11. Fallo per me

Talking like we used to do
It was always me and you
Shaken up and shipping out
Check me in and check me out

Your Mess is Mine - Heroes

Uscii dall'acqua inspirando così intensamente da sentire la gola e le narici bruciare per l'irruenza. Abbracciai con lo sguardo la distesa blu davanti a me, increspata dal baluginare dell'alba.

Il freddo pungente di Maggio mi cristallizzò le gocce sulla pelle, richiamando a sé i brividi. Mi avviai verso la riva dove qualcuno sostava, irrorato dai raggi abbaglianti dell'alba che sorgeva alle mie spalle. Via via che emergevo completamente raggiungendo la riva ogni lembo di pelle protestava, tempestandomi di brividi e facendomi gelare il sangue.

«C-che ci fai qui?»

Lo sguardo appannato di Ivan mi accolse, con le palpebre socchiuse e le guance strizzate, a causa del sole accecante.

«Ti aspettavo.»

Il freddo mi avvolse facendomi tremare fin nelle ossa, iniziava a essere troppo gelida l'aria a quell'ora. «S-sono le s-sei-»

«E mezzo. E, se non vieni qui, diverrai un ghiacciolo» ridacchiò limpido e gioioso.

Mi unii a mia volta, ma la risata si frastagliò nel momento in cui i miei denti iniziarono a cozzare irrefrenabilmente l'un l'altro, constatando così la veridicità delle sue parole. Ivan mi venne incontro con l'asciugamano e me lo avvolse intorno, frizionando con le mani.

Mi sentii piccola e fragile sotto quei movimenti, sballottata da ogni lato; pesciolino rosso tra le correnti del mio animo. Correnti nere, dense, di quel fardello che mi portavo appresso, che pareva essere divenuto benzina per quella mia scellerata ma ingestibile adrenalina...

«Cristo! Sei gelata. Quanti gradi ci saranno in acqua?»

Mi strappai dalla mia mente vagabonda e provai a rispondere.

«P-pochi...» balbettai prima che mi avvolgesse la nuca e frizionasse anch'essa facendomi sentire una sfera magica da agitare per ricevere delle risposte.

«C'è qualcosa qui dentro?» Scimmiottò Ivan ridacchiando, il suono attutito dall'asciugamano che mi avvolgeva ancora la nuca.

Appoggiò l'orecchio sui miei capelli fradici prima di scostarsi da me, far scendere il telo per guardarmi negli occhi e scuotere la testa. «Acqua! Qualche neurone disperso, oh no... dice che è solo un granello di sabbia. E un sacco d'acqua.»

Sorrisi, sentendo il tepore piacevole del suo corpo avvolgermi, così mi adagiai con la guancia contro il suo petto, ben caldo sotto i vestiti.

«Che dici, non è il caso di fare queste meravigliose nuotate da squalo, a ore più calde?»

Provai ad annuire, ma finii solo per spingere con tutta la guancia e il naso contro il tessuto morbido, alla ricerca di quel tepore.

«N-on mi hai detto cosa ci fai qui.»

«Intendi oltre a salvarti dal gelo?» sogghignò poi soffermò il frizionamento delle braccia e mi avvolse completamente, depositò la guancia sui miei capelli fradici e lasciò che quel suo calore corporeo mi abbracciasse interamente.

Profumava d'estate, di caldo, di sale; era un odore che non avrei potuto descrivere appieno eppure risvegliava corde che risuonavano un'unica parola in me: casa.

«Come va la spalla?»

Mi scostai leggermente da lui e, da sotto l'asciugamano, la alzai un paio di volte. «A-vresti visto uno squalo senza pinna, se mi facesse male e invece. S-sta benissimo.»

I polpacci erano l'unico punto dove la brezza marina mi raffreddava ancora la pelle, la sabbia fresca sotto i miei piedi sembrava già scaldarsi.

«Non mi fido molto del tuo buonsenso, ultimamente».

Roteai gli occhi per aria discostandomi completamente da lui. Lo sguardo ambrato pareva carico di mille pagliuzze rilucenti con quella luce accecante che le irradiava, un sole incastonato nell'infinità della resina.

