17. Da che parte?
I've been lost inside a million eyes
They don't see me,
they don't know what it's like
Dotan - Numb
Quando il piccolo clic metallico statuì l'apertura della porta blindata, sentii un crampo cogliermi allo stomaco.
Non era una buona idea, nemmeno lontanamente. Calai lo sguardo sulle mie dita intrecciate, le stavo torturando con una tale intensità da vedere le nocche divenire rossastre.
Una mano si intromise nella mia visuale interrompendo quel supplizio.
«Andrà bene.»
Inclinai il viso alla ricerca di Ivan, con quegli occhi ambrati che erano la mia ancora.
Annuii lentamente, per niente convinta, ma sapevo che non potevo rimandare quell'incontro. Dovevamo incontrare l'unità operativa dell'intelligence, così l'aveva chiamata Ivan, che si trovava in Australia e aveva avuto il compito di proteggerci.
Attraversammo il giardino ben curato percorrendo un viottolo lastricato che conduceva alla porta d'ingresso della casa... o villa, come sarebbe stato più appropriato definirla.
Le palme che costeggiavano il perimetro del giardino frusciavano pigramente, un paio di pennuti giallo limone gracchiarono perentori volando oltre il muro di cinta.
Ebbi la tremenda sensazione di essere osservata. Appena raggiungemmo il portone d'accesso all'edificio, Ivan mi lasciò la mano e si avvicinò al campanello.
Ma invece che suonare, spalancò le palpebre e puntò i bulbi oculari verso il centro della placca scura. Qualche istante dopo, sotto il mio sguardo esterrefatto, la serratura del portone in lastra argentea scattò con un bip secco, invitandoci ad entrare.
Ma dove eravamo finiti? Alla CIA?
Già la CIA era americana, come mi avevano spiegato il tipo pelato che faceva parte dell'unità di Ivan. Poco male, non faceva differenza, per me erano tutte cose estremamente lontane e assurde, un nome valeva l'altro.
Passammo per un'infinità di corridoi così asettici da assomigliare più ad un ospedale che ad un'abitazione. Nessun mobilio alle pareti, nessun odore prevalente nell'aria, niente. I muri erano bianchi e lucidi, i nostri passi rimbombavano all'infinito come palline rimbalzanti. Ogni passaggio aveva una serratura che si apriva solo grazie all'intervento di Ivan.
Per la miseria: ogni porta!
«Ma tutto ciò è davvero necessario?»
Ivan inclinò il mento oltre la spalla per osservarmi. «Intendi l'incontrarli o le misure di sicurezza?»
«Entrambi» borbottai sentendo l'agitazione pizzicarmi i polpastrelli.
«Vogliono solo parlare con te, Scheggia. Tutto qui. Ora che sai tutto potresti aiutarci.»
«A fare cosa?»
L'ennesima porta cedette sotto la richiesta di Ivan, le nostre parole erano un'eco vuoto tra le pareti.
Si fermò rischiando di farmi sbattere contro la sua schiena, mi arrestai giusto in tempo aggrappandomi alle sue spalle.
Si voltò lentamente, poi si chinò verso di me, in una vicinanza che mi sorprese. Non credevo fosse il luogo giusto per mostrare tale intimità, ma forse l'intento era proprio quello.
«Non lo so nello specifico, non sono informazioni che mi competono. Ricordi cosa ti ho detto?»
«Di questa cosa non mi capacito, Ivan. Come puoi non saperlo? Esegui missioni senza sapere esattamente perché lo fai?»
Virgolettai con indice e medio la parola missione. Quasi mi scappò da ridere.
Certo, non ero a conoscenza di come funzionassero le missioni nelle operazioni dell'intelligence, ma sicuramente quello era strano. Si eseguono ordini senza saperne il motivo?
Sorrise, serafico, quasi volendomi redarguire. «Siamo solo agenti, Scheggia. Vi è una gerarchia, vi sono informazioni riservate, a noi è dato sapere l'essenziale.»
Ne rimasi estremamente confusa. Per la millesima volta. Ma il suo sguardo mi scavava le pupille, attingendo alla nostra complicità. Stava cercando di comunicarmi qualcosa...
«E quindi... cosa mi stai chiedendo Ivan?»
