1
Londra, 2016
Non che si possano fare molti ragionamenti filosofici, quando stai per morire.
Succede tutto in un attimo: quello prima sei lì, sulle strisce pedonali, che ragionevolmente pensi di poter attraversare la strada con una ciambella in mano. L'attimo dopo, una monovolume quasi ti sfiora e finisci per terra, confuso, e il terrore arriva solo un attimo dopo, quando ti rendi conto che effettivamente quella è una situazione di pericolo e dovresti scappare.
Nel mio caso, rimasi per un tempo incalcolabile seduta sull'asfalto ghiacciato, fissando la targa dell'auto come se fosse la colpevole di tutto.
E poi fu veramente strano. Sì, fu davvero strano, perché il guidatore che non avevo avuto il piacere di guardare in faccia accese la sua utilitaria e mi superò, sparendo nel traffico. E rimasi lì, immobile per qualche altro secondo, o minuto, a fissare i passanti fissarmi. — L'avete vista? — avrei voluto chiedere, — avete visto quella macchina?
— Buongiorno — disse invece un anziano signore, — la strada è ghiacciata, si è fatta male? Posso aiutarla?
Mi guardai alle spalle, volevo indicare l'auto che mi aveva quasi travolta; ma era lunedì mattina, ora di punta, e Londra non era esattamente un posto tranquillo. — Mi hanno quasi investita — mormorai incredula. L'unica prova che avevo di ciò era il mio shock, e il fatto che fossi per terra. Non sapevo nemmeno dove fosse la mia ciambella.
— Chi l'avrebbe travolta? — domandò l'anziano signore, aiutandomi ad alzarmi in piedi.
— Non lo so... grazie mille... — Mi obbligai a continuare a camminare; mi sentivo le ginocchia di gelatina, e il cuore mi batteva all'impazzata. Un fastidioso prurito agli occhi mi obbligò a rallentare, e per miracolo riuscii a prendere il terzo autobus, quello che, sperai con tutta me stessa, mi avrebbe portata a scuola.
Sostai per un attimo di troppo sull'entrata del mezzo, continuando a stropicciarmi gli occhi; avevano cominciato a lacrimarmi e non riuscivo a trovare un diamine di fazzoletto. Mi guadagnai un'occhiataccia da parte dell'autista, che decise di partire di colpo, facendomi quasi perdere l'equilibrio. A malapena riuscii a vedere dove aggrapparmi per non ruzzolare in mezzo al corridoio.
Non avevo mai sofferto di un tale fastidio, tantomeno di allucinazioni... ma feci finta di nulla. Insomma, non proprio: mandai a Clare un messaggio in cui le dissi che forse ero quasi stata presa sotto da una macchina, chiedendole di spiegare al professor Smith che non l'avevo fatto apposta per saltare la sua ora.
Feci un respiro tremante mentre cercavo un fazzoletto nello zaino. Non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione del pericolo. In qualche modo, quella mattina avevo rischiato grosso. Ma nessuno pareva averlo visto. D'altro canto non era possibile che io, terzogenita del Casato Stonheaven, potessi improvvisamente rendermi conto del paranormale attorno a me. Infatti, i tipi strani erano gli altri membri della mia famiglia... certo, non io. Una maledizione gravava su alcune stirpi come la mia, chiamate Casati, e consentiva ai primi due figli di ogni nucleo familiare di vedere i fantasmi: tutti gli altri nascituri, semmai ne fossero nati altri, non ne erano dotati. Come me, ad esempio. Avrei potuto fare pietà ad alcuni, ma... credetemi: mi andava decisamente bene così. Non ne sapevo granché, ma bastava il fatto che gran parte della mia famiglia fosse morta a farmi perdere ogni minimo interesse nei confronti di quel mondo. I miei zii e i miei nonni materni, prima il nonno e, recentemente, la nonna: le loro vite erano state stroncate dal paranormale. Non vedevo nulla di attraente in tutto ciò.