«Volevo fare una sessione di allenamento speciale con te» ammise, sorridendo e portandosi una mano sulla fronte per schermarsi dal sole.

«Adesso?»

«Sì, adesso, prima di partire. Forza, vestiti.»

Mi frizionai bene addosso, cercando di asciugare il più possibile, poi mi rivestii completamente e seguii Ivan verso l'interno costa. Le vie a quell'ora erano già trafficate, la quantità di persone a fare colazione nei bar era imbarazzante, gli australiani iniziavano le loro vite troppo presto. Troppo. Ringraziavo il cielo che al bar non mi toccasse mai il turno delle cinque di mattina.

Raggiungemmo Macintosh Island Park che il sole aveva assunto il consueto colore dorato e i profili dei palazzi già si illuminavano del suo tepore. Niente nubi nel cielo, anche quel giorno.

Mi aveva costretto a fare colazione, cosa che non disdegnai dato il calore del flat white che tenevo stretto fra le mani. Fra la caffeina e la nuotata mi sentivo sveglia come non mai. Finii di mangiare il toast che mi aveva offerto e lo seguii inoltrandoci nel parco.

«Perché siamo qui?»

L'erba era di un verdeggiante rigoglioso, il cristallino sgorgare della piccola cascata si mescolava al gracchiante verso di alcuni pavoni che zampettavano nella vegetazione, noncuranti della singolarità del loro ammaliante piumaggio.

Non era troppo affollato a quell'ora della mattina, se non contavamo la fauna singolare che lo ospitava.

«Oggi facciamo una cosa diversa dal solito» si guardò intorno in quel giardino labirintico tra viottoli sterrati, piccoli monumenti per bambini, alberi spigolosi e fiumiciattoli snodati.

«A quest'ora della mattina iniziano ad arrivare le prime persone ed è quello che ci serve. Sono stato clemente, sappilo» mi regalò un compiaciuto occhiolino furbo facendo apparire le fossette ai lati della bocca. «Chiudi gli occhi.»

«...scusa?»

«Chiudigli, Scheggia.»

Controvoglia, calai le palpebre del tutto. Le sue mani tiepide mi si posarono sul volto, coprendomi gli occhi chiusi e la flebile luce che trapassava le membrane calate. Il suo profumo mi avvolse completamente, mentre i calli sulle dita di pizzicavano la fronte.

«Che fai?»

«Voglio che tu smetta di usare la vista ed inizi a usare gli altri sensi. Prova ad ascoltare ciò che ti circonda.»

E così feci, tentando di rilassarmi ma sentendomi a disagio senza la vista a supportare i miei sensi. Per un momento mi tornò alla mente il gioco che avevo fatto con Alice, la prima volta che mia madre e io eravamo state invitate a casa loro.

Sorrisi pensando alle sue dita che correvano veloci sul piano, regalandomi note e risvegliando la fantasia. Poi mi trapassò i polmoni, quel ricordarmi dei mille chilometri di distanza che mi separavano da lei... Da loro...

«Allora, cosa senti?»

Sussultai, mi schiarii la gola ritornando presente a me stessa e articolai una risposta sulla difensiva. «Sento la tua quasi risata alle mie spalle. Se vuoi che mi concentri, fattela sparire.»

«Sì, capo... Forza adesso, concentrati».

Rilassai le spalle, cercando di assopire il bisogno di guardare e lasciando che il mio udito si espandesse, lasciandosi travolgere da ciò che mi circondava. Era più complicato del previsto perchè, come le notti in cui mi svegliavo affannata e impossibilitata a dormire, più chiudevo gli occhi e più vedevo il fardello logorante e nero che avevo dentro incitarmi, sussurrarmi, pretendere, stancarmi.

Ero così esausta di oppormi...

Strinsi i denti. Tentai di focalizzarmi, inspirai con forza, come per frapporre fra me e quel mostro furioso e logorante, più ossigeno possibile, più sanità mentale possibile...

«La cascata, il gorgoglio del fiume vicino a noi...»

«Continua.»

