Capitolo XI
Ignoravo il motivo per cui mi trovassi ancora lì.
Sapevo solo che, al termine del discorso di J, in seguito a un considerevole silenzio, avevo udito la mia voce intimargli di seguirmi.
J non aveva risposto, non aveva più aperto bocca. Io gli davo la mia tacita approvazione, proseguendo nella quiete assoluta verso la nostra destinazione, ormai scontata. L'Aula XXIII.
Le domande avevano smesso di bussare alla mia testa. Pareva che fossero state per lungo tempo candele dalla fiamma intensa, di colpo spente da un soffio di vento gelido. Rimanevano solo i cerini, che non arrecavano dolore. Non più.
Se fossero stati accesi, le mie gambe non sarebbero parse tanto pesanti, come se alle caviglie avessi legate delle incudini. E i passi non avrebbero richiesto tanto sforzo, come stessi affrontando la forza di una terribile bufera.
Un sospiro abbandonò le mie labbra, mentre m'interrogavo su quanto tempo fosse trascorso da quando avevo preso il comando. Due, tre, quattro minuti? O pochi, eterni secondi?
"Ti ambienti bene al buio."
Trasalii, ritornando in me. Stavo quasi abituandomi alla presenza muta di J.
"Non è difficile."
Se le tenebre iniziano costituire a libertà, ed è il desiderio di quest'ultima che ti anima, persino la più scoraggiante delle fatiche diviene un destino ben accetto.
"L è più bravo di me, in questo. A volte penso che sarebbe stato meglio che venisse scelto lui."
Il sapore amaro della sua voce m'investì. Era raro che all'Istituto ci si confidasse l'un l'altro, adoperando pure un tono così personale. Forse perché non ce n'era mai l'occasione. Forse perché non trovavamo mai l'occasione.
"Scelto? Non sentirti in dovere verso di lei. Probabilmente ti ha dato l'incarico perché sei il primo che ha visto nel corridoio. Sei una pedina. Come me. Come tutti."
Mi fermai, quanto avevo appena detto che ancora scottava sulla lingua. Da quanto tempo un tale pessimismo si annidava in me? Fino a quando non l'avevo lasciato strisciare tra i denti, ne ero rimasta inconsapevole.
"Secondo te, è impossibile compiere scelte indipendenti? Non confondi il controllo con semplice influenza?" azzardò J.
"L'influenza è solo la sfumatura più ingannevole e silenziosa del controllo. Non te ne rendi conto?" Scossi il capo, pur sapendo d'esser protetta dal buio. "Finché le nostre azioni sono mosse premeditate, i nostri pensieri ci sono inculcati da altri, le nostre parole sono frutto di un accorto lavoro esterno... finché ci è impossibile negare tutto questo, ci è impossibile essere liberi. Ci è impossibile non essere controllati."
Aleggiò nell'aria una sorta di aspettativa per qualche minuto. Ma J tacque. E tacqui anch'io, una nauseante ebrezza nel petto.
Ripresi ad avanzare, nella soffice assenza di rumore che avvolgeva i sotterranei. Un rinnovato proposito muoveva i piedi scalzi e infreddoliti e scorsi dopo poco la singolare tinta blu, resa opaca dall'oscurità.
La luce filtrava dalla fessura laterale e tracciava i lineamenti di J.
"Siamo arrivati" constatai.
"Sì." Un'inspiegabile tristezza impregnava la sua voce. "È ora che io me ne vada."
"Non entri?"
"No." Fece una pausa. "Posso farti una domanda?"
"Sì. Ma non è detto che io risponda."
"Bene. Come fai a conviverci?"
"Con cosa?" Lo fissai, interrogativa.
"Mi hai detto che sai che qui è impossibile non essere controllati. Come fai a vivere con questa consapevolezza?"
Il suo quesito mi spiazzò. Racimolai l'esperienza che avevo, alla ricerca della frase che meglio esprimeva quanto provavo.
"Il segreto sta nel non permettere a noi stessi di sentirsi tali. O almeno è quello che mi ha detto un'amica."