La Percezione era una maledizione vera e propria, ma non mi era chiaro da chi fosse stata lanciata, né quando. Anche se avessi voluto saperne di più, nessuno della famiglia avrebbe risposto alle domande di chi non faceva parte del giro. Era qui che io diventavo semplicemente io, e i miei due fratelli, mia zia e mia madre formavano un solido "loro". Io ero la terza figlia, l'ultima arrivata della famiglia Stonheaven, quindi mi ero salvata dalle missioni suicide e dagli allenamenti in palestra. Se non fossi morta per una cosa, sarei decisamente morta per l'altra.
E quello era tutto ciò che sapevo... solo informazioni raccolte qua e là nel corso degli anni. Pettegolezzi, insomma. Mi andava bene. Ero viva. Avevo una migliore amica. Il mio futuro era condannato come quello di tutti gli adolescenti del mondo, un po' per l'odio contro il sistema e un po' per l'inquinamento e il rischio di guerre mondiali. Ero felice della mia ciccia.
Mi affrettai a raggiungere la scuola, perdendo l'equilibrio sul sentiero reso scivoloso dal ghiaccio. L'edificio che mi si profilava davanti era la Brighton High School, elegante istituto dalle notevoli dimensioni. Le pareti erano formate da mattoncini marroni, mentre la facciata era a capanna lì dove l'entrata, due battenti che formavano un grosso portone in legno, si apriva; una fontana dalla forma circolare troneggiava davanti all'edificio e, a metà tra la Brighton e il maestoso cancello, una quercia millenaria, simbolo della scuola, sfoggiava orgogliosamente i suoi rami nodosi. Quando Elise, mia sorella, mi aveva detto che sarei arrivata in ritardo se avessi dormito altri dieci minuti, l'avevo mandata a quel paese pensando che mi stesse prendendo in giro... e invece, se l'avessi ascoltata, nulla di tutto quello che mi era successo sarebbe, beh... successo. Ma la sera prima avevo fatto tardi perché avevo guardato un film horror, quindi era normale che il mio cervello elaborasse il trauma lasciato dal film in un modo così macabro.
Arrivai di fronte alla classe, ansimante, la mano premuta contro la milza. Con un movimento coraggioso riuscii ad aprire la porta, dopodiché sbirciai all'interno. Mr. Smith, intento a spiegare qualcosa che anche in circostanze normali non avrei capito, mi guardò stupito attraverso gli occhiali rettangolari. — Signorina Stonheaven. — All'inizio dell'anno credevo fosse quel genere di professore serio ma anche indulgente, che ispirava fiducia e sicurezza, tuttavia... dopo due settimane di insufficienze ingiuste e rimproveri a non finire avevo capito di avere di fronte solo un tiranno. Spesso lo immaginavo davanti al camino della casa di sua madre mentre metteva insufficienze ridendo come uno squilibrato.
— Buongiorno — mi sforzai di tenere un tono normale.
— Se ritarderà un'altra volta, signorina, avviserò il dirigente. L'ultima volta che ha tirato fuori una scusa simile l'ho beccata a bighellonare nei dintorni, e ora non mi sembra in pericolo di vita per questo presunto inc...
Clare alzò la mano attirando la sua attenzione. — Professore, Megan dovrebbe andare lo stesso in infermeria. Non ha affatto una bella cera.
L'uomo tacque e si fermò a guardarla. Cominciò a balbettare qualcosa di indefinito, gli occhi stranamente vacui. — No... — disse piano tornando a guardarmi, — no, non ha affatto una bella cera, in effetti.
— Posso accompagnare Megan, vero?
— Ma certo.
Clare si alzò in piedi e fece il giro del banco per venirmi incontro. Era un miracolo.
— Signorine... — cominciò il professore in tono confuso. Clare si voltò a guardarlo sorridendo lievemente. — Sì?
Mr. Smith aggrottò la fronte e riprese a balbettare prima di dire, gli occhi sempre più vitrei: — Nulla. Spero sia risolvibile con un po' di riposo...
Clare chinò la testa in segno di ringraziamento, poi mi spinse verso la porta. — Andiamo, veloce.
La conoscevo dalle elementari ed ero ancora convinta, a diciassette anni, che la mia amicizia con lei fosse più proficua dell'amicizia con la regina. Se voleva andare in bagno, Clare andava in bagno; se voleva andare a casa, Clare andava a casa. E se voleva portare la sua amica in infermeria quando apparentemente non pareva stare male, Clare la portava. Bastava guardasse i professori dritto negli occhi.
