15. Sbagliato... chi?




Do you feel safe?
Out in the light
Or is this the place
Where monsters hide?

Who are you - Svrcina




«Non male.»

Scrollai la testa con la delusione che mi faceva tremare i polpastrelli e accartocciare il cuore.

«Come no!» borbottai, risentita.

Una spallata mi fece barcollare instabilmente per rimarcare quanto poco solida fosse la mia posizione di lancio. Ruotai il capo gettando a mio padre uno sguardo risentito, prima di sollevare bene la schiena alla ricerca della postura adeguata.

«Guarda che capita a tutti una giornata no» l'accenno di sorriso gli brillò fin negli occhi, in quelle iridi così uguali alle mie. «Anche ai migliori.»

Voltai la testa, alla ricerca del mio obiettivo. La sagoma marrone in materiale plastico era stata sollevata nuovamente, a metri di distanza dinanzi a noi, in attesa di essere liberata in quella ondulante discesa, così difficile da centrare.

«Provaci tu» borbottai mentre sistemavo la freccia in carbonio all'interno dell'arco, medio e indice sfiorarono le alette morbide del dardo, giocherellandoci per un istante.

«Va bene, musona» sorrise accompagnando il tutto con un occhiolino complice.

Fece un gesto col capo all'assistente di lancio che seguiva la nostra sessione all'interno del parco avventura.

Una foglia dorata si staccò dal ramo della quercia vicino alla nostra postazione iniziando la sua danza vorticosa, verso il suolo, attratta dalla forza di gravità.

Appena venne dato il segnale, successe tutto nel giro di respiri.

Tese l'arco, la suola grattò il terriccio, posizionò la cocca sul filo, tirò la corda e la freccia bramosa si lanciò per colpire il bersaglio.

Lo trafisse con un sibilo tanto repentino da farmi rimanere immobile mentre l'obiettivo ondeggiava giù dalla piattaforma con la freccia conficcata al centro esatto.

La foglia si depositò ai piedi della quercia come un gatto che si acciambella diligente.

Questione di attimi.

«Sei un'esibizionista...» arricciai le labbra squadrandolo dalla mia altezza con il capo reclinato all'indietro.

«Proprio come te» rise chinandosi e regalandomi un bacio in fronte.

«Papà...»

«Non fare la scontrosa, Delfino mio, solo perché oggi ho più fortuna di te.»

Ruotai gli occhi senza scansarmi dalla carezza che mi stava regalando. «Non è questione di fortuna, ma di bravura. Sei un asso, le centri tutti. A te non succede mai di avere una giornata no.»

Continuò a sorridere mentre poggiava l'arco sul tavolo in legno consunto accanto a noi, ringraziò l'assistente del campo. Affondai la punta della scarpa della terra polverosa che mi imbrattò la para candida.

«Anche a me succedono le giornate no» mi avvolse un braccio intorno alle spalle e ci incamminammo verso le panchine su cui avevamo lasciato gli zaini.

La giornata soleggiata si intravedeva oltre le fronde variopinte sopra le nostre teste, il caldo estivo era ormai un ricordo, l'autunno stava indorando gran parte delle chiome come un'artista che si diletta a mischiare le tempere dando vita a nuove tonalità.

«Non è vero, a te non succedono... E' da quando sono piccola che facciamo questa cosa e non ricordo di averti mai visto non centrare un bersaglio. Anzi! Ti dirò di più, non ti ho mai visto sbagliare mira anche di pochi centimetri.»

Ero di malumore, lo sapevo. Era il mio disagio a farmi lamentare in quel modo infantile, ma non ci potevo fare nulla. Il weekend era ormai giunto al termine e non riuscivo proprio a farmela prendere bene.

«Come fai?»

Papà mi guardò con occhi grandi e la barba rossiccia a tempestargli il mento.

«Come fai a farlo? A non sbagliare mai?» mi lasciai cadere sulla panca in legno che cigolò sotto il mio esile peso.

Ma papà rimase con lo sguardo nel mio, pupille indecise, labbra dischiuse. La brezza gli scompigliò i capelli di quel colore rossiccio donatogli dal sole estivo che stava svanendo.

«Ci sono alcune cose per cui non è concesso sbagliare» parole flebili come un filo di vento che si dispersero nei suoni placidi del sottobosco. «Non è un pregio, Sam, fidati.»

