN ATTIMO
C'è sempre una prima volta.
La prima volta che sono stata ubriaca la ricordo a malapena; eravamo a una festa di amici di scuola e abbiamo fatto un gioco alcolico. Mi sono svegliata nel letto la mattina dopo e Pam, la mia migliore amica, mi aveva messo il pigiama.
La prima volta che ho baciato un ragazzo, in realtà non esiste perché io e Pam, i ragazzi, li abbiamo sempre tenuti lontani, come se fossero creature non abbastanza interessanti. Forse perché tutti i coetanei della nostra scuola sono antipatici, brutti o pieni di sé?
Poi c'è stata la prima volta che ho fatto un tatuaggio, insieme a Pamela, naturalmente. Ci siamo marchiate sul polso le nostre iniziali. E quella "P", adesso, è l'unica cosa che mi resta di lei.
Pamela è morta questo inverno.
Un incidente. Un banale, semplice incidente ha portato via per sempre la parte più grande del mio cuore. E io sono rimasta con un cuore piccolo piccolo, come quello del signor Grinch, e un dolore enorme.
Da quel giorno sono iniziati gli incubi. Ho avuto problemi con lo studio, ho smesso di ascoltare Ultimo perché era il nostro cantante preferito e non ho mangiato più pizza perché mi riporta a galla troppi ricordi. Mi sono chiusa in un guscio tutto mio. Senza Pam che senso ha la vita?
Ed è per questo motivo che i miei genitori mi hanno prenotato un volo per l'America. Un'estate. Una sola estate da una vecchia conoscente di mia madre. Per distrarmi, per non pensare più. Ma come si fa a dimenticare? Si può davvero scordare la fetta più importante di sé stessi, fuggendo dall'altra parte del continente?
E come si chiamava l'amica di mia madre? Oh! Non ricordo più neanche il suo nome! Signora Carter. Esatto... Carter...
Forse...
Tutti questi pensieri mi affollano la mente mentre recupero la valigia dal nastro e mi dirigo verso l'uscita. Nella hall dell'aeroporto, mi spalleggio tra persone e bambini, trainando a fatica il mio bagaglio. Con lo sguardo prendo in rassegna la folla accalcata, cercando di individuare il mio accompagnatore. Taxi SkyWheel, Coastal Taxi... E poi lo vedo, il piccolo cartello bianco sorretto dalle braccia di un uomo di mezza età. Famiglia Carter. Proseguo titubante dal signore in camicia bianca e occhi nascosti da un paio di Ray-Ban all'ultimo grido. È alto e magro e il suo sorriso fa risplendere la dentatura bianca e perfetta. Sembra un attore di Hollywood.
Quando sono abbastanza vicino mi rendo conto che non è da solo, con lui ci sono una donna dai capelli cotonati, deve essere lei l'amica senza nome di mamma, e un ragazzo alto e slanciato che pare l'esatta fotocopia del tizio. «Benvenuta a Myrtle Beach!» esclamano tutti e tre in coro.
Per un attimo resto interdetta da questa accoglienza, come dire, surreale? Osservo i tre con occhi stanchi dal lungo volo intercontinentale e perplessi dal gesto teatrale, fin quando la donna con i capelli che paiono un morbido nido per accogliere uccellini, non scioglie per prima le righe e mi viene ad abbracciare. «Oh, cara, come è andato il viaggio?»
Cerco di sorridere, mettendo da parte la mia timidezza e la mia privazione di sonno. Sono almeno dodici ore che non chiudo occhio e mi sento alquanto sottosopra. «Tutto bene, grazie...» Non mi piacciono le dimostrazioni di affetto. Non mi piacciono gli abbracci perché mi fanno sentire vulnerabile, così mi stacco velocemente.
«Siamo felici di conoscerti, tua madre ci ha parlato così tanto di te!» E mentre la signora si occupa dei convenevoli, l'uomo sottrae alla mia presa la maniglia della valigia e la tira verso l'uscita. «Questa la porto io, è troppo pesante per una ragazzina...»
