6. Carezze del cuore

And I'm not giving up
But tell me if I run away
How long will I bleed?

Matt Maeson ~ Grave Digger


Era una mattina soleggiata, lo stereo in soggiorno riproduceva la voce flautata e lenta di una cantante. L'odore di cannella e caffè impregnava la cucina.

Non riuscivo a stare ferma, dondolavo le gambe giù dalla sedia senza che i piedi riuscissero a sfiorare terra; mia madre mi implorò di non agitarmi. Provai a darle retta, davvero, ma la gioia mi riverberava nel corpo impedendomelo.

Nonostante tutto mamma sorrideva.

Quel suo sorriso fu l'ennesima conferma di quello che sospettavo.

Perché stava preparando quei pancake, con quella musica strana in sottofondo e la collana di corallo ad adornarle lo scollo: lo faceva solo quando papà era a casa.

Io non l'avevo ancora visto, doveva essere rincasato a notte fonda.

Dondolai con più forza le gambe e iniziai a saltellare sul posto sentendo dei rumori provenire dalla camera dei miei genitori. Mi costrinsi a stringere le manine tra di loro, in attesa; non volevo essere irruenta, non volevo essere maleducata.

«Nathan, se non vieni di qua, tua figlia rischia di buttarsi giù dalla sedia» urlò mamma sovrastando la melodia, una risata trattenuta tra le labbra.

La porta della camera si aprì.

Non resistetti più. Con un balzo enorme saltai dalla seduta e corsi.

«Delfino mio!»

La sua voce. Mi lanciai tra le sue braccia, dandomi lo slancio con tutta l'energia che avevo in corpo. Gli circondai il collo e strinsi forte forte affondando il viso nella sua guancia. Il suo profumo era un susseguirsi di risate, scampagnate nel bosco e caramelle alla menta.

Quando lui era lì allora io stavo meglio, la mamma stava meglio.

«Mi sei mancato» bisbigliai, l'euforia mi arrotondò le vocali.

Mi tempestò di baci, una risposta senza parole. La barba mi pizzicò la fronte in modo fastidioso. Ma avrei sopportato ogni prurito pur di tenerlo stretto a me.

«Guarda che ti ho sentito, Sam!» gridò mamma.

Rimasi avvinghiata al collo di mio padre anche quando lui la raggiunse.

«Sam, devi smettere di parlare solo quando vuoi tu!»

Nascosi il viso contro la maglia di papà e lui intervenne. «Lasciala stare, Amy. Dalle tempo.»

«Tempo? Ti ricordo che Sam ha sette anni, non due. Non può parlare solo quando vuole lei, ovvero mai! E facendo così continuerai solo a viziarla.» Ma la sua voce, sul fondo della frase, si era ingentilita.

Papà mi staccò in modo delicato e mi depose a terra, poi si avvicinò a mia madre e le diede un bacio sulle labbra, uno di quelli con lo schiocco.

«Dalle ancora un po' di tempo.» Si voltò verso di me, mi fece l'occhiolino come a volermi dire di avere pazienza, perché lei non poteva capire.

Papà invece comprendeva perché non parlavo. Lui capiva sempre tutto.

«Buongiorno tesoro, hai fame?»

La domanda mi riportò in modo brusco alla realtà.

Erano passati anni dal ricordo che avevo appena rivissuto, era cambiato tutto e la colazione che stava preparando mia madre non era uguale a quella di un tempo: niente melodia carezzevole, niente sole che filtrava dalle finestre, niente collana di corallo. E io non ero più uno sgorbietto tutta capelli di sette anni.

Ma la cosa più rilevante: papà non era con noi.

La risposta era no, non avevo fame, ma non avrei mai potuto rovinarle il momento. Mamma correva da un lato all'altro della nostra nuova cucina, alla ricerca di utensili di cui non aveva imparato ancora l'ubicazione.

Il suo telefono vibrò attirando la sua attenzione. Lanciò sguardi fugaci allo schermo, toccandolo di quando in quando, tra un pancake depositato sul piatto e una nuova mestolata di impasto appoggiata sul letto della padella.

All'ennesimo squillo, feci appena in tempo ad afferrare la moka che aveva lasciato incustodita sul lavello. Il liquido rimasto si riversò su tutto il ripiano. Scossi la testa e la allontanai.

«Tesoro...»