«Mhmm... qualcuno ci è appena passato accanto correndo» poi attesi ancora, lasciando che il mio udito si espandesse. Un suono identificato in più, un pensiero lacerante che riuscivo a chiudere fuori dalla mia mente.

«I pavoni... credo. Devono essere loro perché è un verso spiacevole. Però sento anche dei pappagalli, il loro canto è molto più... non so, melodioso. E c'è anche un gabbiano... Dio quanto sono cattivi questi gabbiani australiani, strillano proprio!»

La risata gorgheggiante di Ivan mi vibrò attraverso la cassa toracica su cui ero appoggiata con la schiena.

«Che altro senti?»

Peso, il fardello che ero, uno sgorbietto complicato, miccia pronta a esplodere...

«Le macchine, molto lontane, ma le sento. Una signora che parla al telefono del Anzac Day e poi... il frusciare del vento, fra le fronde spelacchiate. Ah! E vi è qualcuno che ciabatta

Le mani scivolarono via dai miei occhi, il parco tornò a splendere davanti a me. Mi voltai verso Ivan, osservando la pelle bronzea del volto e i capelli scompigliati sospinti dalla lieve brezza.

«Quello che vi è successo, che ti è successo, Scheggia, è qualcosa di pericoloso. Voglio che tu sia preparata a ogni evenienza, capisci?»

Annuii, in silenzio, la preoccupazione che mi riversava addosso ormai era una costante. Eppure, non potevo biasimarlo in alcun modo.

«Voglio che tu impari a capire quando arriva un pericolo e non solo con la vista, ma con tutti i sensi. Non basta allenarsi come facciamo noi, a volte è meglio non arrivare a uno scontro diretto e, per fare ciò, bisogna non farsi cogliere impreparati. Mai. Devi imparare a osservare ciò che ti circonda e rimanere sempre vigile.»

«Per... scappare quindi?»

Qualcosa nello stomaco mi si contorceva... ero stanca di fuggire. Volevo combattere, volevo lottare, volevo vincere.

«Sì, anche. Se rimani sempre presente su ciò che ti circonda sarà più facile scappare, nascondersi e non farsi cogliere impreparati. Mi capisci?»

Annuii nuovamente, scostandomi dal vialetto principale per far passare una signora in bici.

«Bene. Proviamo allora» si tolse le mani dalle tasche dei pantaloni cachi. «Chiudi gli occhi adesso.»

Lo feci, senza storie, mentre le sue mani si appoggiavano sulle mie spalle e mi incitavano a camminare nella direzione a me sconosciuta.

«Appena darò il via, tu conta fino a venti e poi apri gli occhi. Devi riuscire a trovarmi prima che io trovi te.»

Non capivo il senso della frase, ma non aggiunsi nulla. Cercai invece di concentrarmi sul terreno irregolare che stavo calpestando, era divenuto morbido e docile sotto i miei passi, dovevamo essere sull'erba.

«Via!»

Le sue mani scivolarono via dalle mie spalle e feci come mi aveva chiesto. Contai fino a venti, cercando di focalizzarmi sui suoni circostanti e, terminato il conteggio, sollevai le palpebre

Ci misi qualche istante per realizzare dove mi trovavo. Svariati secondi passarono mentre iniziavo a studiare ciò che mi circondava e riuscire ad acquistare il mio mondo contorto e aggrovigliato interiore.

Era troppo familiare Ivan, per me. La felpa rossa col cappuccio che indossava o quei capelli cotti dal sole, il passo molleggiato e le spalle con quella postura rilassata. Ma non lo trovai, non lo vidi intorno a me, non ne riconobbi il sorriso sui passanti, né i colori fra la tavolozza variopinta che mi circondava.

Niente. Doveva essersi allontanato parecchio, oppure era solo estremamente bravo ad amalgamarsi.

Così iniziai a camminare cercando di osservare ogni persona che mi circondava, ogni risata, ogni parola pronunciata a voce squillante.

Mi allontanai dal fiumiciattolo e cercai il silenzio, mi diressi verso un punto più aperto del parco, vicino alle postazioni barbecue, dove sarebbe stato più facile osservarmi intorno.