In un batter d'occhio mi ritrovo fuori dal caos, accolta da un'aria appiccicosa e soffocante. Ci soffermiamo nel parcheggio, sotto un cielo azzurro da far male agli occhi e un sole cocente da bruciare la pelle.
«Io sono Natalia» dice la donna. «Lui è mio marito Jhon e questo giovanotto è nostro figlio Oliver!»
Sposto gli occhi dall'uno all'altro, scossa e provata dal jet lag e dall'afa. «Bianca» sussurro il mio nome, dando la mano a ciascuno dei componenti della famiglia Carter.
Quando arrivo al ragazzo, Oliver, lui mi sorride, soffermandosi nella stretta qualche istante di troppo. Il mio sguardo scivola sui suoi capelli castani e mossi, sul suo naso dritto e sui suoi occhi nocciola. La camicia che porta ha raffigurato fiori giganti e spicca come un faro nella notte. Mi meraviglio di come riesca a indossare un capo così stravagante con notevole charme. Ad occhio e croce deve avere la mia età, non posso affatto negare che sia un bel ragazzo. È anche esageratamente abbronzato ed io mi sento esattamente dello stesso colore di una mozzarella.
«Oh, ecco il nostro autista!» squilla la voce di Natalia.
Nell'auto, mi accomodo dietro, insieme a quest'ultima e ad Oliver, che si piazza nel sedile di mezzo. Il signor Carter sistema la valigia nel portabagagli e va al posto del passeggero. Durante il tragitto, Oliver cerca di instaurare un dialogo con la sottoscritta, facendo un po' a botte con la mia diffidenza per gli sconosciuti. «Sai, Bianca, io non sono mai stato in Italia, ma immagino che sia bellissima...»
Mi sforzo di sorridere, mentre continuo a guardare fuori dal finestrino.
«È un piccolo museo a cielo aperto, l'Italia, non è vero Jhon?» interviene Natalia, tirando in causa il marito, il quale è distratto dal telefonino e si limita ad alzare il pollice ed esclamare: «Beautiful!»
«Io ci ho studiato in Italia e ho un bellissimo ricordo, è lì che ho conosciuto tua mamma... eravamo due ragazzine, ma devo dire che un po' le assomigli, hai lo stesso suo sguardo...» afferma Natalia, rapita dai ricordi.
«Già, me lo dicono in molti» annuisco.
Intanto ci spostiamo in un viale a quattro corsie, delimitato da marciapiedi enormi con palme che si susseguono in linea retta e che sembrano portare alla fine del mondo. Ci sono ragazzi in skateboard che ci sfrecciano di fianco; indossano dei cappellini con la tesa volta all'indietro. La gente sgattaiola fuori e dentro dai negozietti di souvenir. Mi spiaccico con il naso al finestrino per osservare gruppi di ragazze esibire i propri fisici atletici dentro a shorts inguinali.
Il viaggio dura una buona mezzora. Ci dirigiamo verso la costa, riesco a scorgere l'oceano in lontananza e una striscia della lunga spiaggia che delimita la città. Solo quando l'autista accosta di fronte ad un enorme cancello e vedo aldilà delle sbarre di ferro l'immenso parco di erba verde, mi rendo conto che quella dei Carter non è affatto una famiglia a caso. Quando il cancello si apre ed entriamo nel viale che porta alla villa realizzo la loro immensa ricchezza. Non so neanche dove guardare, se l'enorme casa che ho di fronte, i giardini o la piscina.
Natalia scende dall'auto, risistemandosi la gonna a pieghe rosa pallido e mi si rivolge con voce sottile: «Benvenuta a casa Carter!» poi cattura l'attenzione del figlio. «Oliver, ci pensi tu a far vedere a Bianca la sua stanza?» Va incontro a una donna con grembiule e cuffietta color panna, che si è appena affacciata al portone principale. Deve essere la domestica. «Da questa sera un posto in più per cena!»
