1. Liona
Mi sono cacciata in un bel casino.
Non c'è un cazzo di niente qui intorno, solo alberi. Che sono? Abeti? Pini? Il sentiero è pieno dei loro aghi, mi scricchiolano sotto agli stivaletti.
È ottobre, tra le fronde sgusciano scie di luce solare e non fa così freddo: sono abituata a ben di peggio, ma forse avrei potuto evitare la minigonna e le calze a rete, almeno per il viaggio.
Bah, sono la mia seconda pelle e le prime impressioni contano. Sto per incontrare una mandria di gente sconosciuta e non avrei mai potuto farmi vedere senza la giacca di pelle e la minigonna nere.
Sono nuda, se non le indosso.
Un taxi mi passa accanto sulla via, mentre cammino. Ci sarà dentro un qualche figlio di papà con la puzza sotto al naso? Cambio la mano che tiene il borsone sulla spalla e sospiro.
«Avrei dovuto prenderlo anch'io.»
E sì che me l'avevano detto che dalla stazione di Ravenwood alla Blackthorn University sarebbe stata una sfacchinata considerevole.
Però, no! Meglio andare a piedi: sono arrivata prestissimo, ce la faccio. Mi sono sparata dieci ore di treno, stare ancora col culo poggiato a un sedile era impensabile.
Se solo avessi potuto viaggiare in aereo... stupidi controlli di sicurezza! Non mi avrebbero mai fatto imbarcare i pugnali.
Pensiamo ad altro.
La fresca aria montana mi rinvigorisce i polmoni e lo sforzo è piacevole.
Devo essere pronta a ogni evenienza.
Non sono stanca, no, per niente.
Più o meno.
Qualche passo ancora e al cinguettare degli uccelli tra i rami si unisce un brusio lontano. Mi fermo, poggio il bagaglio e socchiudo gli occhi per cercare di vedere più lontano.
Forse, sì! Lì in fondo c'è qualcosa di artificiale.
Manca poco, dai.
Mi accovaccio e cerco nella tasca laterale del borsone la mia sacca dei trucchi; prendo lo specchietto e mi guardo. Ok, l'eyeliner mi contorna alla perfezione gli occhi violacei e il rossetto non si è rovinato durante il viaggio.
La mia maschera c'è ancora.
Un bel respiro, metto tutto via e riafferro la borsa, buttandomela sulla spalla con entrambe le mani strette alla maniglia in tessuto.
Più mi avvicino, più il vociare di parecchie persone cancella gli altri suoni e, quando infine scorgo le sagome di tutte le matricole che aspettano di entrare, ho quasi un mancamento.
Ma Judas doveva infilarmi proprio in un fottuto college?
Lì non ti cercherà mai nessuno.
Certo, ovvio! Ci sono solo ragazzini eccitati perché stanno per far parte di una scuola prestigiosa, che apre tanti orizzonti e bla bla bla...
Che palle!
A che facoltà mi avrà iscritta, poi? Me l'aveva detto, ma non me lo ricordo.
Dovrò stare in un dormitorio, immagino, con ragazzine infoiate che parlano solo di cantanti, attori o chissà cosa.
Già, il capo ha proprio ragione: è impossibile che qui mi cerchi qualcuno.
Sto immaginando scenari atroci, quando il taxi di prima quasi m'investe mentre torna indietro. Il tassista è cieco, per caso? Per fortuna i miei riflessi agiscono in autonomia e riesco a saltare di lato.
«Sta' attento, coglione!»
Non credo mi abbia sentito, ma urlargli dietro mi aiuta a stemperare la tensione.
Supero un cancello nero davvero grosso e mi ritrovo in uno spiazzo ciottolato, davanti alla facciata di questa specie di castello che sembra uscito fuori da un film medievale. Mattoni, vetrate, statue, nicchie, affreschi...
Ecco perché piace tanto a Judas.
Sarà gotico? Boh, che ne so.
C'è davvero un sacco di gente e l'attenzione di tutti è su una ragazza con lunghi capelli scuri e mossi, poco distante da me: ha un trolley in una mano e il telefono nell'altra, lo mette via con lentezza e avanza verso gli enormi portoni lignei che sono appena stati aperti.
