20. Gentilezze pericolose
Maybe then, I'll fade away
And not have to face the facts
It's not easy facing up
When your whole world is black
Paint it, Black - Ciara
«Quindi?»
Mi pulii la fronte con l'interno dell'avambraccio impedendo al sudore di sdrucciolare lungo la pelle accaldata e franare a terra sulla gomma del tatami.
«Concentrati» mi redarguì K. con tono paziente.
Con la coda dell'occhio lo vidi incrociare le braccia al petto mettendo in evidenza gli avambracci torniti che spuntavano dalla maglia bianca.
Il puzzo di sudore aveva ormai permeato tutto lo spazio della palestra, rendendo l'ambiente ripugnante per chi entrava dalla porta.
Una parte di me lo odiava, sembrava l'aroma disgustoso della mia vita in Australia; l'altra parte di me lo utilizzava come motivatore personale.
«Chiedevo per sapere» rispose Jesus sogghignando.
Si passò il pollice sul sopracciglio, un gesto che avevo visto fare ripetutamente durante gli allenamenti delle ultime due settimane iniziate da quella prima volta che avevo messo piede nel quartier generale.
Due settimane di domande monotone su BlackMoon da parte degli agenti. A cui io rispondevo con quello che sapevo: niente.
Due settimane in cui Emily era sempre più nervosa e schiva.
Era arrivato Giugno e così l'inizio ufficiale dell'inverno in Queensland.
Due settimane di allenamento giornalierio con i due fratelli scozzesi. Riportai su di loro l'attenzione.
«Ho riferito a Cliff tutto quello che so» ribattei serrando i pugni dinanzi al petto, in posizione di difesa.
«Basta parlare.»
Jesus roteò gli occhi all'affermazione del fratello. «Sto solo rendendo l'allenamento più verosimile. Se vuole imparare a difendersi deve rimanere sempre pronta.»
«Vuoi solo deconcentrarla...»
Vero. Decisamente. Ne andava matto.
«Certo che no Kirk!» il sarcasmo gli gorgogliò nelle parole.
Lo vidi appena in tempo. Dopo due settimane di continui allenametni avevo iniziato a studiarlo seriamente.
Apriva il pugno della mano sinistra, spostando il peso del corpo all'indietro, poco prima di attaccare. Questo parlava più del suo sguardo fintamente noncurante.
Gli occhi non mentono mai, rivelano le intenzioni prima che si compiano, ma anche l'abitudine è un coltello a doppia lama.
Mi scostai all'indietro, per poi intercettare il colpo di pugno che stava mirando dritto a dove poco prima si trovava il mio stomaco. Sollevai il ginocchio direzionandolo al suo ventre. Ma con la propria gamba deviò il corpo, aprendomi la difesa e sbilanciandomi la posizione.
Non riuscii ad appoggiare in tempo il piede a terra, che Jesus mi aveva afferrò la gamba d'appoggio e, portando la sua spalla dietro il mio ginocchio d'appoggio, aveva spinto con la mano sul mio bacino facendomi sbilanciare definitivamente all'indietro.
Caddi come un sacco di patate.
Gemetti di dolore e frustrazione quando la schiena rimbalzò indignitosamente contro il morbido del tappeto.
La stizza mi punse la lingua e mi rattrappì lo stomaco.
Continuavo a farmi battere come una ragazzina inesperta. Così non andava. Proprio no.
«Stai bene?»
Mi affrettai a puntare gli avambracci a terra e sollevare il busto. «Una meraviglia.»
Kirk sciolse la posizione rigida delle braccia venendoci incontro. I radi capelli color carota catturavano la luce del neon sopra le nostre teste, divenendo brillanti e chiarissimi.
«Non male. Stai intercettando più velocemente i suoi movimenti, ma ricorda di sfruttare i tuoi punti di vantaggio. E fai più attenzione al posizionamento delle gambe.»
Strinsi le labbra con insoddisfazione e mi sollevai col busto rimanendo però seduta a terra, i leggins sotto il fondoschiena si attaccarono con inclemenza alla gomma su cui ero seduta.