Jhon è ancora impegnato, sta rispondendo a una telefonata. Lo vedo allontanarsi nel giardino, mentre io e il mio trolley rimaniamo nel piazzale. Mi sento più impacciata che mai.
«Coraggio, da questa parte!» Oliver prende la mia valigia e mi fa segno di seguirlo dentro. «Non ti lasciare impressionare, è una casa come tutte le altre...»
Se lo dice lui; la villa, l'autista, la domestica. A me sembra di essere appena entrata nella residenza estiva della regina Elisabetta!
Nel salone gli arredi sono posizionati con un'attenzione maniacale. In un angolo un pianoforte a coda attira la mia attenzione.
Oliver ci passa accanto, sfiorandolo con la punta delle dita. «È un Yamaha» afferma.
«Tu sai suonarlo?»
Lui fa spallucce. «Mi arrangio!»
Proseguiamo al piano di sopra, Oliver va avanti con la mia valigia. Lo guardo da dietro, la camicia floreale che indossa svolazza a ogni passo dei suoi mocassini. La sua schiena è eretta e il suo portamento quasi impeccabile, nonostante l'enorme peso che sta sorreggendo. «Questa è la tua stanza» dice, aprendo una delle tante porte che si affacciano sul corridoio. «Era di mia sorella Sidonia, lei adesso è al college.»
Entro nella camera in punta di piedi. Le pareti verde acqua sono tempestate da una quantità inverosimile di poster di Harry Styles. Mi siedo sul letto per testarne la morbidezza; Harry Styles mi guarda dall'alto, da destra e da sinistra e la cosa è abbastanza inquietante.
«Sidonia era una appassionata degli One Direction» mi informa Oliver, restando sulla soglia.
«Vedo!» forzo un sorriso.
Oliver mi gira le spalle sembra stia per andarsene, ma poi ci ripensa. «Senti... ti andrebbe di... ecco... di venire con me giù in spiaggia? I miei amici mi aspettano per un aperitivo e ho pensato che tu potresti conoscerli...»
«Io...» Guardo la mia valigia e poi di nuovo Oliver, che è in attesa sulla porta.
«D'accordo, sistemerò le mie cose più tardi!»
«Fantastico! Il tramonto a Myrtle Beach è qualcosa di magico, vedrai...»
Il suo braccio si posa sulla mia spalla. Il contatto con questo bellissimo ragazzo ricco e garbato mi provoca una vampata di calore, che mi fa arrossire immancabilmente. Oliver fa sembrare tutto naturale e io, per un istante, quasi riesco a non pensare che qualcuno sia così vicino al mio corpo.
Scendiamo le scale e usciamo da una porta sul retro.
«Ci sai andare in bici?»
«S-sì...»
«Perfetto! Allora, ti prendo quella di Sidonia. Più o meno è alta quanto te, non ci sarà bisogno neanche di regolare il sellino!»
Dal garage, Oliver tira fuori la bicicletta della sorella, un modello cittadino con tanto di cestino sul davanti. Sono anni che non salgo in sella, dentro di me prego che sappia ancora tenere l'equilibrio. Oliver salta su una mountain-bike giallo fluorescente. «Seguimi!»
Pedaliamo sulla ciclabile che porta alla spiaggia. Non riesco a non guardarmi intorno e restare meravigliata della bellezza del paesaggio. Il sole sta scendendo oltre l'orizzonte, tuffandosi a picco nell'oceano immenso.
