1. Risposte mancate
Ci logoriamo nel non detto.
Quel nostro cervello,
così mal assortito...
Che per parlar col cuore,
Inneggia e strepita.
Grida e strilla.
E lui si chiude,
nel suo guscio.
Si fortifica,
nel silenzio.
E la parole sono bestie incallite,
sbranano e divorano...
E allora logoriamoci. Senza parlare.
Perchè farlo fa più male...
Amber Shiver
«Ferma, per favore.»
Guardai in un punto impreciso, sopra la fotocamera del telefono, che Ivan teneva sollevata a pochi passi da me. Mi parai gli occhi dal flash che mi colpì in pieno volto, accecandomi.
«Perfetto.»
Lasciò cadere il cellulare in tasca, afferrò uno zaino che aveva buttato poco prima ai piedi del letto rifatto e se lo lanciò sulla spalla, le dita strette intorno alla bretella.
«Voi rimanete qui. Se volete fare un giro, cercate di non dare nell'occhio e non rimanete mai da soli.» si soffermò su di noi, come se fossimo bambini portati ad una gita fuori porta per la prima volta.
E, in effetti, guardandoci, lo sembravamo davvero.
William era seduto, ovvero sprofondato, sul bordo del letto; il mento sopra le nocche e i gomiti puntellati alle ginocchia. Emily, in piedi accanto a lui, aveva uno sguardo accigliato e sfinito.
«Intesi?» mi cercò, chiedendomi conferma.
Non risposi, non gliene concessi alcuna.
Lo fissai con tutto il non detto che ci portavamo dietro, arpionandomi al suo sguardo con tutta la mia irritazione.
«A questi ci penso io» ci sventolò davanti la busta in cui ci aveva imposto di buttare tutti i nostri documenti: carte d'identità, patenti, carte di credito. Ognuno di noi aveva ritirato per l'ultima volta.
Ci stavamo lasciando tutto alle spalle. Proprio come aveva detto Nicholas.
Ivan schiuse le labbra rosate, con i tratti del viso dolci che si piegarono sotto quella preoccupazioni che mi riversò addosso. Poi scosse la testa e mi sfuggì di vista. Si chiuse la porta laccata della stanza alle spalle, con un clic seccò che si accordò al nostro silenzio gravido.
Mi voltai, con le dita aperte che non afferravano nulla; la mente sospesa, sfilacciata e stremata. La luce appesa sopra le nostre teste mi dava noia, i rumori sembravano amplificati e sudavo in modo costante.
Il peso del viaggio ci gravava addosso. Aveva creato tic tremendi alle palpebre di Emily, arruffandole i lunghi e fini capelli. Mentre William sembrava essersi completamente spento, con quelle occhiaie violacee che gli bordavano gli occhi.
Iniziai a camminare per la stanza dell'albergo, senza una meta, calcando con i calzini il pavimento liscio e scricchiolante nello spazio fra i letti candidi e impersonali.
Non avevo dormito nemmeno un istante in aereo ed era stato assurdo: undici ore e mezzo di viaggi mentali, nuvole che si perdevano davanti all'oblò del finestrino, di luci colorate nella cabina aereo, di pasti che non avevano un'ora di riferimento e odori pungenti di ogni genere.
Ivan non mi aveva rivelato niente.
Ivan, per undici ore e mezzo di viaggio passate seduto accanto a me, non mi aveva rivelato non una singola cosa.
«Will?» la voce stanca della ragazza era arrochita dal silenzio prolungato.
Soffermai la mia avanzata imperterrita e calai lo sguardo sui due ragazzi: le dita di Emily accarezzavano la spalla del ragazzo, cercando di attirare la sua attenzione. Niente. Non reagiva; con quella posa rigida, le spalle ricurve e lo sguardo perso, mi ricordò una statua.
«Forza.» lo tirò di prepotenza in piedi, sorreggendolo da sotto il braccio, tanto alta lei quanto lui.
Quando William strabuzzò gli occhi, tornando alla realtà, osservandosi intorno, spaesato come se avesse perso cognizione di dove ci trovassimo, ormai Emily lo aveva trascinato sulla soglia del bagno.