«Esatto» mi voltai di scattò alla nuova voce, profonda e calda, sopraggiunta alle sue spalle. «Cosa le stai chiedendo Walker?»
Ivan si sollevò, separandosi da me, affondò le mani nelle tasche dei pantaloni. «Gli stavo spiegando quanto il suo aiuto potrebbe risultare fondamentale per la risoluzione operativa.»
L'uomo stretto in una camicia color antracite, con i bottoni del colletto informalmente sganciati osservò un istante in più Ivan, come ponderando le sue parole, poi si avvicinò rivolgendomi l'attenzione.
Aveva la pelle di una lucidissima tonalità scura, tendente al cioccolato fondente. I suoi occhi color carbone parevano ricolmi di calore, occhi rotondi, dall'intensità corposa.
«Samantha» distese un braccio, porgendomi la mano, dita imbrigliate in svariati anellini dorati e sottili. «Un piacere conoscerti.»
Gli strinsi la mano non con poca riluttanza; arricciai il naso, non riuscendo a trattenermi. «Vorrei ricambiare il piacere ma non ho idea di chi lei sia.»
Il mio tono quasi strafottente mi parve nuovo persino a me. Da quando non avevo più filtri con le persone che non conoscevo?!
L'uomo annuì gettando una rapida occhiata ad Ivan, stretto al mio fianco.
«Puoi chiamarmi Cliff. E' un problema se ti do del tu? L'agente Walker ci ha raccontato molto di te.»
Puoi chiamarmi... il che stava a significare che non era il suo vero nome?
Annuii alla sua richiesta sentendo la mano di Ivan indugiare sulle mie scapole, delicatamente, quasi fosse un gesto distratto.
«Vieni, ti faccio fare un giro dell'unità prima di procedere. Comunque da ora in avanti puoi rivolgere a me qualsiasi domanda tu abbia. E immagino tu ne abbia molte, ora che sai tutto di noi.»
Tutto di loro... un eufemismo! Non sapevo ancora un accidenti!
Sollevai lo sguardo sulle spalle rigide e composte del mio amico, in quel modo autoritario con cui manteneva il mento sollevato davanti a sé senza degnarmi ulteriori sguardi complici.
«Decisamente.»
Osservai il bordo delle labbra di Ivan incresparsi alla mia risposta. Compiaciuto.
«Bene. Vedremo di scoprirle insieme allora» fece strada Cliff.
Oh sì, decisamente.
Con la coda dell'occhio colsi l'immagine familiare del profilo di William oltre la parete a vetri della palestra.
La distrazione mi fu fatale. Il pugno di J. mi colpì con tale irruenza da farmi cadere riversa al suolo come una marionetta inerme.
Un dolore sordo alla mascella mi appannò la vista. Il suolo che mi accolse morbido e accondiscendente puzzava di qualcosa di sintetico.
«J!»
«Mai distrarsi» ridacchiò la voce del pelato, giungendo ovattata alle orecchie.
Provai a sollevarmi ma il tatami su cui ci stavamo allenando parve essersi tramutato in sabbie mobili; dovetti arrendermi e rotolare su me stessa, pancia all'insù. Sollevai le palpebre e osservai il lucernario del soffitto.
«Quando mi avete chiesto di farla venire ad allenare qui, credevo intendeste con me» esclamò perentorio Ivan, una stizza cristallina imbrigliata nelle parole.
«Geloso, Walker?» lo apostrofò la voce sopra di me.
Mi puntellai con i gomiti a terra, riuscendo a sollevare la testa e molto lentamente anche il busto.
«Geloso di vederti prenderle da una ragazzina un terzo di te? Oh no, J.... ci mancherebbe!» il sarcasmo di Ivan fu sommesso ma schernente.
Mi risollevai dal suolo sentendo lo spiacevole sapore del sangue aggrumarsi in bocca. Scesi dal tatami nero su cui ci stavamo allenando e raggiunsi il tavolo dove vi era un rotolo di carta e usai quest'ultimo per pulirmi la bocca. La luce a neon mi feriva gli occhi, mi impediva di mettere a fuoco tutto l'ambiente correttamente, il contrasto con la muratura scura feriva gli occhi.