Oliver rallenta e mi si affianca, mi indica di svoltare a destra, dove c'è un chioschetto con il tetto in paglia e file di lucine che ciondolano ai lati. La scritta al neon Orlando Beach penzola da un arco di piante rampicanti. Lui scende dalla sella e poggia la bici contro un palo. Lo imito e mi appresto a raggiungerlo. Oliver posa di nuovo un braccio sulle mie spalle con spontaneità. Non nego che mi faccia sentire protetta; sono appena atterrata in America, cioè, ho detto America, neanche il tempo di posare le valige e sto entrando in un locale sulla spiaggia pieno di adolescenti abbronzati che bevono cocktail colorati e parlano in una lingua diversa dalla mia.
Oliver mi conduce di fronte a un ragazzo seduto sul patio in legno. Quest'ultimo ha la schiena contro il muro e lo sguardo verso l'oceano, dove alcuni giovani si stanno scambiando delle birre. Hanno delle tute da surf e le tavole piazzate sulla spiaggia. Tra loro c'è anche una ragazza dai ricci biondi, sta raccontando qualcosa e, a giudicare dalle risate degli altri, sembra divertente.
«Hey, sempre con queste cuffiette, tu?» Oliver gliele strappa dalle orecchie e il ragazzo balza in piedi. «Beatles, ma non cambi mai?»
«Da qua! Non deve piacere a te la musica che ascolto!»
Il tipo ha le gambe magre, gli occhiali da vista che gli coprono il volto scarno e un cappellino con la bandiera americana. Soltanto quando riesce a riprendersi la sua musica, si accorge della mia presenza e ricambia il mio timido sorriso.
Due tizie con il corpo mozzafiato ci passano vicino, sculettando dentro bikini che dovrebbero letteralmente togliere dal commercio per la loro volgarità. Difficile non notare come lo sguardo di Oliver ricada sulla schiena, e non solo, della bionda. In tutto quello sfoggio di carne e abbronzatura, la mia banale maglietta a manica lunga, sempre passata inosservata, appare come l'abbigliamento più ridicolo mai indossato.
Le due ragazze appena arrivate dalla spiaggia, si fermano di fronte a noi. «E tu chi sei?» dice la tipa dai capelli chiari, abbassandosi gli occhiali da sole sul naso e arricciando la bocca in una smorfia. Mi guarda come se avesse appena visto un capello dentro al suo piatto.
Oliver parla per me. «Lei è Bianca, un'amica di famiglia, abiterà da me per tutta l'estate!»
La bionda catalizza la sua attenzione sulla presa di Oliver sulle mie spalle. «E quanti anni ha questa amica di famiglia?» Chiede a lui, come se, improvvisamente, io avessi indossato il mantello dell'invisibilità di Harry Potter.
«Ne ho diciassette» intervengo, sperando di soddisfare ogni curiosità.
«Abbiamo la stessa età, eppure sembri molto più piccola di noi» interviene la tizia dai lunghi capelli bruni raccolti in tante minuziose treccine. «Io sono Sierra e lei è Sam» si presenta, indicando prima sé stessa e poi l'amica.
«Io... io sono Carl» dice il ragazzo magrolino con le cuffie.
«Piacere di conoscervi, io mi chiamo...»
Improvvisamente la mia voce si spezza in due. Non riesco a terminare la presentazione perché le parole mi muoiono in gola una ad una. E non ricordo manco più il mio nome.
La mia attenzione è rivolta al ragazzo che dalla spiaggia sta correndo verso di noi. Ha un marsupio allacciato a tracolla e un asciugamano poggiato intorno al collo. Indossa dei bermuda blu elettrico che gli arrivano a metà coscia. Più si avvicina, più i suoi muscoli si fanno delineati.
Le sue gambe e le sue braccia sono interamente ricoperte di tatuaggi. Non credo di aver mai visto qualcosa di simile in vita mia.
E quando la bellezza ti raggiunge è come uno schiaffo in faccia, un grido nell'anima.
Te la squarta e divora a morsi. Smetti di ragionare, il cuore si ferma e il respiro resta sospeso nell'aria.
Tutto quello che ti circonda svanisce, sopraffatto dalla follia di un attimo.
Un attimo che pare durare in eterno.
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