J rifletté per qualche secondo, il viso teso, sulle mie parole.
"Arrivederci, A." Si riscosse, alleviando la serietà della sua espressione.
Gli afferrai una mano e poggiai la torcia sul suo palmo, caldo al tatto. "Te la stavi dimenticando."
"Non pensavo di averne bisogno. Sono più luminoso di un lampadario."
Un sorriso spontaneo si disegnò sul mio volto.
"Arriverderci, J."
Lo osservai allontanarsi, fagocitato dalle tenebre. Più la sua sagoma diveniva lo schizzo di un quadro, più il destino che incombeva si solidificava, come pane raffermo.
"Entra."
Un ago di gelo lungo la spina dorsale. Miss Key.
"Quanto impiegherai, temeraria e ribelle Amira?"
Il terrore iniziò a erodere la mia sicurezza. Lei sapeva. Sapeva tutto. Sapeva più di tutto.
Una risata sprezzante trapassò il legno.
Basta.
Non le avrei permesso di deridermi. Non l'avrei permesso a nessuno.
Ero stanca di ignorare, di dover cogliere allusioni invisibili, di essere costretta a decifrare sguardi indecifrabili.
Ero stanca di subire le angherie di altri.
Aprii di botto la porta, le dita strette convulsamente attorno alla maniglia.
Nell'oscurità traforata da luce elettrica, scorsi Miss Key. Era seduta su uno sgabello sgangherato e nero di sporcizia. In netto contrasto il suo aspetto risultava impeccabile, come se fosse stato giorno, come se finanche dormisse truccata e vestita in quel modo.
"Ammetto che organizzare questo teatrino è stato divertente," dichiarò "ma avete impiegato davvero troppo tempo."
"Perché sono qui?"
"Non la trovi anche tu seccante, l'abitudine di staccare gli interruttori di notte?" M'ignorò Miss Key, fissandomi con quel suo sguardo affilato, che sembrava voler ridurre in briciole quel che rimaneva della mia pazienza.
"Perché sono qui?" ripetei fra i denti.
Miss Key raddrizzò la schiena e s'alzò di scatto, un acuto fastidio a indurirle i lineamenti. "In effetti hai ragione. Vorrei asfissiarti, tirandola per le lunghe, ma siamo indietro con il programma."
Programma. Ero stata una marionetta, ancora una volta. Mi scrollai di dosso il familiare miscuglio di claustrofobia e frustrazione, e un soffio d'aria fresca riempì i miei polmoni. Totale indifferenza. Questa era la sola arma che possedevo.
"Anche il mio svenimento faceva parte del programma?"
Miss Key parve non udirmi. S'inginocchiò, traballando un poco sugli spilli rosso sangue delle sue scarpe, e iniziò lisciare il legno con le unghie smaltate.
La scena alla quale stavo assistendo aveva un che di surreale, e sradicò in me il dubbio che quella notte fosse solo un frutto malsano del mio sonno.
"Anche questo fa parte del programma? E mi dica, ha lasciato un po' di tempo durante il quale dovrei capire qualcosa?"
"Il sarcasmo non funziona con me" ribatté Miss Key sovrappensiero.
La sua completa attenzione era rivolta al parquet. Percorreva con le dita affusolate gli stretti corridoi tra un asse di legno e l'altra, sospinta da un'energia febbrile, che pur non trapelava dall'espressione immobile del suo viso.
D'un tratto una scintilla selvaggia, che in quelle due settimane non le avevo mai veduto addosso, sfuggì dal suo controllo metodico e le attraversò le iridi. Curvò appena le labbra, una falce di luna cremisi sull'incarnato candido.
"Trovato."
"Cosa?"
Ero esausta. Desideravo solo che arrivasse l'alba.
"Il motivo per cui sei qui" mormorò. "Ti dirò, è un bene che quella cameriera abbia già provveduto nello spiegarti alcune cose."
Persi un battito. Corinne.
"Come lo sa?"
Indietreggiai, i talloni dei piedi scalzi si scontrarono con la porta semichiusa.