Sentendo il malessere destabilizzarmi, mi chiesi come fossi riuscita a camminare fino alla tavola senza collassare a terra. Sbattei le palpebre svariate volte mentre la voce di J. mi incitava a tornare a fronteggiarlo al centro della palestra.
Non gliel'avrei data vinta. Poco ma sicuro. Anche se le stavo prendendo a raffica.
Scrollai con forza le spalle e inspirai un paio di volte, molto profondamente, poi tornai da lui, calcando bene il pavimento sotto di me, tastando la mia stabilità.
«Pronta» ribattei serrando le mani a pugno e sollevandole all'altezza del viso.
«A prenderle ancora?» il paleto scrocchiò il collo e inclinò il capo mentre sollevava i pugni, pronto a sua volta.
Mi aveva proposto di allenarci. Avevo accettato senza pensarci due volte. Ma vi era una certa sadicità nel modo in cui gioiva ogni volta che mi buttava a terra.
«Adesso basta. Avete fatto abbastanza-» intervenne Ivan salendo sul tatami su cui ci stavamo fronteggiando io e l'armadio a due ante.
«Da quando sei così apprensivo?» lo schernì il mio avversario facendo un passo nella mia direzione.
«Da quando ti fa così piacere picchiare gli altri!» ringhiò Ivan. «L'ho portata qui per darci informazioni, non per questo...»
William varcò la soglia seguito dall'uomo che avevo conosciuto poco prima, Cliff, e il resto del gruppo: la donna dai capelli variopinti, il gemello del pelato dai capelli rossi e altri due uomini vestiti con pantaloni militari e magliette tanto strette da lasciare poco spazio all'immaginazione. O forse era solo la mole incredibile di muscoli a non poter essere nascosta nemmeno provandoci.
Dovevano far parte del loro gruppo. Tenevano le mani dietro la schiena e lo sguardo alto, troppo composto e diligente... erano militari? O qualcos'altro di cui sicuramente ignoravo l'appellativo corretto?
«Senti Walker, sei stato tu a volerla allenare. E com'è che lo hai giustificato?» sollevò per un istante lo sguardo al cielo prima di calarlo con ferocia su Ivan. «Ah ecco! E' quella più in pericolo di tutti noi, dobbiamo darle gli strumenti per sapersi difendere» lo scimmiottò con veemenza.
Il suo sguardo feroce e serafico sorpassò le spalle di Ivan puntandomisi addosso con irruenza.
«Ed è quello che sto facendo. Niente moine da ragazzina, io le sto facendo vedere quali sono le vere minacce.»
Lui fece un passo avanti e di rimando Ivan serrò la posizione, frapponendosi tra di noi.
Non capivo cosa stesse succedendo; avevo dolore dappertutto, la quantità di volte in cui ero finita al tappetto era direttamente proporzionale a quella in cui mi ero rialzata con la rabbia che mi ribolliva nel petto.
Aveva ragione il tarchiato: dovevo essere pronta. Volevo.
Niente sconti perché ero minuta, niente finte, volevo confrontarmi con la brutalità e guardarla dritta negli occhi. Se qualcuno mi avesse aggredita volevo essere in grado di fronteggiarlo.
«J.» lo chiamò il fratello.
Mi voltai e osservai il rosso avvicinarsi al bordo del tatami. William, che si trovava dietro di lui, poco dopo l'uscio della porta a vetri. Guardava verso di noi, ma non ci vedeva davvero. Sembrava che i suoi occhi fossero persi, o meglio... dispersi.
«No!» gridai avanzando verso la schiena di Ivan.
Non lo vidi in faccia, ma il modo in cui le sue spalle si irrigidirono fu piuttosto chiaro. Allungò un braccio bloccando la mia avanzata.
«Scheggia-» rotolarono fuori le parole, profonde e quasi minacciose.
«No, Ivan, piantala tu! Qui non stiamo giocando. Volevo imparare a difendermi da BlackMoon? Bene, così lo sto facendo!»
«Così ti fai del male e basta.» allungò ulteriormente il braccio sbarrandomi l'avanzata.