«Presa.»

La voce al mio orecchio mi fece letteralmente sussultare.

«Ma che-» mi voltai squadrando il viso tirato di Ivan.

Da dove diavolo era spuntato fuori?!

«Non ti ho visto!» Proruppi, seccata.

«Perché ti sei affidata solo allo sguardo» la voce canzonatoria e le labbra tese in un sorriso birichino.

Scosse la testa e mi puntellò il dito sulla fronte, delicatamente. «Hai presente quella sensazione singolare quando qualcuno ti fissa? A volte ci voltiamo in una direzione, ancor prima di sapere che qualcuno ci sta guardando...»

Lo ricordavo benissimo. Lo sguardo di Nicholas per settimane me lo ero sentito addosso ad Haywards Heath, ancor prima di vederlo, rivestito nelle sue ombre. Tutto il suo essere era qualcosa che calamitava i miei sensi ancor prima che i miei occhi se ne rendessero conto.

«Come un sesto senso...» sussurrai, dispersa nelle crepe del mio cuore.

«Sì, esatto, come un sesto senso. Quello è il tuo istinto, Scheggia, è il tuo migliore alleato» mi accarezzò la fronte col pollice e poi sorrise, incoraggiante. «Riproviamo.»

Continuammo così per un'altra oretta, fino a quando il parco divenne talmente pieno di persone da confondere completamente i miei sensi e farmi stizzire.

Il mio istinto, ovunque fosse, aveva deciso di andare in vacanza.

Eppure ricordavo benissimo la sensazione di uno spillo che bucava l'aria ogni qual volta mi sentivo osservata ad Haywards Heath. Possibile che il cambio di territorio mi avesse scombussolata anche quello, dentro?

E fu proprio quando le persone affollarono il parco che i miei sensi vennero meno e fui talmente tanto amareggiata da serrare gli occhi in un disperato tentativo, con il mio personale e mordace fardello che mi incitava...

E qualcosa successe.

Fu come trovarsi al centro di una ragnatela enorme. Ogni filo che spariva alla vista era però collegato a quel centro, tutto facente parte di un'unica entità. Se qualcuno entrava in contatto con una delle ramificazioni, la ragnatela oscillava, si tendeva e il suo vibrare arrivava fino a me. Lo sentii, lo percepii, così nettamente da potermi quasi raffigurare la direzione esatta.

Mi voltai di scatto, ancora prima di sollevare le palpebre.

Ivan arricciò le labbra scure, il volto a un metro dal mio, la soddisfazione a increspargli le iridi ambrate.

«Esatto, così Scheggia.» l'orgoglio che espresse mi abbracciò il cuore e me ne fece sentire indegna. Si avvicinò e acchiappò una ciocca dei miei capelli che era sfuggita alla coda e che adesso mi offuscava la visuale, se la struciò tra le dita mentre lo sguardo si faceva pesante.

«Mi prometti una cosa?»

Ero inerme sotto quella sua richiesta. Sotto quell'orgoglio che mi aveva mostrato. Sotto quell'affetto che gli imperlava ogni sguardo. L'avevo fatto soffrire troppo.

«Fallo, d'ora in avanti, sempre. Me lo prometti?» Il pollice scese ad accarezzarmi il mento, adagio.

Non potei fare altro che accettare ogni sbocconcellatura di quella richiesta.

«Promesso.»

«Come abbiamo detto che si chiama il posto?» domandò Emily facendo risuonare la sua voce nel cubicolo dell'auto di Ivan.

«Byron Bay» risposi accoccolandomi meglio sulla seduta morbida che sfregò sotto le mie gambe nude.

Era Maggio, l'inverno alle porte, ma bastava che splendesse il sole in cielo e si stava magnificamente. Appena tornati a casa mentre ci apprestavamo alla partenza, Ivan mi aveva consigliato, con sguardo ammiccante, di mettermi i pantaloncini corti. E aveva ragione: era caldo. Cosa che non avrei garantito dopo il gelo per uscire dall'acqua di quella mattina.