Mi sorrise con poca convinzione, prima di chiudersi la porta a scorrimento alle spalle.
Posai la mia attenzione su ciò che mi circondava: quella luce vivace e accecante del lampadario, i quattro letti presenti, le coperte candide, l'assenza di finestre alle pareti, il profumo viziato presente nella stanza.
Puzzavo. Eravamo a Bangkok da ore scarse e già mi aveva lasciato addosso il suo ricordo, uno strato appiccicoso di smog e sudore che mi aveva creato come una doppia pelle.
Un vero e proprio schifo. Vi era un caldo della miseria, ma non era il 27 Dicembre?
Che diavolo di stagioni avevano i thailandesi?
Quando i due ragazzi uscirono dal bagno, mi trascinai dietro lo zaino con il ricambio e mi spogliai di tutto. Entrai in doccia, desiderando lavarmi ogni residuo di ciò che era successo nelle ultime quarantotto ore. Le più lunghe della mia vita.
Niente da fare.
Non importava che mi fossi insaponata i capelli due volte, né che avessi messo l'acqua ad una temperatura da ustione, creando un vapore talmente denso da sembrare in sauna.
Niente.
Quelle immagini non se ne andavano dalla mente: gli occhi ricolmi di lacrime di mia madre, la sofferenza che imbrattava lo sguardo di Nicholas, il sorriso beffardo di Trevor.
Niente. Era tutto inciso come un nastro in loop nel retro delle mie pupille, riproducendoli all'infinito.
Riuscii a togliermi di dosso quel velo appiccicoso e la sensazione del viaggio, ma il resto rimase tutto. La ferita alla tempia aveva un colore tremendo, i tagli sulle braccia sembravano andare di pari passo con il rosso accaldato del mio corpo.
Il bagno era sufficientemente grande da ospitare sia una doccia a vetri che una vasca addossata alla parete; la finestra rettangolare, da sopra il bordo, mostrava lo skyline della città. Un guazzabuglio di miliardi di edifici, puntini in movimento, macchine ad affollare le strade, come non ne avevo mai visti prima.
Non ebbi né la forza né la voglia di medicarmi le ferite o asciugarmi i capelli. Indossai l'intimo, una maglia che sapeva terribilmente del detersivo alla lavanda che piaceva usare a mia madre e un paio di leggins che con quella calura parevano troppo pesanti.
Scivolai oltre il bordo in ceramica, adagiandomi all'interno della vasca; poggiai la nuca all'indietro, abbandonandomi da un lato. Reclinai il capo, osservando fuori dalla finestra.
E la stanchezza alla fine mi assalì, mi prosciugò la forza dai muscoli, mi consumò i pensieri, fino a quando tutte le domande che mi affollavano la testa si assopirono alla visione di quella città, che si disperdeva a perdita d'occhio davanti a me.
Mi svegliai di soprassalto, con un ronzio perforante che mi fece salire il cuore in gola.
Frullai in me stessa, cozzando contro qualcosa di duro, ginocchia e gomiti strepitarono di dolore a contatto con la ceramica.
Il ronzio del phon si acquietò. «Hei, sono solo io.»
E fu quella familiarità nella voce calda di Ivan, che mi bucò lo stomaco, riportandomi in modo crudele e brusco a dove ero.
«Ci penso io» biascicai.
Sollevai un braccio per prendergli l'asciugacapelli di mano, ma lui fece altrettanto, oltre il bordo della vasca.
Feci per mettermi in piedi, le piante nude che baciavano il fresco della ceramica.
«Ferma.» la sua mano si poggiò sulla mia spalla e spinse verso il basso, impedendomi di alzarmi.
«Piantala Ivan!» mi scrollai di dosso la sua presa, o almeno tentai.
«Piantala tu, Scheggia» si inginocchiò, sporgendosi oltre, e frapponendo nuovamente l'asciugacapelli fra di noi, in modo tale che non sentissi le sue parole.
Ma io mi divincolai, irrequieta, sentendo quegli spilli nel cuore gravarmi addosso come ghigliottine. Mi alzai in piedi, rimanendo dentro la vasca; gli puntai lo sguardo addosso, desiderando che vedesse tutto ciò che mi portavo dentro. Lui, che era sempre stato l'unico, con mio padre, a vederlo.