J., poco più avanti, aveva le gambe piegate e si molleggiava sugli appoggi serrando la mascella e fulminandomi con lo sguardo. Sembrava un cane rabbioso, o meglio, dalla stazza che aveva, avrei potuto definirlo un grizzly rabbioso. Gli mancava solo la bava alla bocca.
«Non sei in te J. Oggi non è il giorno adatto, lo sai» proruppe la donna dalla capigliatura variopinta calando la voce sulle ultime parole.
Spostai lo sguardo sul mio avversario. Il guizzo nei suoi occhi fu così fulminante che gli trasformò quasi il volto. Che voleva dire che quello non era il giorno adatto?
«Al diavolo i sentimentalismi del cazzo!»
Complimenti! Non erano l'intelligence? Al diavolo gerarchie e rispetto insomma...
«Sappiamo tutti che giorno è per te oggi. Non sei l'unico a provare quella rabbia, sappiamo cosa ti hanno portato via...»
Mi sdrucciolò sulla punta della mente, quell'informazione sgusciante e insinuante. Affondò nel sangue che mi ribolliva con tracotanza e si depositò in una matrioska abissale in un luogo impreciso dietro lo sterno.
E mi mancò il respiro, per un istante, quello in cui l'emozione nascosta negli occhi dei presenti assunse un significato finalmente. Ivan sembrava provato, la donna, come contro prova, rilassò le spalle, come schiacciate verso terra da un peso invisibile e il rosso chiuse il petto distogliendo da noi lo sguardo.
Quell'emozione era la stessa che avevo visto negli occhi di Ivan il giorno precedente, era legata allo sguardo perso di William ed era nera e carica di inchiostro come quella colpevolezza che Nicholas si rigettava addosso costantemente.
«Che vuol dire?» esclamai col cuore che mi tumultuava fra le lettere, un galoppo sconnesso.
Il palmo di Ivan mi si adagiò sull'addome, costringendomi maggiormente ad arretrare. J. mi fissò con un'intensità che gli disegnò ragnatele d'increspature sulla fronte e tra le fini sopracciglia rossicce.
«Non fare l'innocente, ragazzina. Lo sai benissimo-»
«J.!»
«J. un cazzo, cosa vi prende a tutti!» cercò con lo sguardo i presenti nella sala, ormai tutti addossati al bordo del tatami, tranne i due militari che sostavano all'ingresso, quieti e rigorosi.
«Non è per questo che ci hanno scelto, eh? Perché siamo guidati da interessi personali?! Perché vogliono usare la nostra rabbia per quelli che hanno ucciso-»
«Jesus, vi abbiamo scelto perché avete motivazioni più forti di altri e, soprattutto, perché siete agenti qualificati per ciò che vi è stato richiesto. Ognuno di voi qui presente lo è. Non si tratta dello sfruttare la vostra vendetta personale, ci siamo intesi?» la voce di Cliff fu pesante e definitiva, come un slavina precipitata su un incendio.
Calò il silenzio nella palestra, il neon spietato che gettava luci intense sul tatami sotto di noi, color antracite. Il consueto odore di sudorazione si mescolava a quello della gomma.
E lo sentivo, quello scroscio di spilli che mi graffiava dentro, che mi si conficcava nel respiro e che penetrava poco a poco, intimandomi di rimanere immobile, silente.
Ma ormai io, in me stessa, non mi riconoscevo. E l'adrenalina che scorreva come un fiume in piena, aveva assunto sfumature di puro terrore. Ero atterrita dallo sguardo disperso di William...
Non riuscii a trattenermi.
«Perché siamo qui?» l'impellenza mi bruciava le corde vocali.
Lo dissi fissando Will negli occhi, in quel suo spaesamento che mi terrificava.
«Scheggia...» Ivan calò lo sguardo oltre la spalla, il braccio sempre teso a bloccarmi, il mio addome premuto contro il suo palmo, solo il tessuto fine e umido della maglia a separarci.
«Non sono certo qui per farmi allenare, giusto?» spostai lo sguardo su Cliff.
«Ovviamente no, Samantha» appoggiò la mano sulla spalla di William, che sobbalzò a quel tocco.
Quel gesto mi si appiccicò alle pupille.
«Potreste aiutarci, come Ivan vi ha già spiegato. Potreste avere delle informazioni per noi molto rilevanti.»
