🌘 PROLOGO 🌒
Spaccami il cuore
come fosse di terra,
ormai crepato...
Strappamelo di lì!
Pesa.
Mi tira, più a fondo.
Dove solo io
lo posso sentire...
Urlare,
Gridare,
Pregare.
Ma non posso accoglierla,
la sua preghiera.
Se bruciamo insieme,
ne vale la pena?
~
AmberShiver
🩸🌑🔥
https://youtu.be/la1_PiU4LHw
3 mesi, 5 giorni e un fuso orario abbondante.
Avevo addosso cicatrici che mi brillavano come specchi d'acqua al chiar di luna.
Quanto era passato dall'ultima volta che l'avevo visto?
Quanto tempo era passato da quando avevo lasciato Haywards Heath?
Lo sciabordare delle onde sulla battigia mi cullava l'anima, mi dondolava i pensieri; come particelle di aria che vagavano sulla superficie, senza meta.
Tre lunghissimi mesi e cinque giorni erano passati da quando avevamo messo piede su quell'aereo lasciandoci l'Inghilterra alle spalle; lasciandoci il passato alle spalle.
Avevo abbandonato una parte di me lì, a terra, fra le valigie dimenticate e disperse dei viaggiatori, al recupero bagagli. Sui nastri che giravano all'infinito senza mai fine, senza una meta, senza una destinazione.
Avevo lasciato lì la vecchia me.
Avevo lasciato lì Nicholas, mia madre, Alice, Trevor, mio padre...
Tutto. Tutti.
Tre mesi e cinque giorni da allora e non era passato un singolo giorno in cui non le avessi sentite, le schegge di quello che era successo, affondarmi nelle pareti del cuore, scendendo più a fondo, lacerando un po' di più. Ancorandosi alle ossa, legandomi le ciglia al primo sollevamento di palpebre la mattina, inondandomi i polmoni quando mi mancava il respiro.
Ancora un po'. Sempre di più.
Mi ricordavano ogni giorno ciò che era successo. Ciò che era accaduto con Trevor Black, ciò che aveva dovuto fare Nicholas per proteggere suo fratello, ciò che aveva dovuto promettere a Trevor pur di salvarmi.
Cosa, ancora, non lo sapevo.
Ed erano infinite domande quelle a cui io non trovavo una risposta.
Erano un groviglio di fili, una matassa avviluppata senza inizio né fine.
Ed io ero così piccola, in quel mondo divenuto così immenso. Ero una pulce che cercava risposte nell'infinità del cielo, guardandone l'immensità e perdendomici. Come una goccia d'acqua nella vastità dell'oceano.
Tre mesi e tre giorni da quando avevamo messo piede sul territorio australiano.
I granellini chiarissimi di sabbia che mi scivolava sui dorsi dei piedi, sospinti dalla brezza fresca del mattino, erano delicati, erano fini.
Io, una sabbia così, non l'avevo mai vista.
Era troppo chiara, troppo sottile e troppo tendente al bianco.
Sollevai il capo mentre quel cerchio infuocato, sopra il pelo dell'acqua all'orizzonte, mi regalava ancora la sua magnificenza.
Quel bruciore nel cielo, quel rosso arroventato, che sembrava tanto irreale quanto lo era tutto ciò che mi circondava.
E l'alba sembrava accordarsi al rumore gocciolante del mio cuore, alla melodia della risacca del mare, piacevole e costante, al frusciare dei granelli di sabbia sospinti a vagare sulla spiaggia.
Era come affondare la testa sotto il pelo dell'acqua, piangendo e urlando, senza però emettere alcun suono. Eppure lo esprimevi, eppure ti corrodevano dentro quei gridi, eppure ti scavavano la pelle quelle lacrime.
Non riuscivo a staccare gli occhi da quella bellezza crudele all'orizzonte che lacerava le pupille e distruggeva la capacità di sottrarsene.
Era bella da star male, quell'alba.
Non riuscivo a farmene una ragione.
Nell'immensità di quei chilometri di spiaggia, nell'inifinità dell'oceano che si distendeva fin dove lo sguardo arrivava.
Mi lasciai divorare dentro da quella sofferenza che mi mangiava il cuore, morso per morso.
Mi sollevai in piedi, i capelli che mi schiaffavano la schiena, sospinti in ogni direzione.