Dio quanto avevo sudato! Da quanto ci stavamo allenando?
Mi alzai con un grugnito evitando la mano che Kirk mi stava porgendo, oppure la tenaglia, per meglio specificare: le sue mani erano talmente grosse che potevano benissimo assomigliare alle dimensioni della mia testa.
«Ancora non bene...» appurai inspirando con forza.
Sentivo la schiena pulsarmi incredibilmente, soprattutto all'altezza delle scapole dove pareva che qualcuno mi avesse lanciato sassi addosso da quanto doleva.
«Poteva andare peggio, ragazzina...» mi rimbeccò Jesus scrollando le spalle per poi stirare le braccia verso l'alto.
Era un complimento?
«Mhmm...»
Jesus si passò le mani sulla pelata scuotendo la testa.
«Non ti puoi paragonare a lui, Sam» intervenne il fratello avvicinandosi. «Il fatto che tu sia in grado di tenergli testa nonostante la tua fisicità, è qualcosa che dovresti valutare di più. Soprattutto per il fatto che potresti migliorare nettamente se solo smettessi di fare da carrarmato.»
Scossi le spalle, contrariata.
«Che vorrebbe dire?»
«Vuol dire che bisogna essere consapevoli dei propri punti di forza e sfruttarli a proprio vantaggio-»
«Sei un nanerottolo rispetto a me, piantala di venirmi addosso come se fossi un rinoceronte!» Jesus ammiccò squadrandomi da capo a piedi, rimarcando il concetto. Poi scese dal tatami e si strofinò il viso con l'asciugamano.
«Quello che Jesus sta cercando di dire, è che tu sei agile e veloce, sfrutta quella dote, piuttosto che cercare lo scontro diretto. Se un cane va addosso ad un elefante, cosa succede?»
«Pessimo esempio Kirk» ridacchiò il fratello.
Il rosso lo ignorò aumentando il tono di voce, impassibile.
«Niente di buono per il povero canide. Se invece sfrutta la sua piccola e agile stazza, rispetto al pachiderma, sarà sicuramente in grado di avere più possibilità, evitando uno scontro diretto.»
Annuii, osservando i piccoli occhi verdi del rosso, con attenzione.
Lo sapevo, era un concetto che non mi era stato detto per la prima volta. Il divario fisico con gli altri era sempre stato notevole, perfino quando mio padre mi allenava da piccola...
Scacciai quel pensiero con forza. Aveva ragione, sapevo che aveva ragione, eppure... c'era sempre qualcosa che prendeva possesso di quelle mie buone intenzioni e le soppiantava con altre azioni.
La lepre era la mia frenesia, che vibrava nelle vene e mi appannava la mente. Insomma il mio istinto era troppo forte oltre che dannoso. Grandioso.
«Dove andate?» li richiamai, notando che entrambe le loro moli massicce erano scese dal tatami.
«E' ora che vi riprendiate, dovete fare una pausa.»
Scossi la testa, rimanendo impalata dove ero.
«Inoltre sei stata tutta la mattina con Cliff, sarai stremata.»
No, non lo ero.
Non come intendevano loro, almeno.
«Un'ultima volta.» insistetti.
«Sam. Bisogna sapere quando si è arrivati al limite. Bisogna imparare a conoscersi e rispettarsi.»
Kirk mi fissava implacabile, con quel tono di voce basso e calmo che contrastava incredibilmente con quello del fratello, cercando di connettersi con la parte razionale di me. Spiacente, non era raggiungibile al momento.
Jesus scosse la testa, diede una sonora pacca sulla spalla massiccia al fratello e posò l'asciugamano.
«Solo perché è soddisfacente allenarsi con te, ragazzina.»
«J.» lo riprese il rosso, ma ormai il fratello pelato mi stava già raggiungendo.
La maglia senza maniche dava libero sfogo alla muscolosità bestiale delle spalle, incutendo quasi timore. Era molto massiccio. Inutile non constatare l'ovvio. Allenarsi con lui mi metteva in una posizione di incredibile svantaggio.