«In che modo?» serrai i pugni, imbottigliai il dubbio.
Sentii le dita di Ivan fremere mentre mi spingeva maggiormente all'indietro, lo sguardo che mi implorava di tacere. Non era una richiesta imperativa, era più un per favore velato.
Forse, era solo la risposta giusta all'aggressività che mi graffiava il tono di voce.
Non ero cortese, lo sapevo. Ma al diavolo la cortesia!
Ero in un campo minato alla ricerca del passo successivo che mi avrebbe permesso di svelare le mine, prima di finirci sopra e saltare per aria.
Non era certo il gioco del prato fiorito, quello. La cortesia potevo benissimo lasciarla a saltellare allegramente fra i fiori.
«So veramente poco di BlackMoon, Sam. Ma le informazioni di cui sono in possesso, potrebbero aiutarli a smantellare l'organizzazione» la voce di William era di una tonalità più bassa e di una incertezza sdrucciolevole.
«Ne sei sicuro?»
Will aggrottò le sopracciglia. «Certo che sono sicuro. Non vi è altro modo» poi spostò lo sguardo da me e lo fece salire su Ivan. «Lo sa.»
Perché si riferiva a lui?
Perché parlava sempre di me in terza persona? Odiavo quando faceva così!
«Se è lei che ci può aiutare, non mi pare al momento molto incline a collaborare» spiccò risentito J.
«Non vedo come io possa aiutarvi... »
Svariate paia di occhi si depositarono su di me aumentando quel senso di disagio che mi formicolava lungo l'epidermide delle avambraccia.
«Non parlare con quel tono ostile, ragazzina. Vi abbiamo salvati e vi stiamo proteggendo da quella feccia, quindi non fare la finta tonta con noi!»
Aggrottai le sopracciglia, confusa, giusto il tempo in cui J. si dipinse un sorriso famelico e tagliente sul viso, venendomi incontro.
«Non sono ostile» mi sforzai di sillabare, trattenendo la rabbia. Per il bene di tutti.
«Allora dicci come farli fuori, tutti loro, quei bastardi pezzi di merda!»
Era sprezzante, erano parole come seghetti, che tagliavano e laceravano.
«Jesus adesso basta!»
Mi sporsi verso di lui talmente tanto che le dita di Ivan si impressero oltre i vestiti, disegnandomi la sua figura sull'addome. La rabbia mi graffiò la gola.
«Cristo! Perché la trattate tutti con i guanti di velluto!» il pelato discostò lo sguardo da me e lo puntò su Ivan. «La bestiolina preferisce quel omicida a te, caro Walker-»
Mi avventai su di lui con un grido che mi squarciò pelle e nervi, riversandosi nel sangue come lava incandescente. Ed ero un odio gutturale che mi martellava lo sterno, che mi inglobava la gola, che mi trafiggeva il cuore.
Cademmo al suolo con ossa che sbatterono, con mani che stritolavano la stoffa e pelle che sfregava con la gomma morbida del tatami.
«Non parlargli così!» ringhiai a un soffio dal viso.
«Perché? Te ne frega davvero qualcosa di lui?» mi scrollò di dosso facendomi cadere a terra.
Il pelato mi schiacciò a terra con la sua mole. Il suo alito mi frustò il naso e distinsi ogni nervatura d'odio che gli deformava il viso.
«Basta J.!»
«Walker, fermalo!»
Ma l'amarezza nelle parole di J. inglobò tutto, ogni percezione, ogni pensiero.
«Ragazzina idiota! Lui ti sta salvando, dov'è quel cazzo di fottuto figlio di puttana invece!?»
Tentai di sollevarmi ma mi afferrò la mandibola con una presa ferrea, il sudore che gli imperlava la fronte mi gocciolò addosso. Mi sbatté a terra nuovamente spingendo e stritolandomi la pelle accaldata del mento.
«Te lo dico io! E' dall'altra parte del mondo a uccidere persone, magari a sgozzare proprio tuo padre, quel fottuto figlio di put-»
Ivan lo scaraventò via da me con un colpo tanto forte da farmi singultare il cuore nel petto.
Ero ombre che mi stritolavano in una morsa appiccicosa e tortuosa, ero un moscerino incappato in una tela di melassa e schegge. Senza via di scampo.
