3. Nell'ombra

Who's in the shadows?
Who's ready to play?

Are we the hunters?
Or are we the prey?

Ruelle ~ Game of Survival










Consultai di nuovo l'indirizzo che mi aveva inviato Ben.

I lampioni erano ormai accesi, l'imbrunire abbracciava i profili dei palazzi in quella via deserta ai margini di Haywards Heath. Intravedevo il bosco disperdersi alla fine della strada. Mi piaceva molto vedere quella natura che spuntava ovunque nella città, mi ricordava casa di nonna in Italia, mi ricordava casa. Quella che ancora sentivo come tale.

Scossi la testa con forza. Non potevo agganciarmi a quei pensieri, alla mia vita, quella che era un tempo. Non potevo farlo, sarebbe stato un viaggio senza speranza, un discendere senza sicurezza di risalire. Non avevo appigli, rampini, salvagenti per tornare in superficie.

Inspirai con forza, mi concentrati sulla brezza serale che mi sferzava il viso. Osservai le indicazione una volta ancora. Avevo un lavoro da ottenere, era solo quello l'importante adesso. Ed eccola lì: una villa isolata, circondata da un giardino incolto e selvaggio, nel silenzio del crepuscolo.

Le case più vicine erano a diversi metri di distanza. Pochi rumori in sottofondo: l'abbaio rauco di un cane, una porta sbattuta, il gracchiare di una TV. L'abitazione davanti a me era immersa in un silenzio innaturale che mi fece pizzicare l'attaccatura dei capelli. O forse era solo la temperatura che stava scendendo. Calai il berretto fino alla punta delle orecchie.

Sulla targhetta appesa alla colonna un cognome stagliava sbiadito: Moon. Suonai il campanello. Lo sentii riecheggiare da dentro le mura.

Attesi.

Nessuno rispose.

Suonai di nuovo, ma niente cambiò.

Iniziai a spazientirmi, mi morsi il labbro inferiore, alla ricerca di una soluzione. Osservai il cancello che introduceva al vialetto dell'abitazione. Non era stato chiuso, ma solo accostato.

Entrai con circospezione, la ghiaia crocchiò sotto la suola degli anfibi. Raggiunsi la porta in legno scuro, bussai con le nocche rese ipersensibili dal freddo.

E di nuovo non ricevetti nessuna risposta.

Eppure poco prima avevo intravisto una luce provenire dal piano superiore; per cui doveva pur esserci qualcuno in casa. Forse si trattava di un'anziana signora con l'udito debilitato.

Il perché dovessi ritirare qualcosa proprio lì, non riuscivo a spiegarmelo. Magari era tutto uno scherzo di cattivo gusto per farmi fare una figuraccia, dato che era stata Susan de Clare tramite Ben a incaricarmi di fare la consegna.

Costeggiai la parete laterale alla ricerca di una finestra che mi potesse far vedere l'interno dell'abitazione. Non era mia intenzione intrufolarmi in casa altrui, ma volevo trovare il modo di parlare con qualcuno per ritirare quello stramaledetto pacco. Oppure fare questa benedetta figuraccia e chiudere qui la faccenda

Trovai una porta finestra socchiusa, i vetri rilucevano della tenue luce dei lampioni della strada. Indugiai per qualche istante, sentendomi una ladra.

La razionalità mi piombò addosso con forza.

Iniziai ad arretrare, cercando il numero di Ben in rubrica. Se tanto dovevo essere sbeffeggiata da Susan, tanto valeva ammettere che non ero riuscita a ritirare la consegna. Non avevo la minima intenzione di effettuare un'effrazione. Scrissi l'essenziale nel messaggio per Benjamin e lo inviai.

La risposta arrivò subito.

Sarebbe meglio tu la effettuassi entro domani, Sam. Non posso fare altrimenti.

Un filo di vento più burrascoso fece cigolare il cancellino d'entrata, foglie frusciarono in lontananza. Il nervoso aumentò. Avevo fatto una promessa a me stessa, era vero, avevo bisogno a tutti i costi di un lavoro per aiutare finanziariamente mia madre, ma non ero così disperata da commettere un crimine.

Spensi lo schermo del telefono e permisi alla desolazione di irrorarmi le vene. Avrei trovato un altro lavoro. Haywards Heath era piccola, ma non così piccola.

Un grido soffocato lacerò il silenzio.

Mi congelai. Sferzate gelide mi cristallizzarono il battito.

Un rumore sordo, di qualcosa che va in frantumi, seguito da altri suoni indistinguibili, provenne da oltre le ante accostate della porta finestra.

«Va tutto bene?!» gridai, spingendo la voce nello spiraglio, le dita appoggiate sul battente.

Altri suoni agghiaccianti.

Così allargai l'apertura delle due finestre e scivolai tra di esse, introducendomi all'interno, nella penombra di quello che riconobbi come un salotto. Intravidi un divano, pareti asettiche che si occultavano nel buio. L'aria era pregna di un aroma stantio ma anche di un profumo intenso di bucato.

«Va tutto bene?! Ho sentito dei rumori!» Scandii ogni parola, cercando di non spaventare chiunque si sentisse male.

Il silenzio che seguì si caricò di un vuoto pesante. Sparirono sia i gemiti, che i rantolii di sofferenza. All'improvviso tutto divenne quieto. Troppo quieto. Un'assenza forzata.