Scossi la testa con vigore appoggiandomi con la schiena all'indietro e lasciando che i piedi penzolassero senza toccare il suolo.

«Invece penso proprio di sì. Ormai sono grande, papà. A breve sarò maggiorenne, non mi puoi più indorare la pillola, sai» fu il mio turno di regalargli un occhiolino prima di continuare. «Vorrei essere come te, l'ho sempre voluto. Vorrei essere in grado di centrare sempre il mio bersaglio, hai presente no? Nella vita come nel tiro con l'arco...»

Suonò strana quell'affermazione, nella mia testa aveva decisamente più senso.

Papà incarnava tutto ciò a cui aspiravo, tutto il mio opposto. Avevo sempre desiderato essere come lui, forse perché era l'unico insieme a Ivan a cui tenevo davvero, forse proprio perché entrambi erano tanto figli del sole quanto io lo ero della luna.

«No.»

Sollevai gli occhi bloccandomi nell'intento. Il pomo d'adamo era immobile nonostante vedessi una vena pulsare con vigore sotto la pelle del collo.

«Ti auguro di essere tutto fuorché come me, Sam.»

E non mi stava guardando, oh no, era perso, disperso, il suo sguardo. Era tanto profondo da aver quasi paura di caderci dentro senza mai toccarne il fondo.

Ed io, così, non l'avevo mai visto...

Nemmeno quando litigava con la mamma, nemmeno quando si rinchiudeva nello studio per ore celando le conversazioni di lavoro che gli arrivavano nei pochi giorni in cui stava a casa.

No. Io quella parte di lui non la conoscevo.

E mi sentii trafiggere da quel pozzo funesto che aveva al posto delle pupille.

«Vai bene così come sei» aggiunse, finalmente regalandomi un sorriso che spazzò via quei tremori serpeggianti che mi avevano attraversato l'anima come dubbi in punta di piedi.

«Strana e senza amici, direi ottimo» l'ironia mi graffiò la gola uscendo aspramente.

Papà mi allungò la borraccia metallizzata. «Direi unica e con le giuste persone accanto. E se Ivan fosse qui sarebbe d'accordo, sappilo.»

Strinsi il recipiente, gelido a contatto con la pelle accaldata, e chinai lo sguardo verso terra. Osservai le punte delle scarpe che sfioravano il suolo.

«Solo perché tu e Ivan andate d'accordo non sei autorizzato a tirarlo in ballo in ogni conversazione» lo rimproverai godendomi un sorso d'acqua fresca.

«Beh, mi piace e la pensa come me, quindi abbiamo vinto noi. Fattene una ragione scimmietta.»

«Scimmietta?»

«Ah no... Com'è che ti chiama?» sollevò gli occhi verso le fronde danzanti degli alberi. «Scheggia! Quindi mi correggo: fattene una ragione, Scheggia.»

Battei il palmo della mano sulla fronte scuotendo la testa e facendo danzare i capelli stretti nella coda di cavallo sulla schiena.

«Questo è quello che si guadagna ad avere un padre giovane e un migliore amico più grande di me. Finite per andare d'accordo in maniera quasi inquietante, nemmeno foste coetanei.»

«Guarda che ho trentanove anni, non venti come lui. E poi, per forza andiamo d'accordo, abbiamo una cosa importantissima che ci unisce: tu.»

Chinai il capo sentendo le guance andare a fuoco.

Avrà avuto anche trentanove anni ma niente in lui esprimeva quell'età, né la sua prestanza fisica né il modo di rapportarsi agli altri. Sembrava adattarsi a tutto e tutti. Altro pregio che condivideva con Ivan e che avrei voluto fare mio.

Non come mia mamma, lei i suoi anni li dimostrava tutti, d'altronde era più grande di mio padre, di ben cinque anni. Ed era soggettiva nelle socializzazioni, specialmente con me.

«Papà?»

«Dimmi».

Lasciai cadere la borraccia stretta fra le mani in grembo.

«Volevo chiederti una cosa, è da un po' che ci penso. Quando avrò finito gli studi potrei applicarmi per fare un tirocinio nella tua ditta di consulenza... per venire a lavorare con te.»

Un cigolio rapido, frusciare di vestiti, ghiaia pesticciata.

«Assolutamente no.»

Sussultai con quel groppo alla gola che si espanse come schiuma permeandomi le corde vocali. Rimasi inerme sotto quel tono tagliente e perentorio che non ammetteva repliche.