E più mi muovevo alla ricerca di una via di fuga e più mi graffiavo, più mi incastravo, mi ferivo. Vedevo l'orrore del mio destino venirmi incontro. Il soffitto stesso parve cadermi addosso.
Mi sollevai frastornata, con le orecchie che fischiavano, con le parole che mi giungevano distanti e ovattate. Grida e rimproveri. Strinsi le dita al petto, stritolando il tessuto della maglia, polpastrelli alla ricerca del battito impazzito del mio cuore.
«Non è vero...» ed erano flebili come carezze del vento, le mie parole.
Erano battiti d'ali di una farfalla, nello scrosciare dell'imminente tempesta.
«Non è vero, non gli farebbe mai del male, non lo farebbe mai...»
E mi persi, nel tremore con cui si frantumarono le mie parole, nel tortuoso strisciarmi di quel pensiero nel sangue, sinuoso come un serpente.
«Sveglia ragazzina, chi credi che li abbia uccisi i miei genitori o quelli del tuo caro amichetto! Vuoi che te le faccia vedere tutte le persone rimaste orfane di un parente, un amico, qualcuno di caro per colpa sua-» le parole di J. si persero nel vuoto mentre il fratello lo placcava, schiacciandogli il volto profilato a terra.
«Adesso basta J.. Non sei in te» disse con tono alto e fermo, a cavalcioni su di lui. «Sei in grado di controllarti? Non voglio che tu ti becchi un altro richiamo o peggio ritenuto non operativo. Mi hai capito?»
E gli spilli che avevo nel petto affondarono allo stesso ritmo con cui gli occhi di Nicholas mi apparvero nei pensieri.
Il rosso tirò su il fratello sostenendolo per un braccio, tenendolo ben stretto a sé. La donna osservava con cipiglio serio e insofferente. Quando arrivarono al bordo del tatami, lui si voltò nella mia direzione.
Sussultai dalla spietatezza con cui mi accalappiò le pupille.
«Decidi da che parte stare» soffiò pulendosi la bocca col dorso della mano.
«Qui abbiamo conosciuto tutti il male e sappiamo qual'è la differenza fra giusto e sbagliato. Tu da che parte stai invece?»
Mi rotolò lungo le corde vocali, un refolo di respiro mancato, incagliandomisi nel palato, impedendomi di ingoiare.
E lo sguardo di William, così perso in sé, mi fece capire che lui, una posizione, l'aveva già presa.
«Almeno tuo padre ha avuto la decenza di-» ma le parole sfumarono ad movimento col capo di Cliff, vidi il volto profilato senza riuscire a distinguere l'occhiata che zittì il nerboruto.
Ma ormai mi ero persa, nel mare di bestie che mi gravava dentro, in quella confusione che mi faceva sciabordare da un lato all'altro di me stessa, presa dalla marea.
Perché, mai come adesso, il confine fra bene e male pareva una linea invisibile e traballante. Mi chiesi se non fosse uno specchio, in cui vedevo me stessa riflessa all'infinito.
Ed il sorriso di Ivan, tirato e familiare, fu la stilettata finale.
La chiazza di sole in cui non mi ero mai ritrovata e in cui non avevo mai visto riflessa la luce delle stelle.
E mentre le sue dita premurose mi asciugavano la guancia, lì, dove il dolore era un martello pneumatico che mi devastava, capii.
Perché tutti lì dentro avevano sofferto per colpa di BlackMoon.
Perché mio padre era in pericolo.
E perché a me non fregava un cazzo di nulla se non di salvarli, se non di salvare Nicholas.
Ivan sorrise. Mi sentii male, perchè non me lo meritavo.
Da che parte stavo... io?
NDA:
Oggi ne ho poche da fare di note XD
Pensavate di parlare con Cliff eh? E invece per avere altre delucidazioni ci tocca attendere. Nel mentre però possiamo carpire altre informazioni tra le righe su cosa ha fatto BlackMoon, sulla portata delle loro azioni...
Capite la situazione in cui si trova Sam?
Cosa fareste voi se foste in lei?
Un abbraccione grosso :)
mi trovate sempre su IG se voelte fare due chiacchiere come _ambershiver_
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