«Voglio delle cazzo di risposte, Ivan!»
Le unghie si piantarono nella carne sensibile dei palmi, con una forza che mi strinse lo stomaco. Lo sentii, il tamburellare irrequieto del pulsare del sangue sotto i polpastrelli.
«Da quando sei scurrile?» chiese, un sorriso incerto a distendergli le labbra piene.
Mi ci aggrappai, a quel cazzo di sorriso, squagliandoglielo, come neve esposta al sole estivo.
«Da quando sei un cazzo di bugiardo?»
E lo ero davvero, scurrile, come non lo ero mai stata. Ed ero bruciore in gola, ero artigli nel petto, ero tempesta di sabbia nei polmoni. «Rispondimi, Ivan!»
Il suo sorriso scivolò via, traballando, sciogliendosi; rugiada all'alba, sogno al risveglio. «Non ti ho mai mentito, Scheggia.»
La serietà in quegli occhi ambrati mi trafisse il cuore.
«Ah sì? E da quando conosci Black Moon? Da quando conosci mio padre e quello che è?» mi sporsi verso di lui, una gamba oltre il bordo della vasca, in punta di piedi, reclinando il capo. «Da quando sai che mio padre non è quello che io conoscevo, eh?!»
E gridai, con la rabbia che grattava, si arpionava alle lettere, diveniva lava fra le corde vocali, corredendomi tutto, dentro.
«Scheggia... » alzò le mani.
Le schiaffai via, uscendo dalla vasca. Gli piantai le mani sul petto ampio e lo spinsi, con forza. «Questo non è mentire, eh, Ivan? Non è essere bugiardo?!»
«Erano cose di cui non dovevi essere messa al corrente. Non ti ho mai mentito, solo non ho risposto a domande che non mi hai mai posto-»
Lo spinsi con tutta la forza di cui disponevo. Fu un colpo di pugno che mi riverberò nell'avambraccio fino al gomito. Il suo petto si serrò, di pietra sotto la mia spinta.
La sua espressione si affinò. I tratti del viso si incrinarono.
Lo colpii, di nuovo, con più vigore, con più furia. «Sei un traditore anche tu!»
Le nocche cozzarono con il tessuto colorato che gli rivestiva il petto, con un gemito che mi strappò il respiro dalle labbra. Non si mosse, non retrocesse. Le braccia si abbassarono lungo il busto.
«Dimmelo! Ammettilo, Ivan!»
Grattarono le parole in gola, mi si offuscò la vista. Il colpo mi bruciò le nocche, la spinta mi piantò le unghie nel palmo.
Ed era immobile, con lo sguardo chino, la chioma castana ad adombrargli la fronte abbronzata.
«Dimmelo! Ivan... Almeno tu, dimmelo! E' sempre stata uno scherzo la mia vita, eh?! Non è vero? Tu sapevi tutto di mio padre e lui era-» persi le parole, mi scappò tutto, mi grattò la nausea dietro lo sterno, dietro l'attaccatura del naso.
Mi morsi il labbro, ingranai l'ira che mi ribolliva dentro.
«E tu? Cosa cazzo sei tu Ivan!? Mi avete mentito, entrambi. Le uniche persone che sapevano tutti di me, le uniche persone su cui abbia mai contato! C-come hai potuto?»
Colpii con forza, tirai fino a quando ogni colpo non andò a fondo.
E lui era immobile, impassibile, non lo spostavo di un millimetro.
«Come hai potuto, Ivan? Come!?»
Scivolai in avanti, la foga che mi protendeva completamente addosso a lui. Le sue mani mi afferrarono per le spalle, trattenendomi.
E allora divampai di tutto: rabbia, grida, spilli, schegge, furia, speranze.
Gridai, mi dimenai, tentai di togliermelo di dosso, di spostarlo, di capire.
Lui mi strinse a sé e le mie grida si ovattarono contro la stoffa morbida della maglia; le lacrime sgorgarono contro il tessuto, mi rigarono il volto, mi bruciarono la pelle. E colpii ancora, con collera, con ogni briciolo di disperazione che mi tormentava il cuore.