Accartocciai le dita fra di loro, premendo i polpastrelli con una forza tale da sentire il sangue pulsare vorace nelle vene.

Non ci riuscii, a frenare le parole. Le speranze degli ultimi mesi mi si stavano sgretolando tra le dita.

«... perché?»

Si alzò in piedi di scatto lasciandomi piccola e confusa, con le ginocchia che cozzavano fra di loro, sulla panchina.

«Ho detto di no. Non è una possibilità, mi dispiace Sam.»

L'amarezza mi punse gli occhi, scavandomi un solco nello stomaco.

Ci avevo sperato. Volevo divenire come lui, volevo seguire il suo percorso, volevo stargli più vicino.

Lo scricchiolio delle suole che calpestavano i sassi mi strappò da me stessa.

«Vorrei solo che ti creassi un futuro migliore del mio.»

Le sue ginocchia apparirono nel mio campo visivo, poi si piegò sulle gambe e mi sollevò il mento. Il mio orgoglio, fuso con la mia speranza di appartenere a qualcosa, si era sgretolato in pochi attimi.

«Voglio solo il meglio per te...» mi carezzò lo zigomo col pollice. Il suo profumo di menta si mescolò a quella terroso e umido del sottobosco.

E mi regalò un sorriso così vero e così carico di promesse da ricamarmelo sul cuore.

Poggiò le labbra calde sulla mia fronte, facendomi rattrappire maggiormente il mio animo sbagliato, cartapesta fra le dita.

«Ti aiuterò a trovare la tua strada, te lo prometto. Ma non è come la mia, Delfino mio, per fortuna non lo è...»

Custodivo un agglomerato di sensazioni discordanti. Io volevo seguire il suo esempio... era l'unica strada.

Mi circondò il viso e mi sollevò, implorandomi di guardarlo.

«Quando si spegne la luce?» sussurrò.

Fronte contro fronte, una richiesta, una promessa, un fiocco annodato sul cuore.

Provai a sorridere, specchio del suo volto. «...si ammirano le stelle.»


«Ti senti bene, Samantha?»

Sobbalzai facendo uscire il latte dal bricco che aveva stretto in mano, il liquido si riversò sul bancone.

La mia collega mi passò un panno umido con cui mi affrettai a pulire.

«Ma che hai? Sei molto distratta oggi, anzi, è tutta la settimana che lo sei.»

Mi voltai ignorando la sua parlantina, ma fu un'impresa più ardua del previsto.

«E' successo qualcosa nel week end scorso a Byron? Ti è piaciuto scommetto, è il gioiellino del Queensland! Oddio non mi dire che sei ancora in post sbornia, Samantha... ma è passata quasi una settimana, non è possibile! Oppure... oppure sei in post di qualcos'altro, dico bene?»

L'anca con cui mi colpì mi colse talmente tanto di sorpresa da far fuoriuscire altro latte dal bricco che reggevo. Lo poggiai pesantemente sul bancone, apprestandomi a pulire anche quel danno.

«Ma di che diamine parli, Janey?»

«Ma questo non è un no! Allora alla fine vi siete decisi!»

Gettai lo straccio nel lavabo argentato alle nostre spalle. «Eh? Ma di che parli?»

«Tu e il bellone, era per questo che non ti staccava gli occhi di dosso la volta scorsa in discoteca. Alla buon ora, Samantha. Mi ha anche rifiutata, sai? Quella stessa sera, alla fine, dato che non te lo filavi, ci avevo provato io-»

Alzai una mano verso le sue labbra fuchsia da cui le parole continuavano a uscire a frotte, blaterando senza sosta.

«Ma stai parlando di Ivan?»

«E certo! Di chi altro? Che testa che hai oggi, menomale che è finito il tuo turno.»

Osservai il polso che aveva ruotato nella mia direzione per farmi notare la disposizione delle lancette e colsi al volo l'occasione per svicolare a quella conversazione.

La salutai di fretta, dopo aver sciolto il nodo del grembiule e raccattato il mio zaino. Senza preoccuparmi di cambiarmi i leggins neri e la maglia altrettanto scura che in un giorno normale avrebbe attirato l'inclemenza del sole ma, per quel giorno, potevo non preoccuparmene; la temperatura era mite e gradevole.

Mi incamminai verso casa lasciando che i miei pensieri indugiassero ancora su ciò che era successo il week end passato. Quelle rivelazioni.

Alla fine l'errore era stato davvero mio. Non mi ero posta le giuste domande.

