15. Nel buio

And you better start running
When you hear the man coming
It won't do you no good

Kaleo - No Good



«Sam Knight. Un piacere come sempre.» Mi apostrofò la voce melliflua di Susan de Clare.

Appoggiai il vassoio sul bancone e sorrisi a Ben che lo ripose nell'acquaio, dall'altro lato.

«Ricambiato, Susan.»

Avevo altre tre frasi con cui avrei desiderato risponderle, ma le avevo dovute scartare con gran rammarico. Grazie al cielo l'istinto di autoconservazione era intatto.

Ben e Emily mi avevano consigliato di ignorarla. Più la si evitava, meglio era.

«Speravo proprio di incontrarti.»

Mi voltai piano, stampandomi in viso un sorriso tirato.

«Mi chiedevo se tu avessi considerato attentamente le tue frequentazioni.» Appoggiò la mano sul bancone e fece un gesto svelto in direzione di Ben.

«Ormai sei qui da settimane, un paio di mesi, più o meno?»

Non risposi, mi concentrai sul sorriso che mi inebetiva le guance. Lei lo considerò un buon segno perché si prese la libertà di continuare.

«Quindi immagino tu ti sia fatta ormai un'idea di chi siano le giuste persone da frequentare e quelle, al contrario, da lasciar perdere.»

«Assomigli molto a Draco Malfoy con questa frase, Susan.»

Mi morsi la lingua. Troppo tardi, non ero riuscita a filtrare in tempo i miei pensieri. L'incontro con Nicholas aveva mandato in pappa ogni briciolo di timore che mi era rimasto.

Fortunatamente mi ignorò. Avrei dovuto imparare da lei in effetti.

«Che ormai Trevor Black si stia divertendo con te, lo abbiamo notato tutti. Ma farsi amica Emily Baker.» Assottigliò le labbra come se avesse appena assaggiato qualcosa di acido. «Ci penserei meglio. Davvero.»

Strinsi forte i pugni ma, poiché le mani mi tremavano troppo, le sollevai sulla testa e mi costrinsi a rifarmi la coda alta.

«Immagino non ti abbia detto tutto, altrimenti non la frequenteresti.»

«Sono a posto con quello che so.»

«Sicura? Perché forse ti dovrebbe interessare, sai-»

«Davvero, Susan, non hai nessun altro da importunare?»

Oddio Sam, calma, respira. Così stai al suo gioco.

«Soprattutto dato che si mormora che tu abbia problemi con Nicholas Kayle Moon.»

E questo chi lo diceva? Ero sicura che non lo sapesse nessuno!

«Vedo che ho la tua attenzione alla fine. Perfetto. Non fare quella faccia, so che hai problemi con Nicholas Moon. Fossi in te terrei ben lontane le amicizie di Emily, per evitare di peggiorare la situazione.»

Emily era una collega e iniziavo a reputarla un'amica. Ma non conoscevo le sue frequentazioni... e perché mai me ne sarei dovuta preoccupare?

Avevo notato il modo in cui tutte le volte che mi trovavo in difficoltà a lavorare sembrava apparire al mio fianco, aiutandomi a rispondere a un cliente impertinente o suggerendomi dove trovare un determinato ingrediente.

Il fatto che non mi cercasse come faceva Alice, mandandomi messaggi, chiedendomi come stavo e condividendo con me sprazzi della sua giornata, non voleva significare che non stessimo diventando amiche.

Con me si stava comportando bene. Le sue frequentazioni non erano affari miei.

«Non mi interessano le tue dicerie, Susan.»

Mi girai per andarmene, ma mi trattene per il polso.

«Fossi in te indagherei. Fai tesoro dei miei consigli.» Mi sorrise, le lunghe ciglia sbatterono come ali. «Ah, dimenticavo! Domani vi è un ordine a domicilio e l'ho assegnato a te.»

Mi passò un foglietto con scritto quello che intesi essere l'indirizzo in questione a cui recapitare l'ordine.

Susan si alzò dallo sgabello, il drink stretto in mano e se ne andò ancheggiando.

La confusione del locale quel pomeriggio era un chiacchiericcio soffuso e pacato, la neve cadeva placida oltre le vetrate.

Chinai lo sguardo sul foglio. Non avevo mai fatto una consegna a domicilio. E seppi che, se era stata affidata a me, un motivo c'era.

Quella fu la ciliegina che venne appoggiata sulla torta a piramide dove Susan, gentilmente, aveva accatastato dubbi, incertezze, sospetti. In una conversazione durata una manciata di secondi, aveva avuto l'accortezza di mandare all'aria ogni parvenza di ordine che avevo acquisito fino a quel momento nella mia mente.