Qualcosa mi serpeggiò lungo la colonna vertebrale fino a disintegrarmi di terrore i battiti. La tensione aumentò, la mia intenzione vacillò.

«C'è nessuno?»

Qualcosa mi afferrò il polso. Qualcos'altro mi tappò la bocca.

Arretrai, strattonai, terrore come lance conficcate negli arti.

Venni spinta all'indietro, cozzai con la superficie, le scapole sbatterono al muro. Il panico mi torse le viscere. La paura mi bloccò l'aria in gola.

Qualcuno mi allungò il braccio verso alto, tendendomi fino allo spasimo, il dorso della mano strusciò sul muro. Il polso rimase bloccato, intrappolato nella presa ferrea che mi inchiodava alla parete.

«Che diavolo pensi di fare?»

La voce profonda era a un soffio dal mio volto, troppo vicina. E anche troppo controluce per distinguerne i tratti.

Con un guizzo, col braccio libero, afferrai la mano che mi bloccava la bocca e la spinsi via. Il cuore martellò selvaggio nel petto, pompò troppo sangue nelle orecchie.

«N-niente. E lasciami andare.»

«Questo ti pare niente?» ringhiò la voce, prima di indietreggiare. Un fascio di luce rivelò i contorni del suo volto.

«Nicholas...»

No, non lui.

Sollevai il braccio e, con la mano chiusa a pugno, lo colpii nell'impellenza di allontanarmi da lui.

Non si mosse di un millimetro.

Afferrò anche l'altro polso e lo bloccò insieme al primo, in alto, oltre la mia testa. Vi spinse sopra l'avambraccio, bloccandomi.

Panico liquido mi bruciò nelle arterie, fiato striminzito e spezzato.

«Ti ho detto.» Scandì, l'alito tiepido si infranse sulla mia fronte. «Dimmi cosa ci fai qui.»

Il panico mi irretì le sinapsi, avevo la mente annebbiata. «L-lasciam-»

Non riuscivo a parlare, la bocca si era seccata, asciutta, arida. Il respiro caldo mi sfiorò il naso.

Avevo fatto autodifesa. Eppure la mia mente era instabile, confusa... non riuscivo a ragionare, non riuscivo a pensare, a ricordare niente.

Che cavolo stava succedendo?

«Hai un brutto vizio. Intrufolarsi nelle case altrui e ascoltare conversazioni private.»

L'istinto gridò. Non sapevo come assecondarlo.

«Non lo ripeterò di nuovo. Voglio una risposta: cosa fai in casa mia?»

«Un pacco!» strillai, accartocciando le sinapsi per farle funzionare. «Dovevo ritirare un pacco.»

«Un pacco, a casa mia?» Mi fissò, l'espressione affilata. «Mi credi stupido?»

Nel vortice di panico che mi strozzava, ci fu un barlume di adrenalina che mi pizzicò, minuscolo e flebile; mi ci aggrappai con tutta me stessa.

Inarcai il busto e sollevai la testa in modo tale da avvicinarmi a lui il più possibile. Il mio naso sfiorò il suo mento, la sua coscia si fuse con la mia. Qualcosa di umido mi bagnò il polso, colandomi sotto la manica del giubbotto.

Era qualcosa di tiepido. E non era mio.

Inclinai il capo per cercarne la provenienza. Nicholas fece lo stesso. I suoi occhi ebbero un guizzo e mi liberò della sua presenza.

Caddi, le ginocchia cozzarono col pavimento. Gattonai all'indietro, strusciai con i jeans a terra. La luce che filtrava dalla finestra alle mie spalle inondò la sua figura.

«Perché sei qui?»

I riccioli neri gli ricaddero sulla fronte adombrandogli lo sguardo. Si chinò, mi afferrò la mandibola; le sue impronte mi marchiarono i battiti.

Attesi che si avvicinasse ancora, gli occhi di ghiaccio a un soffio da me quasi si univano in uno solo. Profumo di agrumi si mescolò a qualcosa di rancido, quasi amaro.

«Non sono degno nemmeno di una risposta?»

Ma avevo visto il suo punto debole. Ed era la mia via di fuga. Sangue gli stava grondando lungo il braccio scoperto, lo stesso con cui mi stava bloccando il mento.

«Ti ho detto di lasciarmi.» Sputai tra i denti.

Gli colpii il gomito, direzionai un pugno al bicipite, lì dove la maglia a maniche corte lasciava fuoriuscire la colata di sangue scarlatto.

Gemette, richiudendosi su se stesso, il braccio stretto al corpo, lasciandomi così andare.

Strusciai, gattonai, scivolai nei miei passi, fino a ritrovarmi in piedi, ansante, oltre la finestra, oltre il vialetto, oltre il cancello.

Corsi, corsi come non avevo mai fatto nella mia vita; con le membra dolenti, il panico negli occhi e l'adrenalina che si affievoliva, lasciandomi svuotata, atterrita, tremante e dolorante.

Continuai a scappare mentre quelle iridi si imprimevano nella mia carne, nei miei terrori.

Come niente aveva mai fatto prima.

Se non il passato da cui stavo scappando.

🌚NDA:

La storia si sta formando, lentamente e con un "pochetto" di creepy...

N: Tu dici, Silvia?
Io: Giusto un tantino...
S: Tantino un corno! Io ci lascio le penne così!

Abbracci, mi trovate su IG come _ambershiver_

Silvi

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top