Ancora e ancora. Dolore e amarezza.
Fino a quando mi ritrovai con le ginocchia a terra, stremata. Il suo busto tiepido a sorreggermi, le sue braccia ad avvolgermi e i miei singhiozzi ormai spenti; in quel dolore esaurito che mi aveva mangiato dentro non lasciando più niente.
Solo una terra desolata e devastata da una guerra.
Una battaglia che avevo perso.
Passarono attimi vuoti e sospesi, sussurri oltre la porta, il tempo disteso e intrappolato fra di noi; il suo petto che si alzava e abbassava ad un ritmo che mi cullò, il profumo di sale della sua pelle che mi avvolgeva, come una coperta familiare e dimenticata. Il suo respiro fra i miei capelli mentre le dita mi accarezzavano la nuca e la schiena, lente e continue.
Si allontanò da me, ma la sua mano continuò a mantenere salda la presa sul mio braccio, come un'ancora.
Lasciai che i glutei si accasciassero a terra, serrai le braccia intorno al petto e mi rannicchiai le ginocchia al busto, senza aver forza di oppormi. Il ronzio dell'asciugacapelli ripartì mentre il tepore dell'aria calda mi asciugava i capelli.
Lo lasciai fare, mentre le sue dita, gentili e con estrema delicatezza, tentavano invano di districarmi le ciocche, fino a quando non furono asciutte.
«Ecco.»
Il ronzio cessò. Chinai lo sguardo da un lato, osservando la figura di Ivan sollevarsi sulle gambe e allontanarsi. Ed ero vuota dentro, ma di un vuoto nefasto, di un vuoto che era ovattato e tremolante.
Ero terra bruciata, resti di un rogo divampato che aveva spazzato via tutto, lasciando solo ceneri.
«Lo sai che ci sono sempre stato per te.» mi sollevò il mento.
Era piegato sulle ginocchia, proteso verso di me, un sorriso straziato e incoraggiante a distendergli le labbra piene, le fossette agli angoli della bocca erano appena accennate.
«Perché?» mi frantumai su quelle poche lettere.
«Ti spiegherò tutto quello che posso, te lo prometto.» sorrise ancora, in quel modo familiare che aveva a lungo rischiarato le mie giornate, nella mia adolescenza, con quelle iridi ambrate che erano mille pagliuzze dorate.
«Va bene?»
Annuii, senza forze per oppormi, senza parole da elargire.
«Intanto, tieni questo.» efferrai ciò che mi porgeva con dita traballanti. «E' il nuovo documento per dove stiamo andando. Da adesso non sarai più Sam Knight. Abbiamo un volo per Brisbane, domattina.»
«Come... » ed ero parole atone e spente, ero briciole di sopravvivenza.
«Come è possibile... questo?» sollevai il documento che mi aveva dato, con quella foto che aveva scattato poco prima.
Non capivo, avevo il viso accaldato e mi sentivo la testa scoppiare.
Ivan, a Bangkok, aveva appena creato dei documenti falsi, nel giro di poche ore.
«Ricordi? Quando ti dissi che lavoravo per un'agenzia di stampo internazionale, che aveva collaboratori in tutto il mondo? Il motivo per cui sparivo per giorni, per assisterli... » le sue dita accarezzavano le mie.
«Non ti ho mentito, lavoro davvero per un'agenzia di stampo internazionale e questo» sfiorò il documento che tenevo stretto in mano, la superficie lucida si appannava già col calore. «Questo fa parte anche di quello che faccio.»
Era ciò che di più vicino avevo ricevuto ad una spiegazione nelle ultime ore. Così la accettai, calando le palpebre.
«Sei anche tu uno di loro?»
«Sei mi stai chiedendo se ho a che fare con Black Moon e quella f-» si interruppe, serrò la mascella, corruggò la fronte.
Tremai, a vedere quella ira a cui non ero avvezza, che non gli aveva mai incorniciato il volto nella vita passata insieme.