Serrai le dita attorno alla maniglia, le serrai così strette che il sangue defluì.
Una follia cieca riempiva il mio sguardo.
Non m'interessava di J. Non m'interessavano i neroveggenti, la visione di quella mattina. Non se mettevano nei guai Corinne.
"Ti avverto. Prova a rivelare a Miss Hedd qualcosa, e non esiterò a correre nella sua stanza, affinché sappia che hai indotto un'alunna a violare il Regolamento, a uscire dall'infermeria quando ancora non le era stato permesso, istigando perfino uno studente ad aiutarla."
Il sudore mi bagnava la fronte. Il respiro caldo irrompeva nel mio petto con ferocia. E fissavo Miss Key, la determinazione scolpita sul viso.
"Tranquilla, la tua amichetta è al sicuro. Sono l'ultima che la denuncerebbe a Miss Hedd. Fidati."
La squadrai, titubante. Fu mia considerazione, infine, che apparisse, quantomeno, sincera.
Rilasciai la presa sulla maniglia. Tuttavia non mi allontanai. Fidarmi di lei mi risultava difficile. E sbagliato, estremamente sbagliato.
Era un'insegnante. Manteneva contatti diretti con Miss Hedd. Sapevo, tramite C, che la vicedirettrice stabiliva degli incontri mensili con ciascun docente. Una mezz'ora, non concedeva di più. Ma ritenevo fosse abbastanza.
Immaginavo Miss Key e Miss Hedd, intente a bersi una tazzina di the al limone, e a discorrere amabilmente di quanto fossi stata sciocca. Di quanto fosse evidente che fosse uno stratagemma, l'ennesimo, per spiarmi.
"Fai bene a non credermi. So perfettamente qual è la vita che hai condotto fino a questo momento." Un'esile tristezza traspariva dalle parole della donna. La sua impassibilità fu sostituita, per un attimo, da uno sguardo comprensivo.
"No. Non lo sa. Non può saperlo."
Dubitavo avesse mai provato quel che provavo io.
Dubitavo avesse mai nascosto sé stessa, fino a divenire un corpo che agiva in automatico.
Dubitavo avesse mai provato il senso di perdizione che affligge chi ricerca quanto celato, e lo riscopre più offuscato di prima di volta in volta. Come un dipinto inzuppato d'acqua, nel quale non si distinguono più i soggetti disegnati.
"Hai ragione, Amira." Quando pronunciò il mio nome, fui scossa da un tremito. "Ma io ti ho fatta venire qui, perché desidero offrirti quello che nemmeno la tua adoratissima cameriera può darti. Una scelta."
Quel termine scatenò in me un fioccare di reazioni differenti. Speranza. Timore. Diffidenza.
"Però devi ascoltarmi, Amira."
Ebbi un'intuizione.
Forse si trattava di una sciocchezza. Forse ero un'illusa. Ma dovevo tentare.
"Ti mandano loro?"
Ti manda Kathleen?
L'atmosfera si condensò, l'aula si restrinse a un cerchio luminoso che occupavamo solo io e Miss Key.
"Perspicace" asserì a bassa voce.
"Provamelo."
"Amira Cohen, figlia di Kathleen e Jordan Cohen. Tuo padre, a differenza di tua madre, era un neroveggente. Sei stata allevata da tua madre. Non hai mai saputo che fine avesse fatto tuo padre. Arrivasti qui nel Dicembre del 2004, da Londra." Miss Key elencava informazioni in tono monocorde. La sua eleganza di ghiaccio non la abbandonava nemmeno nella sua scomoda posizione e imprimeva la propria immobilità nella penombra.
"Potrebbe saperlo qualunque insegnante" replicai.
"D'accordo." Sospirò, una celata irritazione che galleggiava nella sua voce. "Ricordi qualcosa di tua madre?"
Quella domanda fu un coltello conficcato in pieno petto. Miss Key ne era cosciente. Lo leggevo nella sua espressione, velata di trionfo. La vena empatica mostrata qualche minuto prima si era dissolta. Era tornata sé stessa. La crudele, cinica, fredda insegnante che quel mattino mi aveva sottoposto a una tortura inutile.