Osservai Emily tramite lo specchietto retrovisore, il vento le scompigliava i fini capelli biondi miele che con i mesi avevano assunto un sottotono estremamente caldo. 

«Tu non guardi, vero?» Puntualizzò William sarcastico, con quel tremendo sopracciglio che saliva verso la fronte.

«Non prestavo attenzione» si indispettì lei ruotando gli occhi per aria e scansandosi dal ragazzo che tentò di prenderle la mano.

Will si sporse verso di noi, il naso si affacciò tra i sedili anteriori mentre la musica in sottofondo terminava.

«Sam invece è sempre stata così silenziosa?»

Mi accigliai per il fatto che si fosse riferito a me in terza persona.

Ivan distolse un attimo lo sguardo dalla strada davanti a noi per guardarmi, una mano mollemente appoggiata sul volante mentre l'altra era sporta oltre il finestrino aperto.

Qualcosa, nella domanda che Will aveva posto, mi fece stringere nelle spalle e tendere i muscoli. Le dita di Ivan mi carezzarono il ginocchio, senza guardarmi.

«Silenziosa quando vuole» accompagnò la frase regalandomi un occhiolino complice.

Aveva capito?

Certo che lo aveva capito, era Ivan dopotutto.

«Ci pensi tu a parlare per tutti, Will.» Emily lo afferrò per la maglia e lo tirò indietro lanciandomi una rapida occhiata.

«E' per questo che ti ho conquistata!»

«Sono io che ti ho conquistato, dongiovanni» lo rimbeccò, ma la risata la si sentiva ormai sgorgare fra le sillabe finali.

Scostai lo sguardo per concedergli privacy, in quello scambio affettuoso che mi punse dentro. Non potei non sentire lo schiocco lieve che si scambiarono.

Non lo facevano mai, non quando erano in presenza di altre persone. Erano riservati, o almeno, Emily lo era. Se quella volta si erano concessi di esternare il loro amore, avrei dovuto essere felice per loro e reprimere qualsiasi emozione logorante volesse graffiarmi dentro.

Ogni sutura sul mio cuore, invece, si sfaldò un po'...

Inspirai profondamente osservando il sole che si stagliava alto nel cielo illuminando la boscaglia ribelle intorno alla carreggiata asfaltata. Mi sentivo esattamente così, come quel agglomerato sconclusionato di erba e arbusti che si accavallavano l'un l'altro. Sgomitati, selvaggi.

Ero un labirinto intricato e ombroso di emozioni tanto intense quanto ribelli, ognuna di esse un vortice logorante e scosceso a cui non sapevo come resistere.

Sobbalzai quando sentii qualcosa sfiorarmi la guancia. Era il dito di Ivan, lo sguardo che mi regalò fu un mix troppo complesso per identificarlo subito, ma mi spiazzò.

Le sue dita mi accarezzarono un momento ancora, prima di strusciarmi sotto la pelle morbida dell'occhio e infine allontanarsi. Solo allora sentii qualcosa di umido rimanere incastrato fra le ciglia inferiori...

Guardai ancora il profilo di Ivan, ora concentrato sulla strada dinanzi. Il piccolo naso che faceva a gara nella sporgenza col mento.

Mi rimase incagliato addosso, lo sguardo che mi aveva rivolto prima, mentre mi asciugava la lacrima. Era tristezza, di quella personale e intima, così difficile da lasciar scorgere agli altri.

Si capisce quando si raggiunge un rapporto importante con una persona, nel momento in cui per comunicare invece delle parole, si usano gli occhi. E lui faceva parte di quelle pochissime persone. E non potevo negare quello che vi avevo scorto...

Ma non avevo mai visto in lui quel tipo di emozioni scivolose e logoranti.

Era un figlio del sole, lui, non un'artista; splendeva sotto il sole e le sue emozioni erano sorrisi carichi di luci, non eclissi di luna. Non come me.

Allungai la mano e la adagiai sulla sua coscia, i pantaloncini morbidi e sottili che indossava erano di un delicato color avana. La sua mano mi raggiunse poco dopo, stringendo le mie dita con forza.

Era lui che dava conforto a me o il contrario?