«Allora no, Scheggia. Non ho niente a che fare con loro e mai ce l'avrò. Non vi è cosa più diversa da quella che io sono.» mi sollevò il braccio e me lo accarezzò con polpastrelli caldi. «Ma adesso devo estrarre il chip e medicarti. Permettimi di farlo. Poi avrai tutto il tempo per chiedermi quello che vuoi. Promesso?»
Avevo scelta?
Le ciglia scure gli merlettavano lo sguardo, così familiare, in quel marasma di devastazione, che non potei che accoglierle come un miraggio.
Annuii.
Lasciai che mi medicasse con gesti precisi la ferita alla tempia e attesi che eseguisse quello doveva fare, sperando che il dolore sarebbe stato più sopportabile degli altri.
Ma la lama con cui incise il braccio, non creò che un altro segno che mi sarebbe rimasto poi.
Un'altra cicatrice nei ricami che stavo iniziando a collezionarmi addosso, così come gli sfregi che mi si stavano tatuando sul cuore.
Mi chiesi se ne valessero la pena, ognuna di loro.
Mi chiesi se avessi fatto la scelta giusta.
La foto del documento di identità, mi era rimasta appiccicata alla mente, indelebile. Da quella prima volta che me lo avevo consegnato, nel bagno dell'albergo di Bangkok, avevo cambiato identità.
Samantha Smith, questo era il nome riportato sul documento, con le altre generalità annesse.
Persino adesso continuavo a chiedermi se avesse volutamente lasciato il mio nome per evitare problemi, perché sapeva che non mi sarei mai abituata a sentirmi chiamare oltremodo.
Lo sguardo della ragazza, nella foto, non riuscivo a togliermelo da dietro le pupille: era disperso, con quel viso pallido e affilato che non riconoscevo, con gli occhi scuri tanto vuoti da risucchiarti dentro.
Un tempo erano stati di un denso color caffè, luminosi, di quella profondità ricca che ti fa domandare cosa ci sia oltre; nella foto erano scarni, strapiombi quasi neri, dove il fondo non si vede.
Ero divenuta Samantha Smith da quando avevamo messo piede in territorio australiano, più di tre mesi prima. Da allora ci eravamo integrati, cercando l'equilibrio in quella nuova temporanea vita. Che di normale non aveva niente, compresa l'identità fasulla.
«Samantha?» mi voltai, sentendo quel modo particolare di calcare il mio nome per intero.
«Subito.»
Mi avvicinai al bancone e mi affrettai ad afferrare la ciotola ripiena di purea di acai e guarnita con uno di tutto. I clienti avevano scelto la più ricolma, la più colorata; come se la purea di acai non fosse già di un'anormale colore violaceo.
Passai fra i pochi tavoli disposti ai lati, le note blues e folk in sottofondo mi accompagnarono nel piccolo locale. Mi avvicinai all'intimo tavolo rotondo in legno color faggio posto all'entrata, dove un'allegrissima giovane coppia accolse l'ordine con un sorriso tutto denti. Troppi denti, troppo biondi, troppo abbronzati. Troppo tutto.
La luce del sole attraversava, in modo inclemente, le vetrate del bar poste sulla via principale. Qualcosa sotto le suole delle scarpe scricchiolò. Sabbia, con molta probabilità. Sembrava che rimanesse incastrata ovunque; mi chiesi quanta ne avessi ormai accumulata nei polmoni.
«Hei, Samantha!»
Lavoravo in quel bar da quasi due mesi ormai, eppure non mi abituavo a essere chiamata col mio nome per intero.
«Sì?» mi voltai verso la mia collega, passandomi i palmi sui pantaloni, per asciugarmi dalla brina gelida lasciata dall'acai bowl che avevo servito.
«C'è quel tuo tipo, là.» Janey indicò con la testa un punto impreciso, verso la porta d'entrata al bar.
Potevo anche non guardare, già lo sapevo. Non mi dava tregua.
Appena intravidi la chioma castana attanagliare la luce del sole e rifletterla in quel modo imprescindibile, ruotai gli occhi per aria e chinai il capo.