Lessi l'indirizzo con trepidazione, non avrei ripetuto un'altra incursione in casa Moon, nemmeno sotto tortura.

Cercai sulla mappa e l'innocuo indirizzo si rivelò essere quello dell'ospedale di Haywards Heath. L'ordine, come vi era aggiunto in calligrafia frettolosa, doveva essere consegnato alla reception del terzo piano, alle cinque di pomeriggio di sabato tredici novembre. Erano una quantità indescrivibile di caffè e pasticcini.

«Va tutto bene? Hai una faccia.»

Sollevai lo sguardo e rimasi immobile a fissare Emily.

«Credo di sì.»

Fidarsi era una parola che destava sempre il mio sospetto.

Alice non mi aveva chiesto niente in cambio, nella sua amicizia disinteressata, e insieme ad Emily mi erano state vicine con semplicità, aiutandomi ad ottenere il lavoro e donandomi quella parvenza di normalità in quella nuova vita ad Haywards Heath.

Normalità che, per giunta, non avevo mai trovato nella mia vita con le altre persone. Non senza Ivan e mio padre.

Alla prima occasione stavo dubitando di Emily, perché era esattamente quello che la mia mente mi istigava a fare, senza prove concrete per giunta.

Scossi la testa con forza vergognandomi del mio stesso pensiero.

«Chi ti ha accompagnata a lavoro oggi, Emily?»

Paralizzò le pupille nelle mie. Lo scontrino che teneva sospeso fra le dita ondeggiò. La signora che la urtò sorpassandola non la smosse di un centimetro, nemmeno quando si scusò con un sorriso costernato.

«Nessuno-» rispose di getto, una bugia mal celata. «È un amico, solo un amico.»

«Non sapevo tu avessi un ragazzo.»

Si irrigidì. «Come?»

«Trevor lo disse settimane fa quando mi venne a trovare qui, ricordi?»

Le sue labbra rimasero dischiuse e vi lessi una certa indecisione nel modo in cui si incresparono appena. Mi guardò dall'alto della sua figura flessuosa e longilinea.

«Ragazze!»

Ci voltammo verso il bancone dove Ben ci stava chiamando: era entrato un nuovo gruppo di clienti che dovevamo servire.

Emily sistemò la frangia che le ricopriva la fronte, in quel gesto veloce e nervoso che la caratterizzava, e se ne andò verso il tavolo.

Se Susan voleva istillarmi il dubbio, Emily lo aveva confermato: c'era qualcosa di importante che mi stava nascondendo.

L'orario di chiusura arrivò come una benedizione.

Mi dolevano le piante dei piedi, il sudore mi imperlava la base della nuca, avevo desiderio di silenzio e i capelli che continuavano a oscillare e frustarmi la schiena mi davano fastidio.

«Potresti spegnere la musica, Sam?» chiese Emily curva sul bancone dove, con una penna stretta fra le dita, stava scrivendo sull'agenda dopo aver segnato i guadagni giornalieri.

Sciolsi i capelli, iniziando a levare il grembiule. «È nello stanzino accanto all'ufficio, giusto?»

«Esatto.»

Mi diressi a passo svelto. Passai le mani fra le ciocche per donargli completa libertà.

Sorpassai i bagni e raggiunsi l'ufficio. Nella penombra distinguevo a malapena le sagome delle porte: avrei fatto meglio a lasciarle accese quelle luci.

Poi ci fu uno scatto metallico.

Mi pietrificai: proveniva dall'interno dell'ufficio.

Eravamo sole, nessun altro si trovava lì oltre a noi. Mi diedi della sciocca, mi stavo agitando per un nonnulla. Doveva essere solo cascato qualcosa. Mica c'erano i fantasmi.

Distesi la mano verso la maniglia. La musica si interruppe. Il colpo secco riverberò nello stereo, seguito da un lieve crepitio.

Mi immobilizzai: i polpastrelli poggiati sul metallo lucido, il passo incerto sul pavimento.

«Grazie, Sam, non ne potevo più!»

No...

Saliva prosciugata, bocca arida. Oltre quella soglia, qualcuno aveva spento la musica.

Non io.

Il cuore batté così forte contro le costole da sentirlo riecheggiare fin nello stomaco. Ritirai la mano e iniziai a scivolare all'indietro sui miei passi.

Lenta, cauta, silente...

Appoggiai la suola sul pavimento, punta tacco. Respiro soffocato, panico nelle viscere.