Di colpo la bocca mi pareva una caverna di pietra.
"Sì" riuscii a mormorare.
"Bene. Ha gli occhi verdi-castani."
Era facile. Poteva star cercando d'indovinare.
"Capelli neri, lisci, tali e quali ai tuoi. Lucidi come le piume di un corvo."
Era un'accozzaglia di caratteristiche. Non significava nulla.
"Ha la pelle olivastra però. Immagino che tu l'abbia ripreso da tuo padre, l'incarnato chiaro." ipotizzò.
Un lato di me si opponeva ancora, fiacco, poiché si rifiutava di vedere piombare la figura mistica, cattiva, e soprattutto estranea, in cui riconoscevo Kathleen, nella realtà. Nella realtà a cui lei mi aveva condannato.
Eppure Miss Key stava dicendo la verità. Era innegabile.
"Scendiamo sotto questa botola, dando un senso a questa notte, o te ne ritorni nella tua stanza, consapevole di aver corso un rischio inutile?" m'incalzò.
Era una botola, quindi.
Potresti non avere un'altra occasione.
E fu con la voce sonante di J nel capo che avanzai verso Miss Key.
Spostammo il riquadro di legno. Dal buco si levò una nebbia di polvere ed emisi qualche colpo di tosse, mentre la scansavo con l'altra mano.
Una scaletta a chiocciola s'avventurava in basso, in ombre più dense di quelle in cui ci trovavamo io e Miss Key. Non avrei mai sospettato che l'Istituto celasse un altro piano.
Incominciammo a scendere, i gradini illuminati dal raggio luminoso della torcia di Miss Key.
"Posso sapere il perché di questa divisione? Oppure in questo modo rovino il programma?"
"Sarà più facile spiegartelo quando arriveremo."
La risposta secca di Miss Key suscitò in me una velata rabbia, ma ostinarmi non sarebbe servito. Tradussi la mia irritazione in un sospiro e velocizzai il passo.
Giungemmo nel mezzo di una stanza ampia. Una ferita di luce elettrica, inferta da Miss Key, sanguinava nell'oscurità e illuminava il mobilio.
A differenza delle altre dell'Istituto, le quali presentavano un arredamento moderno, questa pareva essere bloccata nel diciannovesimo secolo. Una libreria antica si estendeva lungo la parete opposta all'accesso, colma di fascicoli neri dal valore iniquo all'apparenza. Eppure una vetrina provvista di lucchetto e catenaccio la proteggeva.
Un unico oggetto stonava con l'ambiente. Uno strano cilindro, rivestito di un metallo lucente, posato su un tavolo. Un tubicino fuoriusciva dalla superficie levigata e sull'estremità recava un tappo bianco.
"Prima mi hai domandato il motivo della divisione. È necessario che io ti mostri questo. L'origine di ogni conflitto."
Un'attrazione immotivata mi legava a quel cilindro.
Percepivo ciascuna fibra del mio essere. Era come se, per la prima volta, mi rendessi conto di avere un corpo.
"Quelle vedi è il Primo Contenitore" svelò a bassa voce Miss Key. Un misto di invidia e amarezza macchiava le sue parole.
Ma io non la ascoltavo sul serio.
Era come avere dell'acqua nelle orecchie.
"Amira!" Miss Key agguantò il mio braccio, il contatto mi riportò alla realtà.
"Io non capisco."
Il mio mormorio, rotto dalla disperazione, vibrò nella stanza.
"Cosa c'è dentro?"
"Nel Medioevo, quando comparve, fu denominata Sostanza del Diavolo. Altri la ritengono Distruzione Liquida. Tuttavia la definizione più corretta sia Nulla. Il Nulla, in quanto sfaccettatura e sinonimo del tutto."
Immaganizzavo le informazioni esposte con metodo da Miss Key, che le ripeteva come se le avesse apprese a memoria molto tempo addietro. Costituivano linfa vitale per me, cresciuta tra i segreti, impossibilitata a narrare quelli che celavo e a scoprire quelli a me ignoti.