Voltai la schiena e mi rintanai dietro il bancone, portando la mia attenzione alla macchinetta del caffè. L'aroma penetrante e inconfondibile dei grani mi si inerpicò addosso e lo inalai il più possibile, come se il solo respirarlo mi desse lo stesso giovamento che berlo.
«Guarda che è finito il turno, dolcezza.»
Inclinai il capo per osservare il viso furbo della mia collega carico di un'eccitazione che aveva dell'insano. La mano fresca di manicure, aggrappata mollemente sul fianco prosperoso, mentre l'avambraccio, dalla tintarella invidiabile e poco naturale, era appoggiato sul bancone dinanzi a lei.
«Samantha, non fare la stacanovista e vai da quel bonazzo che ti aspetta.» poi si sporse, regalando al nuovo venuto all'interno del locale il suo classico sorriso da accoglienza. «G' Day mate!»
E qualcosa in me si ribellò, a quel modo terrificante che avevano gli australiani di fare: sorrisi elargiti a destra e a manca senza trattenersi, quasi ne avessero in abbondanza. Mai troppo veri, ma nemmeno mai troppo finti. Fosse mai!
«Ci vediamo Lunedì, Janey.»
«A lunedì bellezza» accompagnò l'occhiolino che mi regalò, incurvando le labbra fuxia, maliziosamente. «E comunque, se non te lo fili il bonazzo, basta che me lo dici. Ci penso volentieri io.»
Non ne dubitavo.
Me ne andai senza rispondere. Afferrai i miei averi dall'angolo ricavato dal magazzino, tra il freezer e le casse di frutta fresca, dove riponevamo le nostre cose e mi diressi verso l'uscita.
Prima di uscire dal negozio, inspirai un'ultima volta, godendomi appieno il fresco pompato a mille dell'aria condizionata. Quando oltrepassai l'uscio, il caldo asfissiante mi penetrò subito sotto pelle, creandomi una tempesta di brividi.
Troppo repentino il cambio di temperatura. La mia pelle continuava a non volersi adattare.
«Non ti ci sei ancora abituata, eh?» le dita di Ivan mi accarezzarono le spalle scoperte, sfiorandomi i brividi.
Mi scansai e non ribattei, anche se dentro di me pensavo ad una sola cosa: erano i primi di Aprile, eppure la stagione non sembrava cambiare. Il caldo era torrido e inclemente sulla pelle, come il primo giorno che eravamo arrivati. Sembrava penetrare oltre il derma, perforando le vene e facendoti bollire dentro.
Strinsi lo zainetto in spalla e iniziai a camminare verso l'attraversamento pedonale, dove sostava un gruppo ridacchiante di ragazze; erano un tripudio di pelle scoperta, gambe lunghissime e infradito ciabattanti sull'asfalto.
«Scheggia... Dai, finiscila.» mi raggiunse, la sua voce calda, da dietro la schiena.
Mi fermai sul marciapiede. L'asfalto ribolliva sotto la suola delle scarpe da ginnastica che indossavo ogni giorno. Mi raggiunse, ponendosi al mio fianco. Lo guardai, con quel cesto castano che brillava di sfumature dorate sotto i raggi del sole; la pelle bronzea delle braccia nude, occhiali da sole puntati sulla nuca e un sorriso che era così gioviale e amichevole da aver difficoltà a non incastrarcisi.
«Piantala.» borbottai.
«Per quanto farai così?» si sporse verso di me, ma io rimasi con lo sguardo sul semaforo, senza demordere.
Inspirai serrando le labbra. «Per quanto continuerai a non dirmi dove vai tutti i giorni?»
Vidi con la coda dell'occhio che ruotò gli occhi verso l'alto, fingendo fastidio.
«Vedi, siamo pari. Finché tu non mi darai delle risposte, io non ho niente di cui parlare con te.»
Il semaforo scattò e io, e il gruppetto strillante di ragazze, attraversammo.
Il John Laws Park era un esteso quadrato d'erba che ci accolse dall'altro lato. Aveva un enorme cartello di divieto di fumare e una miriade di uccelli ibis, con quello stranissimo e rugoso becco lungo, che camminavano svogliati e guardinghi.