Dopo aver spiegato la situazione alla signora addetta all'infermeria mi sedetti sul lettino aspettando tornasse col termometro. Clare si parò di fronte a me; le sue labbra, colorate di rosso borgogna, erano strette in un puntino nervoso. Sollevò il cellulare, per mostrarmi il messaggio che le avevo inviato. — Spiega.
— Perché sembri arrabbiata quando dovresti, che ne so, prepararmi una camomilla e dirmi che va tutto bene?
— Non sono arrabbiata, sono preoccupata. Hai visto chi ti ha quasi travolta?
Avevo la targa impressa in mente, ma non ricordavo l'ordine o il senso dei numeri e delle lettere presenti. — No — risposi.
Clare alzò le braccia al cielo, esasperata.
— Non sei affatto arrabbiata.
Si avvicinò a me, inquieta. — Cos'hanno i tuoi occhi?
— Non ho dormito niente e mi danno un po' fastidio. Non preoccuparti. — Scesi dal lettino e sospirai. — Nel film di stanotte c'erano un sacco di incidenti stradali sospetti, e la fantasia non mi manca. Avrò immaginato tutto.
Quell'informazione, possibilmente, la mise ancora più in agitazione. — Mi stai dicendo che quella macchina... non esiste?
— Mi dispiace averti fatta preoccupare per niente... ti va se dividiamo il pranzo? Così mi faccio perdonare.
Tuttavia la ragazza mi fissava senza dire niente, lo sguardo colmo di preoccupazione.
Mr. Smith continuò la sua esaltante lezione sui vulcani spenti finché qualcuno non bussò; la porta dell'aula si aprì e mia sorella regalò un dolce sorriso alla classe fingendosi imbarazzata per l'intrusione. Ma agli altri non importava davvero, impegnati com'erano a studiare il suo corpo perfetto, il portamento signorile, gli affascinanti occhi verdi. Aveva due anni più di me e si trovava nella mia classe per due motivi: A) sbattermi in faccia la sua avvenenza, la sua intelligenza e il fatto di essere la rappresentante degli studenti della Brighton; B) parlare della sua candidatura come rappresentante della scuola a una classe che le avrebbe fissato solo le gambe chilometriche. Oltre al suo aspetto angelico, si distingueva dal resto degli studenti per i guanti. Portava sempre guanti di ogni tipo e colore, come il resto dei membri della mia famiglia; a scuola giravano le voci più disparate sul perché lo facesse – per moda, per tenerci i bigliettini che le facevano prendere ottimi voti, perché aveva le mani sudaticce e voleva nasconderlo a tutti i costi, e così via – ma io sapevo fosse tutto correlato al suo lavoro. Certo, non sapevo esattamente a cosa servissero, ma parevano un requisito fondamentale per considerarsi parte del loro mondo.
Le lezioni passarono lente e angoscianti, come il video sul movimento delle placche tettoniche mostrato cinque minuti prima dell'ora di matematica, ma alla fine riuscii a tornare a casa sana e salva.
Non appena aprii la porta di casa mia madre mi prese dalle spalle e mi strinse in un abbraccio. — Oh, Megan! — mormorò con voce tremante.
Qualcosa non andava. Mi allontanai subito, rivolgendole un'occhiata preoccupata. — Ciao. Che succede?
Ma lei tornò ad abbracciarmi. — Niente, niente. Solo che... Clare mi ha chiamata per dirmi cosa ti fosse successo. — Esitò, come se volesse dirmi mille cose in un secondo. — Mi sono spaventata. Tutto qui.
Sospirai, poggiando lo zaino per terra. — Credo sia colpa del film che ho visto ieri... aspetta un attimo. Clare ti ha chiamata? — Eravamo amiche praticamente da sempre, ma trovavo un po' strano che Clare chiamasse mia madre.
Tornò a raggomitolarsi nella sua coperta patchwork, rivolgendomi un sorriso indecifrabile. — Si è preoccupata anche lei.
