13. Mancanza


Real and warm and alive
And not just in my mind

Blood & Muscle - Lissie


C'erano diverse cose a cui mi ero abituata negli ultimi mesi ad Haywards Heath.

Mi ero abituata alle note, scritte in una grafia stretta e scombussolata, che trovavo sul tavolo della cucina ogni qualvolta mia madre usciva di casa.

Mi piaceva il verde che infestava la città, chiazze di pura natura che spuntavano quando giravi l'angolo, quando guardavi nel cortile di una casa o dietro il Wooden Bar; era la città che si trovava in mezzo alla natura e non viceversa.

Stavo imparando a salire in punta di piedi per raggiungere tutti gli scomparti dove riponevamo le stoviglie a lavoro.

Mi ero abituata alle stoccate passive aggressive di Susan de Clare quando arrivava al locale. Sia Emily che Benjamin non proferivano parola, ma li vedevo irrigidire le spalle, farsi irrequieti e sparire nel retro appena possibile.

Ma a una cosa non mi ero ancora abituata: la casa.

Non riuscivo ancora a ricordarmi dove si trovassero gli interruttori e cosa accendessero, quando mi muovevo assonnata nella penombra del mattino continuavo a battere i piedi contro superfici di cui non ricordavo la collocazione.

Trevor era fuori città per un'urgenza di lavoro, non sapevo quando sarebbe tornato. Mi aveva fatto recapitare dei cioccolatini al Wooden Bar. Due volte.

Mi sentivo corteggiata?

Decisamente.

Uscii dalla piscina dell'università col cappuccio sollevato sulla nuca per proteggermi dalla pioggerella incessante.

Mi ero guardata allo specchio quel giorno di shopping con Alice ed Emily e mi ero fatta una promessa. Dovevo combattere se volevo andare avanti sia per me che per mia madre e la prima cosa da fare era rimettermi in sesto. Smettere di non essere padrona del mio corpo.

Mi sforzavo di prestare attenzione a quanto mangiassi; recarmi in piscina ogni giorno era diventata una gioia e una sfida. Ero fuori allenamento, i dolori ai muscoli stavano diventando i miei migliori amici.

Mia madre mi passò a prendere, tutta agghindata. Eravamo invitate a cena dagli Starley. Era una vita che non passavamo un pasto insieme.

Lo stomaco brontolò reclamando la mia attenzione. Sorrisi. Mi veniva fame dopo ogni allenamento. Mi sentivo sulla strada giusta.

«Hai per caso visto se è arrivata qualche bolletta in questi giorni?»

Ovviamente sì e ovviamente l'avevo già pagata io, ma era quello lo scopo di avere un lavoro; non era facile cercare di essere utile finanziariamente senza che lei venisse a scoprirlo.

«No, niente.»

Mamma mi gettò una rapida occhiata. Forse nemmeno si rese conto che i nostri occhi per la fretta non si incontrarono. «Ah ok, eppure è già passato più di un mese da quando siamo arrivate, credevo... Si vede che ho sbagliato.»

Ma erano anni che non mi sentivo guardata per davvero. Sentirsi soli per questo non aveva senso. Non adesso.

«Vuoi un po' di salsa, Sam?» chiese la madre di Alice.

Annuii afferrando il piccolo recipiente in ceramica che mi stava passando.

«È davvero buona, grazie.»

«L'ha fatta Alice, le piace cucinare.» I lunghi capelli castani identici a quelli della figlia erano legati in una coda composta alla base della nuca.

«Ho solo mescolato gli ingredienti sul fuoco, chiunque lo può fare» ribatté lei lanciando uno sguardo divertito a sua madre.

Erano due gocce d'acqua, gli occhi azzurri grandi e puliti. Mentre la madre aveva gesti veloci e decisi, Alice era più pacata e delicata.

Casa loro era una villetta in centro, molto moderna rispetto alle costruzioni circostanti e decisamente più grande della media. Il giardino posteriore ospitava una veranda chiusa da pannelli in vetro. Stavamo mangiando proprio lì. Uno stereo, che non sapevo bene identificare dove si trovasse, trasmetteva le note dolci e lente di una musica senza parole.

Mia madre aveva un viso radioso nonostante le marcate occhiaie. Era davvero bella con quei capelli ambrati sciolti sulle spalle, gli occhi verdi intensi e cangianti; nonostante il suo fisico si fosse asciugato, patito, la sua figura rimaneva armoniosa.