Spinsi via la mano con cui tentava di afferrare la caffettiera. «Siediti, ci penso io.»

Rimase immobile, una mano stretta al telefono, l'altra a toccarsi i capelli sfatti stretti in una crocchia alta. Alla fine si lasciò cadere sulla sedia e dedicò la sua totale attenzione allo schermo.

Riempii nuovamente la caffettiera e la misi sul fuoco. Girai i pancake e a fine cottura li riposi in cima a quelli che aveva già cotto lei. Infine, il borbottare contento della macchinetta da caffè mi comunicò che la mia energia liquida era pronta. Mi sedetti anche io e iniziammo a mangiare.

«Va tutto bene?» indagai.

Teneva le labbra discostate appena dalla tazza, gli occhi puntati sul telefono.

«È la nuova tabella di lavoro con i turni extra.»

«Turni extra?»

Eravamo ad Haywards Heath da nemmeno un mese e già faceva turni extra?

«Esatto.» Ripose il marchingegno e iniziò a mangiare la colazione con forchettate svelte e imprecise. «Avevano necessità di più ore. E io ho accettato.»

Riconobbi il modo imbarazzato in cui i suoi occhi verdi rifuggirono il mio sguardo: stava mentendo.

«Mamma-»

«No, Sam. Non dire niente!» La marmellata le cadde dal cucchiaino, inondò prima il pancake e poi il tavolo in legno sopra cui non avevamo appoggiato nemmeno una tovaglia. «È solo qualche ora extra, niente di impegnativo.»

«Lavorare in ospedale è già impegnativo.»

«Esagerata.»

Mi morsi la lingua. Il sapore di caffè che custodivo in bocca si trasformò in qualcosa di amaro e agrodolce. «Sei già sfinita, mamma, non vorrai-»

«Sono tua madre, ci penso io a queste cose!» Il tono si era incrinato, gli occhi lucidi, le spalle ebbero un tic.

«Ho un lavoro. Quindi penso io al resto, tu riposati-»

«Non sta a te occuparti di queste cose, Sam!»

«Sono libera di fare quello che credo meglio per la mia famiglia.»

Alla parola famiglia sussultò a tal punto da far traboccare una grossa lacrima; la goccia rotolò sulla guancia, lasciò una striscia lucente dietro di sé.

Mi sporsi oltre il tavolo. I suoi occhi persi non guardavano me, bensì oltre me, come se mi trapassassero da parte a parte.

«Va tutto bene...» bisbigliai.

Condividevamo lo stesso terremoto interiore, stravolte allo stesso modo, eppure la barriera che ci divideva era intangibile ma invalicabile e la separava da me come non mai. Le passai i polpastrelli sulla guancia, seguendo la scia lasciata dalla alcrima e asciugandola, in quell'intimità a cui non eravamo avvezze.

«Ci penso, Sam. Ho tutto sotto controllo.» Le iridi verdi velate, la voce appena accennata, non del tutto convinta.

Quante balle ci raccontavamo ogni giorno. Passammo i minuti successivi in silenzio fingendo di terminare una colazione come tante. Eravamo sempre state brave ad evitare l'evitabile.

Solo quando se ne andò, chiudendosi la porta d'ingresso alle spalle, mi concessi di spezzarmi.

Mi appoggiai con la schiena al muro. Portai le mani allo sterno e le strinsi forte l'un l'altra. Il battito mi esplose nel petto, la sofferenza mi dilaniò lo stomaco.

Scivolai contro la parete del salotto fino ad accasciarmi a terra. Il freddo si inerpicò dal parquet.

Mi sentivo sola, ogni giorno di più, ogni giorno come la Sam di sette anni: tutta capelli e niente parole, reclusa nel suo mondo.

Un bozzolo da cui osservavo tutti a distanza.

Presi per mano quella Sam, piccola e sofferente. Non c'era più mio padre a sostenerla, adesso rimanevo solo io.

Non avevo altra scelta, non avevo nessun altro su cui contare.

Eravamo relitti alla deriva e, se non avessimo preso le redini di quel naufragio, a breve ci saremmo schiantate in un tripudio di organi agonizzanti e ferite incurabili.

Perché quello che era successo, quel segreto a tinte nere rivestito di violenza, era qualcosa che ci stava inabissando.

E io, il fondo, lo stavo raggiungendo da sola.


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