— Non ce n'era motivo — insistei, ma continuava a guardarmi in quel modo. Come se da un momento all'altro potesse succedermi qualcosa di terribile. Era piuttosto improbabile; la cosa peggiore che mi fosse mai capitata, infatti, era stata rompermi il naso al mio primo e ultimo allenamento di pallavolo.
La raggiunsi sul divano: — Conosci metodi per lanciare il malocchio, per caso? Mi servirebbe qualcosa da usare contro i professori della Brighton.
Lei non rispose, ma mi sorrise enigmatica. Ero sicura li conoscesse, o che al massimo si tenesse in stretto contatto con qualche strana creatura in grado di aiutarmi. Mi sedetti al suo fianco, tornando ad abbracciarla. Le sue carezze calmarono quasi subito i miei nervi. Forse non era necessario affidarmi a strane creature. Forse mi serviva solo un abbraccio. Lasciai che il calore del fuoco scaldasse i miei abiti freddi e sospirai esausta.
Neth ed Elise avevano preso da mia madre i capelli castani, resi particolari dai riflessi ramati; io ero l'unica ad averli neri, uguali a quelli di papà. Era stato un grande uomo, papà; Neth ricordava ancora il suo sorriso radioso e i suoi occhi marroni, dolci, ricordava le sue grandi e rassicuranti mani mentre lo prendevano in braccio. Aveva sette anni quando Johan morì di meningite. Io nacqui qualche mese dopo.
— Le scuole private sono la rovina della gioventù.
Spalancai gli occhi; davanti a me, il fuoco si agitava scoppiettando nel camino. Mi voltai confusa. — L'hai sentito?
— Sentito cosa?
La guardai, tentennando. — La voce della... lascia stare. — Sospirano tornai a sdraiarmi. — Me lo sarò immaginato, è solo che mi manca la nonna.
Dopo qualche attimo di silenzio, mamma avvolse anche me nella coperta. — Manca a tutti.
Il suo tono leggero mi lasciò perplessa, come al solito. Era passato solo un mese dalla sua morte, ma sembrava che solo io portassi ancora sulle spalle il peso del lutto. Pronto? Ѐ morta la nonna! Quella persona che è stata con noi per una vita intera! Quella persona che ci insegnava a scassinare le serrature e che odiava i gatti! Ve la ricordate? Avrei voluto dire tutto questo, magari durante la cena, sbattendo un pugno sul tavolo come faceva lei quando aveva qualcosa da dire.
Zia Annie entrò il salotto di gran carriera. Le piacevano le comparse in pompa magna e più o meno tutto ciò che la facesse sembrare una rispettabile signora d'alta borghesia; sospettavo persino che sotto la blusa indossasse un corsetto che le teneva la schiena dritta, uno di quelli ottocenteschi e con le stecche di balena. I suoi capelli, un tempo rossi come quelli di nonna Victoria, erano legati in una crocchia grigia all'altezza della nuca.
La donna si bloccò a guardarci. — Che scansafatiche. — Sospirò. — Questa sarebbe l'ora dello studio. Ci si riposa dopo il tè delle cinque.
— Gesù, Annie, lasciaci in pace.
Mia zia sbuffò, prese un libro che le serviva dalla libreria e sparì a mento alto oltre la soglia. — Papà ti darebbe una bella strigliata — la sentimmo borbottare sulle scale. Zia Annie era la copia femminile del nonno, e da quando lui non c'era più non aveva nessun altro con cui bisticciare leggendo il giornale. Doveva essere molto frustrante, per lei, perché la prima persona che le capitava a tiro veniva ripresa anche solo per un capello fuori posto.
La mamma tornò a guardare il fuoco, irritata.
— Potrebbe cercare di divertirsi, ogni tanto — borbottò.
Fu il turno di Elise di rovinare l'atmosfera con la sua sola presenza. Accomodandosi compostamente sul divano, dedicò una lettura distratta alla rivista che aveva in mano prima di esclamare: — Tra poco vado via! — Dopo tre secondi aggiunse: — Megan è arrivata in ritardo a scuola, te l'ha detto?
— È questo che impari da quelli come voi? A fare la spia?
— Lo dico perché sei anche una mia responsabilità.
— E da quando in qua?