Aveva sempre emanato quel fascino, fin da piccola avevo desiderato somigliarle. Parlava con i coniugi Starley di ricordi della loro adolescenza. Ci avevano coinvolti tutti, facendoci ridere di gusto. Erano andati tutti e tre a scuola insieme, università compresa.

«Posala, Robert, ti ho visto!» Lo bloccò la moglie.

Il suddetto rimase con una mano a mezz'aria sul tavolo, lo sguardo colpevole, colto in flagrante. «Non è colpa mia se questa salsa è sublime.»

«Robert. L'hai mangiata tutta tu!»

«Per forza, siete delle chef nate.» Afferrò la salsa che gli stavo allungando di nuovo.

«Almeno offrila agli altri, prima.»

«Giusto: chi ne vuole un po'? Vi avverto, se la finite dovrete vedervela con me però.»

Le risate generali furono accompagnate dalla madre di Alice che scuoteva il capo, fintamente disperata.

Ed ecco che un calore mi scaldò dall'interno del petto, qualcosa che non aveva niente a che fare con il tepore dei termosifoni. No, era qualcosa di più profondo che mi fece pizzicare le guance mentre mi accorgevo che stavo sorridendo. Tanto e per davvero.

Alice, accanto a me, si alzò per sparecchiare e così mi offrii di aiutarla, nonostante le vive proteste di sua madre. Tornammo poco dopo con la mia torta, alcuni pasticcini e del gelato.

La tagliai e la distribuii nei piatti mentre il vassoio con i bignè girava tra i presenti.

«Oh-oh...» esclamò Alice, le dita premute sulle labbra. «Devi sapere, Sam, che tutto ciò che contiene il cacao è molto ambito in famiglia.»

Sul vassoio era rimasto un ultimo bignè, al cioccolato.

«Tesoro mio, tu hai finito la salsa, quindi mi tocca di diritto. Sempre se non lo vuole qualcun altro.» Si affrettò ad aggiungere regalandoci un sorriso gentile.

«Potrei gareggiare anche io.» Si intromise Alice.

«La nocciola è tutta tua, tesoro, come sempre. Ma non ti intromettere nelle questioni di cioccolato.»

«Siete dispotici voi due.»

«Ed è per questo che ci ami, tesoro, così come siamo.»

Il padre fu svelto e rubò il dolce da sotto il naso della moglie. Le risate e le esclamazioni di stupore si levarono da ognuno di noi mentre osservavamo l'espressione raggiante di Robert.

«Mai distogliere gli occhi dall'obiettivo. È la prima regola in battaglia!»

La madre di Alice si intristì. A quel punto Robert, con la bocca già spalancata e il bignè in traiettoria d'atterraggio, si fermò. Il dolce intatto tra pollice e indice.

«Ti amo troppo, Adele.» Le allungò il pasticcino sul palmo della mano. «Sarai la mia rovina!»

Adele, con l'aiuto del coltello, lo divise a metà e ne donò un pezzo al marito.

«Fanno sempre così. Non vince mai nessuno, vincono sempre entrambi» sussurrò Alice.

Voltai lo sguardo verso capotavola, dove mia madre sedeva.

La stretta allo stomaco mi svuotò. I suoi occhi di rugiada erano traboccanti lacrime. Non riuscì a celarlo. Non c'era modo di nasconderlo.

Gesti teneri e risate a fior di labbra, la collana corallo, baci sui capelli, balli nel salotto di casa.

Tossii, incamerai aria. L'attenzione convergette su di me. Convinsi tutti che mi fosse andata di traverso dell'acqua e di sottecchi controllai che mia madre si fosse ricomposta.

«A proposito, dopo il college di Brighton dove vi siete trasferiti, Amy?»

La madre di Alice, troppo tardi, lanciò un'occhiata carica di sottintesi al marito. Ormai la domanda era uscita. Ci fu un attimo d'attesa dove nessuno proferì parola: mi chiesi cosa avesse raccontato mia madre alla sua amica, quanto le avesse detto.

«Qua e là.» Buttò fuori mia madre, lo sguardo smarrito. «Mi spostavo dove c'era lavoro, gli infermieri sono molto richiesti in tutto il paese. Quando poi ventun anni fa è nata Samantha, abbiamo cercato un posto dove sia io che suo padre riuscissimo a muoverci bene. Molti sacrifici ma almeno potevamo essere a casa a turni. Sai, Nathan-»

Lo aveva detto. Il suo nome.