Un passo all'indietro, un altro ancora. Dovevo avvertire Emily. Dovevo dirle che non eravamo sole. Dovevamo andarcene da lì.

«Sam

Un altro rumore in fondo al corridoio, oltre la porta.

Un cigolio metallico; la porta si stava aprendo.

No-

Mi voltai, mi aggrappai all'angolo del corridoio e mi issai oltre addossandomi alla parete.

«Sam ma che-»

La corrente nella sala principale si spense. Il buio ci avvolse, una notte di velluto.

Le luci della strada filtravano oltre i vetri delle finestre. Troppo flebili per illuminare tutto a sufficienza.

Acuii i sensi, affinai l'udito e rimasi in ascolto.

Emily doveva trovarsi alla cassa. Il bancone si trovava vicino all'entrata: quella era la via d'uscita migliore.

«Sam?»

La voce di Emily era traballante, incerta, faceva eco sulle pareti in modo grottesco.

Appoggiai le mani al muro e mi lasciai guidare dalla superficie. La tensione mi faceva dolere i muscoli.

«Sam, non è divertente!» La tensione le incrinò il tono.

C'ero quasi. Svoltai l'angolo mantenendo le dita accostate alla superficie del tavolo. Ogni passo mi avvicinava all'entrata.

Un rumore brusco rimbombò nel locale.

Sussultai, trattenni il respiro.

Dei passi distanti; suola di gomma che strideva a contatto col pavimento.

«Sam...»

Non avevo più tempo.

Mi lanciai in avanti, qualcosa mi colpì il fianco. Un passo davanti all'altro: intravidi la silhouette del bancone, la figura slanciata di Emily.

«Ma che-»

«C'è qualcuno!» gridai, terrore nelle sillabe rauche, panico nelle parole stridule.

Uscì da dietro il bancone, svelta, il tintinnio delle chiavi risuonò nell'aria.

Un passo davanti all'altro, c'ero quasi.

«Ecco!» Emily spalancò la porta d'ingresso.

La speranza fu un battito mancato. Lo stomaco una voragine di tremori.

Un passo davanti-

Caddi. Il mondo scivolò giù.

Appoggiai un ginocchio a terra, cozzai in malo modo ma riuscii a frenare la caduta; una scarica di dolore riverberò lungo la tibia.

«Sam!»

«Chiama aiuto!» Le gridai.

Feci forza per rimettermi in piedi; un dolore lancinante alla nuca. Qualcuno mi afferrò i capelli, l'attaccatura sulla nuca bruciò, una fitta mi squarciò.

Qualcosa mi colpì di lato, venni sopraffatta dalla spinta, caddi in modo rovinoso. Dolore diffuso al fianco, sapore di sangue in bocca.

Qualcosa mi afferrò di peso e mi voltò.

La figura che mi si stagliò davanti era impalpabile. Un peso mi schiacciò le cosce a terra e fu ossa contro muscoli, tendini che si fondevano, il pavimento divenne parte del bacino.

La sentivo, l'adrenalina ormai familiare chiamarmi a sé, spingermi a combattere, a gridare, a lottare!

Iniziai a divincolare il bacino, scalciai con i piedi ancora liberi e poi nella follia dell'adrenalina tirai un testata verso l'alto, con tutto lo slancio che i muscoli della schiena mi concessero.

La mia nuca colpì qualcosa e un grugnito fuoriuscì della figura sopra di me.

Ne tirai un'altra, con tutta la forza a cui attinsi, gridai e questa volta la presa sui miei polsi venne meno, il peso che mi inchiodava a terra svanì.

Ero libera.

Mi issai con la mano sulla gambe e mi tirai su. La porta era vicina, poco distante. Afferrai il battente, polpastrelli scivolosi sul legno dello stipite; le iridi incontrarono il lampione, la luce mi ferì gli occhi.

Un spasmo lancinante mi immobilizzò: nella caviglia riverberò un tripudio di dolore, sordo e lancinante. Mancai un respiro.

Una fitta straziante, lacerante; fuoco nelle ossa.

Una figura mi afferrò per le spalle e mi trascinò fuori. Trasalii. Mi resi conto che si trattava di Emily: il suo volto atterrito era a pochi centimetri dal mio.

«Forza!»

Mi tirò con urgenza, ma appena avanzai di un passo il dolore alla caviglia fu così intenso che la gamba non resse il peso. Emily mi passò un braccio attorno alla vita per sostenermi e mi trascinò fino ad un'auto parcheggiata dinanzi.

La stessa da cui l'avevo vista scendere quello stesso pomeriggio. 

Che cosa stava succedendo?


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