La mamma sospirò. — Non fa niente. Meg, cerca di arrivare puntuale, la prossima volta. Dove vai, Liz?
— Ash. — La fulminò con lo sguardo. — Come ogni volta che me lo chiedi.
— Spero sempre che tu mi risponda diversamente — replicò.
Elise alzò gli occhi al cielo. Il suo telefono vibrò e la ragazza si alzò in piedi, ci salutò con un veloce e disimpegnato 'ciao' e andò via. La mamma tornò a guardare il fuoco, assorta nei propri pensieri. Appoggiai la testa sulla sua spalla accoccolandomi tra le sue braccia. Non avevo mai visto quell'Ash in vita mia, anche se il nome mi era familiare: Elise ne parlava sempre al telefono con le sue amiche e io, da brava persona che ero, origliavo tutto. Mia sorella lo aveva sempre definito il suo "quasi-ragazzo" e aveva pianificato ogni mossa nei minimi dettagli perché diventasse più che un semplice amico. Non tifavo per lei ma dovevo ammettere che la sua perseveranza era notevole. Ci stava provando da qualche anno, ormai!
— Questo Ash verrà alla festa? — domandai.
— Purtroppo. Cosa farai quel giorno? — Come ogni anno ci sarebbe stata una festa per celebrare un qualche loro evento particolarmente importante. Probabilmente si aspettava che stessi con Clare, anche perché non è che ci fossero tante altre possibilità, tuttavia era abbastanza improbabile che, per quell'anno, riuscissi a rimanere da lei per la notte; la sua matrigna aveva ripreso a farsi sentire e si sentiva obbligata a stare con lei.
Comunque, la buttai lì. — Clare può venire qui? Ci chiudiamo in camera e stiamo per i fatti nostri, davvero.
La mamma sospirò, tormentandosi le cuciture dei guanti. Eccola di nuovo: quella barriera. La differenza tra me e loro. — Sai che non mi interessa nulla di ciò che fate o dite — insistei. — Staremo per le nostre.
Invece, propose: — Perché non partecipi, questa volta?
Il mio sopracciglio si sollevò in maniera automatica. — Ma che stai dicendo?
Arrotolandosi una ciocca di capelli attorno al dito, mia madre fece spallucce. — Non saresti la prima terzogenita della storia a partecipare ad una festa della Casa di Londra. Proprio l'anno scorso ho visto...
— Proprio ieri evitavi perfino di parlare dei Sensitivi. Cos'è cambiato?
Scattò sull'attenti, come se l'avessi punta con uno spillo. — Cosa può essere cambiato in un giorno, scusa? È solo che sei mia figlia e, dato che non hai di meglio da fare, preferisco tenerti vicina piuttosto che relegarti in camera tua come se fossi in punizione. E poi...
Già estremamente confusa dal suo discorso, aspettai che aggiungesse ciò che voleva dire. C'era qualcosa che non mi stava dicendo.
— E poi — continuò molto lentamente, — ci stavo pensando, e mi fido di te. Vorrei che sapessi di più su di noi.
Probabilmente la mia espressione era talmente incredula da farla agitare. — Cosa c'è di male? — sbottò.
— Non so, mamma, cosa c'era di male fino a stamattina?
— Va bene. Fai come vuoi. — Si riprese la coperta e afferrò il primo libro che trovò sul tavolino. Ma mi stava prendendo in giro? La prima regola del Fight Club era cambiata? Ora si poteva tranquillamente parlare del Fight Club? — Io non ti capisco. — Mi alzai afferrando lo zaino. — Comunque sono io che non voglio saperne di più. Se avessi voluto non avrei certo aspettato il tuo permesso per informarmi.
Mi guadagnai un'occhiataccia, ma non avevo ancora finito. — I nonni sono morti perché sapevano, anche se fate quasi finta di niente. Scusa se voglio tutelarmi.
— Non facciamo finta di niente.
— Allora perché mi vuoi mettere in pericolo senza motivo?
Sembrava volesse replicare, ma alla fine si trattenne. Squadrò la mia uniforme scolastica e ordinò in tono perentorio: — Mettila a lavare. Ѐ tutta macchiata. E fatti una doccia, tra poco preparo il tè.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top