Attraversai il piccolo giardino, evitai un paio di pennuti noncuranti e sentii la lieve brezza del mare portare con sé odore di salsedine. Mi fermai dove iniziava la sabbia, dove il gracchiare inquieto dei gabbiani si sommava al chiacchiericcio allegro di un paio di surfisti; le tavole sotto braccio e i capelli ancora grondanti.
«Ti ho già detto che non posso rivelare niente, non dipende da me.» provò, ancora.
Continuai ad osservare le onde irruente che si schiantavano sulla battigia, la sabbia chiara che si srotolava per chilometri e chilometri. Il cielo stava iniziando a tingersi di quel pallido rosa che era il preludio dell'abbandono del giorno e l'inizio della discesa del sole verso il tramonto, alle nostre spalle.
«Perché siamo qui, Ivan?» espirai con forza, le parole si persero con lo sciabordare delle onde a qualche metro di distanza.
«Per nascondervi.»
Mi liberai i capelli dalla stretta straziante della crocchia e li lasciai schiaffarmi le spalle, liberi e ribelli; la brezza delicata che li sospingeva in mille direzioni, avviluppandomi.
«No, Ivan.»
Mi tolsi le scarpe, affondai i piedi nudi nella sabbia e iniziai a camminare verso la battigia, scansando un paio di gracchianti e crudeli gabbiani che strillavano senza ritegno. Ivan accanto a me, mi seguiva come un'ombra.
«Perché siamo qui, in Queensland, in Australia. Cosa diavolo ci facciamo qui, esattamente? Dove diavolo te ne vai tutti i giorni? Per chi lavori? Che fine ha fatto Black Moon? E perché diavolo non posso sapere nulla?»
Mi superò tagliandomi la strada. L'oceano insaziabile, alle sue spalle, che si infrangeva con irruenza sulla sabbia. I capelli mossi che gli venivano sferzati a ciocche sulla fronte.
«Lo sai che non me ne accontenterò in eterno, di questo silenzio» appurai calamitando il suo sguardo nel mio.
Inspirò profondamente chinando il mento nella mia direzione, le mani che cercarono le mie.
«Se avessi un altro modo lo farei, ti direi tutto. E' un'informazione riservata per chi lavoro e lo stesso vale per ciò che ha fatto tuo padre. Anche se ciò di cui sono a conoscenza, sono solo teorie.» ed era un'implorazione, quella che gli corrugava gli angoli degli occhi, che gli calava le palpebre sulle iridi ambrate. Con quella tempesta di lentiggine intorno al naso che sembrava prendere vita.
«Ti fidi di me?»
Me lo chiese, come aveva già fatto mesi prima, con quel bisogno di sapere che lo protendeva completamente verso di me. Con quelle sue mani grandi che stringevano le punta delle mie dita.
«Non lo so, Ivan, non lo so più ormai.»
E fu la verità, crudele e devastante, come le onde alle sue spalle. Impervia e invalicabile, come ciò che sussurravano le cicatrici diafane sulle mie braccia; come quell'identità che mi portavo addosso, che di vero non aveva niente.
Perché io, non sapevo più di chi fidarmi.
Perché non avevo ancora ricevuto risposte e vi era una sola cosa che avevo intenzione di fare. Trovarle, prenderle e schiaffarmele addosso.
Per essere io a scegliere, per essere io a decidere. Prendere il futuro nelle mie mani.
Per salvare Nicholas, per salvare me stessa e distruggere Black Moon.
NDA:
Sono tornata. Siamo tornati. Sono tornati.
Siamo in Australia quindi, dall'altra parte del mondo. Con tutte le mille domande non risposte (probabilmente nemmeno poste) e la confusione che ci sciaborda da un lato all'altro.
Abbiamo bisogno di un riassunto: quali domande ci portiamo dietro?
Come la vedete la nostra povera Sam? E che ne pensate di Ivan?
Cercherò di pubblicare una volta a settimana con regolarità, vita permettendo :)
Vi lascio qualche sprazzo di tutto ciò che è stato nominato nel capitolo, in fondo il Queensland è davvero un altro mondo:
IBIS
PUREA DI ACAI (sotto l'ammasso di frutta, vi giuro che c'è XD)
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top