Chissà che ha detto.
Alzo le spalle: almeno nessuno guarda me.
Aspetto che la marmaglia entri e mi perdo con lo sguardo in alto, verso alcune guglie illuminate dal tiepido sole mattutino e... ma lì ci ha fatto il nido un uccello? Cos'è quella cos—
«Ehi!»
Vado a sbattere contro a qualcosa di duro ed è solo abbassando gli occhi che mi accorgo che è un ragazzo.
«Stai bene? Scusa, non dovevo fermarmi così all'improvviso!»
Lo guardo dal basso perché è parecchio più alto di me e il colorito insulto che mi stava per sgorgare dalle labbra muore sul nascere.
Non avevo mai visto degli occhi tanto azzurri.
Forse, però, l'effetto è dato dall'inverecondo contrasto che le sue iridi fanno con la pelle nera. Anche lui indossa una giacca come la mia, ha il naso un po' schiacciato e le labbra piene contornate da un pizzetto scuro molto curato. Si è portato una mano a grattarsi la nuca sotto ai capelli corti, mi fissa con un sorriso impacciato e... cazzo! Sono rimasta imbambolata come un'adolescente in preda agli ormoni!
«Già, non dovevi!»
Rispondere acida è l'unica soluzione, così me lo levo di torno. Lo supero e salgo i gradini in pietra grigia che mi conducono all'entrata.
«Quella borsa sembra pesante... ti aiuto a portarla?»
Ma cosa vuole questo? Una pugnalata in pancia?
Perché mi pedina?
«Ce la faccio da sola.»
Siamo rimasti indietro rispetto agli altri studenti, davanti a noi c'è un lungo corridoio scuro con il pavimento lucido, quasi scivoloso, ed è l'unica cosa che riesco a guardare: magari, se tengo lo sguardo basso, questo tizio mi lascerà in pace.
«Non ne dubito, ma voglio farmi perdonare.»
Mi fermo di colpo, chiudo gli occhi e prendo un profondo respiro.
D'accordo: è guerra.
Rapida e senza preavviso, afferro il borsone e glielo lancio addosso, già pronta a godermi lo spettacolo di lui che cade a terra per il colpo. Resto interdetta, però, perché quello afferra il grosso proiettile improvvisato senza sbilanciarsi di un millimetro.
«Wow, è pesante!»
Come te, stronzo!
Mi trattengo, però sento una palpebra vibrare un poco nel mio stupido tic nervoso.
Calma. Devo stare calma. La lama nascosta nel collo dello stivale pare chiamarmi, invitante, ma qui non è certo il caso di ammazzare la gente.
Non il primo giorno, almeno.
Meglio ignorarlo.
Mi sistemo una ciocca corvina dietro all'orecchio, metto le braccia sotto al seno e proseguo, visto che ormai ci hanno preceduti tutti.
Com'è ovvio, il tizio mi cammina accanto e all'apparenza non si sta sforzando nel tenere il mio borsone in una mano e la sua valigia nell'altra.
«Comunque io sono Nicholas Sender. Nick, per gli amici.»
Cos'è quel tono così allegro?
E se...
Mi sta controllando?
No, è impossibile.
Mi rifiuto di pensare che questo ragazzo c'entri qualcosa con me.
Però Judas potrebbe farlo, in effetti.
No, dai, è una coincidenza.
Sono paranoica, per forza.
«Ok, Nicholas.»
Gli rispondo distaccata, girando appena gli occhi giusto per vedere la sua reazione.
Lui sorride e alza un sopracciglio.
Quello sguardo furbo non mi piace.
«Mi piacerebbe sapere come posso chiamarti, visto che saremo colleghi in quest'università.»
Cosa?
Intende colleghi studenti o...
Sì, dai, è il modo in cui si chiamano i ragazzi tra loro, giusto?
Ah, maledizione!
Non posso fermi vedere agitata, ne va della mia integrità.
Mi blocco e torno a immergermi in quelle iridi di ghiaccio, allungo le labbra in un sorrisino sottile.
Se non puoi batterli, unisciti a loro.
«Io sono Liona.»
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