Se Ivan brillava nella tecnica e nel posizionamento, J. era un torello, inamovibile e devastante se entravi nella sua traiettoria.
Forse era proprio per quello che mi piaceva fronteggiarmi con lui. Ogni qualvolta quella settimana ero andata a parlare con Cliff, avevo trovato il modo per allenarmi con i fratelli.
Ivan non ne era per niente soddisfatto, ma poteva farci ben poco. Era fuori per motivi lavorativi, negli ultimi giorni.
«L'ultimo, ragazzina.»
Si prestò a colpire ed io mi piegai sulle gambe, affinando lo sguardo e puntando la mia concentrazione su di lui. Placai il battito stremato del mio cuore e mi apprestai a sfidare le energie rimaste un altro po. I muscoli già protestavano terribilmente.
Ma me ne fregavo.
«Sam!»
Mi voltai di scatto, senza pensare, senza calibrare le mie mosse.
Il colpo mi prese in pieno la spalla, facendomi sbilanciare all'indietro.
«Ma che-» ma mi zittii, prontamente.
Perché non era stato forte a sufficienza da farmi effettivamente male, né era arrivato alla sua potenza iniziale.
«Mai distrarsi, ragazzina.»
Ma rimasi immobile a fissare Emily, la preoccupazione che le aggravava lo sguardo, la stessa che mi aveva colpito con ferocia nel suo tono di voce.
«Alice...»
Aveva l'affanno e i corti capelli le sfiorarono le spalle esili, danzando, come se fossero sospinti da un vento invisibile.
«Da quando abbiamo ammesso tutti, questo posto sembra il corridoio del liceo...» borbottò Jesus sconsolato, scuotendo il capo e dirigendosi definitivamente verso l'uscita dal tappeto, dove il fratello lo attendeva con le braccia conserte.
Emily lo fulminò con lo sguardo, tagliente e senza mezze misure.
La raggiunsi di corsa, con l'impellenza che mi stendeva i nervi e il terrore che era un viscido sussurro. Sollevai il bordo della maglia asciugandomi il mento e sentendo il fresco baciarmi la pelle nuda dell'addome.
«Em, che succede?»
Lei squadrò alle mie spalle ripetutamente raggrinzendo le labbra come se non volesse essere sentita da altri. Così mi avvicinai e le feci un gesto col mento.
«Avevamo ragione, Sam. Trevor si è avvicinato ad Alice. Lo avevamo detto a Cliff di tenerlo d'occhio e ci ha assicurato che lo stavano facendo. Ma mia sorella li ha visti, ci ho parlato ora. Lei e Trevor insieme... più volte. E lei non lo sa, Sam. Non sa lui cos'è.»
Ne avevamo parlato, nei sussurri che ci scambiavamo quando le nostre paure sgorgavano impreviste. Sapevamo che Alice non veniva sorvegliata e che non sapeva cosa aveva fatto Black.
Lei era indifesa e in possibile pericolo, per colpa nostra.
Eppure Cliff pareva non averci preso in considerazione, quando gli avevamo esposto le nostre paure, perché lo avevamo fatto, eccome. Ci aveva assicurato che avevano la situazione sotto controllo, ma non ci aveva spiegato di più.
Persino Will e Ivan erano dello stesso parere: non dovevamo preoccuparci.
Solo Emily capiva il mio timore ed io il suo.
Mi si compresse lo stomaco mentre Jesus si avvicinava a noi. La sentivo già, la sua presenza, intromettersi nel nostro discorso.
Lo vedevo, il fardello negli occhi della mia amica, lo stesso che mi portavo appresso. La colpevolezza di averla messa in pericolo. Sapevo cosa dovevamo fare.
«Dobbiamo avvertirla.»
Annuii e basta, incapace di riuscire anche solo a pensare.
«Non potete contattare nessuno» si intromise Jesus assottigliando gli occhi e serrando la mascella.
Il fratello, alle sue spalle, aveva raddrizzato la schiena e ci osservava, attento.
«Non sono affari che ti riguardano» affilò le parole Emily.