La mano le rimase bloccata a mezz'aria. L'indice sollevato. L'anulare disadorno dalla fede.

Aveva smesso di indossarla e non me ne ero accorta.

Rimanemmo tutti immobili, le labbra di mia madre ancora dischiuse. La confusione dipinta sul volto, il dolore le aggrinzì la bocca.

Non lo aveva più nominato. Non ne avevamo più parlato.

La sofferenza le scurì le iridi, divenne una statua.

«Sam è un'atleta!» gridò Alice.

«S-sì... cioè no. Mi piace nuotare ma non voglio gareggiare, né altro. C'è una piscina all'università, vedeste che bella! Porterò Alice a provare con me.»

Lanciai un'occhiata di sottecchi alla mia amica, avevo detto la prima cosa che mi passava per la mente.

La sua mano stringeva la mia e, con sgomento, solo in quel momento capii perché.

Le sue dita si erano frapposte tra le mie unghie e il mio palmo, dove una chiazza rossastra che somigliava a una escoriazione stava sorgendo.

Ero stata io? Senza accorgermene?

«Sì, è proprio l'ora che mi metta a fare qualcosa.»

«Piscina, Alice? Credevo che non ti piacesse nuotare. Bene, no? Fare un po' di movimento è importante.»

Mamma si era persa di nuovo, aveva nascosto le dita in grembo. Ma la mancanza l'avevo notata. E non c'era rimedio alcuno per far finta che entrambe non ci stessimo pensando.

Papà.


Le stelle rilucenti illuminavano il soffitto della mia camera. Tirai le coperte fin sopra la testa per scappare alle loro grida. Avevano chiuso la porta, come facevano ultimamente.

Strinsi forte la presa sul peluche delfino che mi avevano appena regalato mamma e papà. Avevo ancora sulla lingua il sapore della torta di compleanno con i frutti di bosco, quella che piaceva a me. Papà mi aveva aiutato a spegnere le otto candeline, mentre la mamma aveva riso dietro la macchina fotografica.

Eravamo rimasti insieme tutta la sera, fino a quando avevo iniziato a sentire gli occhi pesanti; ma io non volevo andare a letto! Lui sarebbe partito la mattina dopo, per un altro lungo viaggio di lavoro.

Non volevo che partisse, non volevo che andasse via e mi lasciasse da sola con la mamma. Perché lei diventava triste quando lui non c'era e io non parlavo con nessuno, perché solo lui mi capiva...

«Non ne posso più, Nathan, questa non è vita! Te ne vai per settimane, non sei rintracciabile, stai più tempo a lavoro che con me. E non mi dire che non ci puoi fare nulla, lo so! Dio santo, lo so che è lavoro ed è importante!»

Papà rispondeva, ma la sua voce era più trattenuta, più bassa.

«Non mi interessano le tue motivazioni, sono stanca, Nathan! Lo capisci!? Sono stanca di vivere questa vita dove sembra di nascondersi costantemente! È da quando Sam è nata che viviamo così!»

Strinsi forte il pupazzo di pezza e cantai sottovoce tanti auguri, cercando di non ascoltare.

«Tua figlia non parla, Nathan! Credi che sia normale questo? Ha otto anni per la miseria, non due! E sai perché non parla? Perché non è mai andata a scuola con altri bambini, perché non sa socializzare. Ed è tutta colpa tua! Lo capisci?»

Ma io parlavo con papà. Non era colpa sua.

Io sapevo parlare. Ma tutti mentivano. Perché dovevo parlare con persone che mentivano?

Papà era l'unico che mi guardava negli occhi e capiva. Sempre. Quello che diceva lo intendeva per davvero. Di lui mi fidavo. Solo di lui mi fidavo.

«Domattina iscrivo Sam a scuola, Nathan, non mi interessano le sue motivazioni!»

Sì! Andare a scuola era sempre stato il mio sogno; era sempre stata la mia speranza...

Se fossi andata a scuola, con gli altri bambini, forse sarei riuscita ad avere degli amici; come nei film che vedevo e nei libri che leggevo.

La mia insegnante privata mi aveva detto: "chi trova un'amico trova un tesoro."




NDA:


E voi cosa credete sia successo a Sam?

Buona giornata,

Silvi


Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top