"È di questo che sono fatti i Marchi" realizzai.
"Non sei poi così sciocca, dunque."
"La divisione. Dimmi della divisione." La guardai intensamente, assetata di risposte.
Miss Key non si scompose, rifletté per qualche istante, e iniziò a narrare con voce atona.
"Agli inizi del diciannovesimo secolo, l'Heddem Institute non era neanche stato concepito. Esistevano solo i Neroveggenti. In una delle Comunità, tuttavia, un individuo si distinse. Lo conoscerai di sicuro, o almeno il cognome. Si chiamava Jonathan Hedd."
"Hedd... come Marcus e Easton Hedd, i fondatori dell'Heddem Institute" dedussi, ripescando le scarse nozioni che possedevo.
"Esatto" mi liquidò Miss Key.
"Fino a quel momento, i neroveggenti avevano usato il loro potere su loro stessi. Jonathan nutriva idee rivoluzionarie. Idee che incantarono molti. Lui ipotizzò che si potesse riversare l'energia su un oggetto materiale. Compì diversi esperimenti, ma non riuscì nel suo intento finché sua moglie non partorì il primogenito."
"Marcus?"
"No. Ector. Suo padre riuscì nell'impresa, ma Ector non era abbastanza forte per sopportare il prezzo. Si tolse la vita a sedici anni."
Rabbrividii, una pioggia di schegge rocciose nello stomaco.
"Jonathan comprese il suo errore. E con il secondogenito non fallì. Lo crebbe al riparo dalle cattiverie del mondo, insegnandogli da sé quello di cui aveva bisogno in casa. Non lo lasciava neanche uscire, terrorizzato dal destino che era stato riservato a Ector." Una lama di malinconia trapassava la sua voce. "Marcus si ribellò presto al padre. Scappò con Easton, che aveva ricevuto la sua stessa educazione. Jonathan, abbandonato dalla moglie deperita da dolore, e dei suoi figli, smise di mangiare e bere. Morì pochi giorni dopo la fuga di Marcus e Easton."
Assorbivo in silenzio le rivelazioni, cercando di ordinarle nella mia mente confusa.
"I seguaci di Jonathan, i più fidati, videro in Marcus e Easton dei nuovi leader. Si attribuirono l'appellativo di Alternativi. Dopo circa dieci anni fu inaugurato l'Heddem Institute, su quest'isola. La Regina Vittoria finanziò il progetto." Tacque.
Rimanemmo molto lì, indaffarate nel nostro frenetico pensare. E intanto la notte scorreva intorno a noi.
Di colpo un lettino contrassegnato da una croce rossa s'affacciò alla mia memoria. Un dubbio atroce insorse dentro di me.
"È possibile che, ancora oggi, non si sopravviva?"
Miss Key ebbe un fremito, ma non permise alle emozioni di dipingerle il viso.
"Potrei rassicurarti. Mentirti. Ma, a differenza di qualcuno in quest'Istituto, dubito che ritardare una verità possa addolcirla." Si fermò e si volse verso di me, una lieve soddisfazione negli occhi. "Sì. Si può non sopravvivere. Ma ciò è ben lungi dal riguardare esclusivamente gli Alternativi."
Un macigno si depositò sul mio petto. R.
"Ma... perché? Perché condannarsi a questa tortura?"
Miss Key, anziché rispondermi, estrasse da una tasca un foglietto ripiegato su sé stesso. Me lo porse, imperturbabile. "Leggilo. Liberatene quando avrai terminato. Buttalo, strappalo, non m'interessa."
Lo presi, titubante, e lo riposi nella giacca.
"Lei è un'Alternativa?"
"Sì. Altrimenti non mi avrebbero arruolato" ironizzò Miss Key.
Perché allora mi stava aiutando? Perché la mandavano i neroveggenti?
"Ma allo--"
"Ragazzina" m'intimò la donna. "Questo lo rimandiamo a un'altra volta."
Desistetti subito. Riconoscevo le persone determinate. E Miss Key era una di quelle.
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