Non avevo mai chiesto a mio padre di spiegarmi cosa faceva esattamente di lavoro. Sapevo che aveva a che fare con la laurea in psicologia e che, nello studio di consulenza in cui lavorava, prestava servizio ad aziende terze per strutturare l'etica del team aziendale e il futuro sviluppo.

Ero stata sciocca e superficiale. In fondo era stato come dire tutto e nulla.

E adesso quel tutto e nulla assumeva talmente tante sfumature che mi vorticavano in testa facendomi venire il mal di mare. Mio padre era dalla parte dei buoni...

Sempre se buono si poteva definire quello che gli avevo visto fare nel video.

Anche quello non me lo spiegavo, per niente.

Ivan mi aveva detto che essendo sotto copertura aveva dovuto eseguire ciò che BlackMoon gli aveva richiesto, qualsiasi cosa fosse, indipendentemente dalla gravità delle sue azioni, ciò che aveva eseguito era stato interamente approvato da chi gli aveva richiesto tale doppio gioco. Ovvero l'intelligence o chi per loro.

Non avevo rivelato a Ivan quello che avevo visto nel video, il motivo per cui ero scappata da Londra con mia madre in ventiquattro ore... in fondo non ce n'era stato bisogno.

Eppure...

La linea tra bene e male non mi era mai parsa così fragile, così volubile da farmi ricredere sul concetto stesso di giusto e sbagliato.

Un'azione sbagliata, se fatta per il movente giusto, è perdonabile?

E Nicholas, che tenevo stretto tra le dita, dietro le palpebre, era la prova vivente che niente era solo bianco o solo nero. E io a lungo avevo voluto vedere solo ciò che faceva meno male.

Perché mio padre e Nicholas, ancora una volta, parevano percorrere strade grigie come granito, frastagliate come dirupi, pericolanti come fili di funamboli.

Mi soffermai a osservare le prime gocce di pioggia che franavano giù dal cielo infrangendosi sulla superficie tumultuosa dell'oceano, creando un gioco di increspature ammaliante.

L'odore carico di umidità e temporale in arrivo mi riverberò fin sul fondo delle narici.

Perché?

Affondai nella sabbia fino a raggiungere la battigia dove i gabbiani cacciatori erano gli unici a farmi compagnia. Mi sciolsi i capelli sentendo le folate di vento schiaffarmeli in ogni dove.

«Perché?» gridai spalancando le braccia. Un eco tra lo sciabordare irruento che mi strappava il respiro.

Non l'avevo mai davvero incolpato, mio padre.

Non avevo mai reputato un criminale, Nicholas.

Non li avevo odiati per quello che avevano fatto. No.

Lo avevo allontanato dai miei pensieri, papà, perché ciò che quel video mi aveva rivelato mesi addietro, era che io non lo conoscevo davvero. Non sapevo chi fosse. Avevo ricevute bugie dall'unica persona che credevo non me le avesse mai raccontate.

Ma forse, quelle menzogne, avevano uno scopo...

«Perché?» mi grattarono le parole in gola.

I capelli mi finirono sul viso, vorticando come rami di un salice nella tormenta.

Più avevo visto il nero che Nicholas celava in sé e più non ero riuscita a lasciarlo andare, attratta come una falena dalla luce. Come se quel suo essere sbagliato dentro, richiamasse il mio. Come se solo in lui fossi riuscita a riconoscermi.

«Perché?!»

Caddi in ginocchio, i capelli mi schiaffarono il viso, i leggins si imbrattarono dei granellini che mi pizzicarono le piante dei piedi.

Perché lo avevo capito.

Se adesso continuavo a portarmeli entrambi nel cuore, con ogni scheggia di verità e goccia di inchiostro, un motivo c'era.

Il fardello in me parve gorgogliare, sgocciolare di benzina che lo avvolgeva, sussurrando sibillino. Che la mia stanchezza era la perdita della forza necessaria per combattere, la perdita delle uniche persone pilastri della mia vita... ero sola, uno sgorbietto nero che alla fine aveva smesso di combattere, stanca di opporsi, rivelando se stessa.

E quel fuoco corrosivo era pronto... era in attesa della mia resa finale, di mostrarmi ciò che davvero ero. Perché come Nicholas e papà anche io custodivo del nero...

In fondo forse non erano sbagliati loro.

Forse...

...forse ero solo sbagliata io.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top