«Sì, se mettete a repentaglio la vostra sicurezza e ostacolate il nostro lavoro» sputò il rosso serrando la mascella quadrata.
«Lei è un'innocente e, per quanto ne sappiamo, nessuno di voi la sta proteggendo da quel bastardo senza scrupoli-» mi sporsi in avanti.
«Credete di essere le uniche che hanno i loro cari dall'altra parte del mondo!?»
«Basta!» la mano di Kirk mi spinse all'indietro, premendo contro il mio petto, la stoffa umida della maglia si appiccicò al suo palmo.
Non mi ero accorta di essere arrivata ad un palmo dal viso del pelato.
La pacatezza nella voce del rosso era una campana di vetro che desiderava soffocare l'ossigeno che alimentava la mia furia.
«Non sta a noi decidere» aggiunse e alzò un dito per interrompere il flusso di parole che stava per scaturire dalle labbra quasi violacee e socchiuse del fratello.
«Parlatene con Cliff.»
Emily annuí, guardandomi dall'alto dei suoi centimetri, gli occhi nocciola seri e determinati.
«Andiamo.»
Feci per andarmene quando la voce del rosso mi chiamò. Mi voltai e afferrai al volo il pacchetto in plastica che mi stava per cadere sulla testa. Erano delle salviette umidificate.
Lo guardai, confusa e sorpresa.
«Non scordarti di mangiare. Vi siete allenati troppo ultimamente.»
Mi si accartocciò il cuore, come plastica riscaldata da una fiamma.
Quelle parole erano un vento caldo, il suggerimento accompagnato da una pacca sulla spalla... qualcosa che mi colpì come una pugnalata.
Perché anche lui, in qualche modo, si stava preoccupando per me.
Sorrisi mestamente, cedendogli quel breve sguardo silenzioso per ringraziarlo.
Me ne andai lasciando evaporare il sorriso che mi aveva disteso le labbra. Non riuscii ad apprezzarlo quanto la ragione mi consigliava di fare, perché farlo avrebbe voluto dire fidarsi, ringraziare.
Ma soprattutto, non avevo più coraggio per cogliere un fiore in mezzo ad un campo di battaglia.
Era più facile accettare la schiettezza di Jesus che la gentilezza di Kirk.
In troppi stavamo pagando il prezzo per una gentilezza non richiesta, per una speranza pesante come un macigno.
Mi chiesi se la gentilezza, fosse anche una croce...
Pensai ad Alice.
E mi si strappò qualcosa all'altezza del petto.
«Non è una buona idea-»
«Piantala, Will!» imprecò Emily, lanciandogli un'occhiata assassina.
Li osservai appoggiandomi con le spalle allo stipite in legno della porta di camera loro. Emily continuò ad inserire oggetti nel proprio zaino nero ormai ricolmo, le cuciture della zip già si stiravano allo stremo.
William si voltò di schiena passandosi le mani fra i capelli.
«Non è così sicuro...»
«Ti ripeti. L'abbiamo capito» la bionda si caricò lo zaino su di una spalla. «Non ti sto chiedendo il permesso, chiaro? Lo farò che tu lo voglia o no. Quindi smettila di fare il pessimista e coprici.»
Will scosse il capo e le si avvicinò talmente tanto da farmi incrociare le braccia al petto e fare un passo indietro, lasciandogli un poco di privacy. L'odore della loro camera da letto aveva qualcosa di dolce che mi ricordava il dopobarba di William, ma anche le caramelle di cui la bionda andava matta.
«Lo capisco, Emy... Alice è come una sorella, per te. Hai fatto una scelta mettendoti con me e lasciando l'Inghilterra, me lo hai già detto e mi fido di te, lo sai. Ti appoggio sempre. Ma questo rischia di metterla in pericolo, per davvero, lo capisci?»
Emily assottigliò gli occhi e inspirò con forza.