Scendemmo dall'auto qualche minuto dopo, in una via gremita di negozietti dall'aria hippy e coloratissima. Le risate tranquille dei passanti accompagnavano il rumore cantilenante delle ciabatte che sfregavano l'asfalto; l'odore salmastro impregnava l'aria.

Davanti a me si srotolò un paesino: strutture con balconcini in legno ai piani superiori e archetti dello stesso materiale ai piani inferiori, vie brevi gremite di colori e facciate colorate dei negozietti e palme torreggianti dalle chiome di un color verde desaturato.

Lasciammo gli zaini nel piccolo albergo che Ivan aveva prenotato per quella notte. Era stata una sua idea quella di portarci fuori un weekend e William lo aveva caldamente spalleggiato, dicendo che era l'ora che anche noi ci unissimo a queste esplorazioni.

«Ehi!» Ivan mi passò un braccio sulle spalle e mi strinse a sé. «Niente facce così, va bene?»

Inclinai il capo trovandomi vicinissimo al suo mento. «Non ero l'unica che aveva questa faccia poco prima in macchina... o sbaglio?»

Lui scosse il capo scostando le pupille dalle mie, ma senza negare. «Ne avete bisogno, Scheggia. Quindi promettimi che ci provi».

Tentai di sorridere, con quelle mille schegge nel cuore che mi gridavano che sarebbe stata solo una finzione, tutto era solo una finzione.

Perché quel dolore non sarebbe sparito tentando di sorridere. Non bastava indossare una maschera di felicità e cambiare la routine con un weekend fuori porta. No.

«Scheggia...»

Ritornai presente alla realtà, sbattei più volte le palpebre, il suo braccio sulle mie spalle pesava leggermente, le sue dita mi sfiorarono la pelle nuda.

«Ti prego. Se non vuoi farlo per te stessa, fallo per Emily e William. Fallo per tua madre-»

«Come può questo aiutarla?» Erano troppo pungenti le mie parole.

«Hai bisogno di serenità e forza, per trasmettergliela la prossima volta che la chiami. Continuare a portarti addosso questo bisogno di dolore, non ti aiuterà.»

Appoggiai la fronte sulla sua spalla, espirando pesantemente. «Ivan...»

Si fermò, sentii i muscoli irrigidirsi all'improvviso.

«Fallo per me» mi sollevò il mento delicatamente e fui costretta ad incastrarmi nel suo sguardo, in quella richiesta amara che non volevo vedere.

«Ti prego. Se non basta ciò che ti ho detto... fallo almeno per me.»

Mi persi in quelle pagliuzze ambrate, nelle fossette accennate.

Annuii, piano piano, come volendo prendere coraggio nel gesto, come attendendo che quella mia decisione mi desse forza.

E lui si aprì in un sorriso enorme che erano promesse e spinte incoraggianti.

«Vieni Scheggia mia, godiamoci questo weekend come solo noi sappiamo fare!» Con la mano libera mi pizzicò il fianco fino a farmi il solletico vero e proprio, facendomi fuggire il fiato e ridacchiare senza contegno.

Forse, solo per quel weekend, avrei potuto provarci, a trovare quell'allegria che sembrava essere sparita da quando avevo lasciato Nicholas e la mia vecchia vita.

Solo per loro, solo per lui.

NDA:

Riusciremo a vederla sorridere la povera Sam? Vi lascio questa bellissima immagine mentre speriamo insieme   

😅

A parte gli scherzi... questo capitolo un poco più lento ci riporta in Australia dove rimaremmo un bel po'... e a ragion veduta. Perchè suppongo che non vediate l'ora di scoprire tutto ciò di cui siamo ancora all'oscuro... allora tenetevi pronti per i prossimi capitoli!

E comunque... che ne pensate di Ivan? (faccina che sogghigna compiaciuta)

Perdonatemi inoltre per lo spam di foto del capitolo: la prima immagine è Macintosh Island Park e la seconda la hippie cittadina di Byron Bay. Luoghi esistenti e a me cari. Sono sempre contenta di rifilarvi pillole di vera australia... spero non vi dia noia. :)

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