Tre mesi, cinque giorni e un fuso orario diverso e non se ne era mai andata quella sofferenza che mi aveva gocciolato all'infinito come un rubinetto rotto, aveva continuato imperterrita, chiamando a sé altre emozioni, altre reazioni.
Iniziai a scivolare sulla sabbia, affondando ad ogni passo, con quello scricchiolare che pareva di calpestare polistirolo.
Era ormai sbocciata, quella rabbia, come il fiore di loto; di quella bellezza rara che spunta all'improvviso, tra fango e melma.
L'acqua che mi lambì i piedi era fredda, pungente, gelida, appagante. Il profumo salmastro una promessa scolpita nella pietra.
Quelle scintille di furia che fino a poco prima erano state il mio arco, la mia spinta per andare avanti ad Haywards Heath, per ricrearmi, per non mollare...
Passo passo, l'acqua saliva, le caviglie erano cristallizzate dal freddo; la sentivo, quella sensazione devastante perforarmi le ossa, rattrappirmi i muscoli, urlare al calore delle mie cosce di arretrare.
Quella rabbia era amaranta e divampante come quell'alba. Tanto intensa da non potersene sottrarre, tanto sconvolgente e atroce da divenirne vittima.
Lottò, il mio corpo, con ogni briciolo di forza, con ogni briciolo di ragione che mi arpionava le caviglia, che mi implorava di sottrarmene.
L'oceano accolse il mio bacino, mi avvolse la zona calda e sensibile dello stomaco, strappandomi un singulto.
Ed era così feroce, quella furia, così gravoso quel ringhiare e pretendere che mi scorreva nelle vene; come se fosse lava, come se fosse bollente e annichilente.
L'ossigeno sparì, risucchiato dal freddo che mi rese insensibili le braccia.
Rimasi con le piante che affondavano nella rena, cercando di arpionarmi, di piantare radici, a fondo; desiderando di divenire pilastro, inamovibile, inattaccabile.
E mentre creavo radici dai miei piedi e divenivo fondamenta, dentro esplodevo a ritmo di quella bellezza struggente che scoppiava davanti a me.
Attesi...
Come ogni mattina.
Come ogni giorno.
Attesi.
Ed emerse, completamente, affiorando all'orizzonte: circolare ed enorme.
E il cielo aranciato che lo accolse, piano piano si rischiarò; così repentinamente da godermi ogni cosa, ogni sfumatura più chiara che emerse. Perché quel rosso straziante svanì con quella velocità che non te ne fa rendere nemmeno conto; senza tempo per piantarti quei colori nelle iridi, senza tempo per respirarci dentro.
E il sole sorse e il freddo mi distrusse.
Ed io ero sola, nell'immensità dell'oceano, nella distesa di spiaggia a quell'ora.
Ed attesi, ancora; fino a quando quella palla all'orizzonte non divenne che del suo colore consueto, quell'arancio tenue e brillante. Comune nel suo essere sole.
Ma io continuai a custodirli in me, quei frammenti cremisi che mi si erano appiccicati alle pupille, scolpendomisi nelle vene.
E come ogni giorno, non riuscivo a muovermi, con quel freddo che cristallizzava tutto fuori e niente dentro.
Mi tuffai, lasciandomi cadere completamente sotto il pelo dell'acqua, con quello schiaffo gelato che mi strappò ogni respiro, ogni lacrima, ogni brivido, ogni dolore...
Solo quel sole, mi si tatuò dentro, mi si ricamò sulle pareti del cuore. Con quella bellezza struggente, così dolorosa e così innegabile, così Nicholas...
E nuotai, come ogni mattina; annaspando e spingendo, pregando e soffrendo.
Ogni giorno, ogni mattina, sola, vuota.
Con quel sole dentro, con quell'alba che mi si imprimeva negli occhi, appiccicandomisi al cuore.
Sola, con quella come unica certezza, unica ancora.
Tre mesi e tre giorni da quando mi immergevo.
Ricordandomi così di essere ancora viva, di essere ancora sempre io...
NDA:
Siete pronti per continaure questo viaggio?
Ve le ricordate le domande che ci siamo lasciati alle spalle, sul nastro del rullo trasportatore del aeroporto dove Sam e Nicholas si sono salutati?
Pronti?
Fra un mesetto inizierò la pubblicazione... :)
un abbraccio,
Silvi
PS: chi di voi ha capito dove si trova Sam? (questa foto l'ho scattata proprio io, ed è questo che lei vede ogni mattina...)
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