«Tu non hai sentito cosa ha detto mia sorella... era spaventata perché non l'aveva mai vista così. Sono già una sorella orribile, non posso rimanere ancora con le mani in mano. So la scelta che ho fatto, Will, non sto agendo d'impulso. Ho preso una decisione mesi fa e la sto prendendo adesso... e per chi mi prendi? Non ho certo intenzione di pubblicare un post sui social con segnalato la nostra posizione attuale.»
Feci un passo in avanti, sciogliendo le braccia. «Vogliamo solo farle sapere che stiamo bene e che non è impazzita. Emily ha detto che possiamo comunicare con messaggi criptati col tuo aiuto... giusto?»
Will spostò lo sguardo su di me, con quelle dannate sopracciglia che si sollevavano di corsa verso l'alto. La finestra, alle sue spalle, gettava la luce dell'alba nella stanza. Illuminando tutto di quel tenue ma spiazzante sole prematuro.
Non erano nemmeno le sei, in fondo.
«Non faremo niente di stupido e il tuo metodo è sicuro. Lo hai detto tu, no?»
«Lo usiamo alla base dell'intelligence in un circuito altamente protetto, questo non significa che non ci siano possibilità di intercettazione, Em» scosse le testa sorvolando oltre me e depositando gli occhi sulla bionda. «Se sapessero dove guardare, se avessero una pista... possono localizzarvi a lungo raggio» borbottò lui mettendo le mani sulle sue spalle, occhi negli occhi, alla stessa altezza.
Will sembrava invecchiato infinitamente da quando eravamo giunti in Australia. Succube di un peso che non era aggravato dall'età ma dai pensieri...
La bionda gli afferrò il viso con le mani abbronzate e lo baciò a stampo, tirandolo contro di sé.
Mi allontanai, oltrepassando l'uscio e concedendogli privacy per quel momento intimo di supporto reciproco.
Mai come in quel momento dovetti soffocare il gorgoglio di sofferenza che mi riecheggiò nel petto e mi occlusionò la gola, sentendo l'aria venire meno.
Pochi istanti dopo, quando il tamburo nel mio petto aveva risvegliato ricordi agrodolci e districato immagini di Nicholas e mio padre a non finire, dietro le mie palpebre chiuse, i due spuntarono in salotto.
«Pronta?»
Annuii, per poi rivolgermi al ragazzo di fianco a lei. Così simile a Nicholas, con quell'aria seria e affranta, che mi scavò il petto.
«Non dirglielo.»
Inutile specificare il soggetto, lo sapevamo entrambi a chi mi riferivo...
Assottigliò gli occhi e strinse le palpebre fra di sé. «Quando dovrebbe tornare?»
«Oggi.»
«Allora dubito di riuscire a nasconderglielo...»
Emily allargò le braccia e inclinò il capo verso di lui. «Tu provaci!» poi spostò lo sguardo verso di me. «Noi faremo il più veloce possibile.»
Annuii, ingoiando quel grumo denso di costernazione a fatica. Lo sapevo che lo avrebbe capito subito. Lo sapevo che non avrei potuto nasconderglielo. Sapevo anche che lo avrebbe ferito, però.
Così facendo lo stavo allontanando ancora da me. Ma non potevo invischiare Ivan, ci sarebbe stato troppo conflitto di interessi per lui. Qualsiasi posizione avesse preso.
«Adiamo.» Emily aprì la porta di casa lasciando il cinguettio scomposto degli uccelli penetrare nell'atmosfera pacata della nostra abitazione.
«Abbiamo un aereo da prendere... infondo non sono mai stata a Sydney.»
«Allora sarà bene che facciate finta di essere davvero due turiste curiose. Non fatevi scoprire. State attente... e, Emy! Brucia le credenziali che ti ho dato appena vi sarete connesse. Chiaro?»
La bionda, con i capelli sospinti dal vento, il volto calato oltre la spalle, lo zaino issato dal lato opposto, lo guardò intensamente.
Annuì un'ultima volta prima di farmi cenno di uscire e chiudendo poi la porta alle nostre spalle.
Avevamo preso una decisione e l'avremmo portata fino in fondo, accogliendo le conseguenze... mi chiesi se ce ne fossero altre, però, di cui non eravamo a conoscenza.
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