Insane, inside
the danger gets me high
Can't help myself
got secrets I can't tell
Sam Tinnesz - Play with Fire
No, non avevo indossato l'abbigliamento comprato poco prima al centro commerciale perché non sapevo se volevo che Trevor mi saltasse addosso.
No, non avevo rivelato niente alle ragazze, troppo confusa e inquieta per avere il coraggio di parlarne.
No, la mia mente sembrava in stand by, percorreva un labirinto sontuoso e buio in cui i miei pensieri si mescolavano, perdendovisi. Non avevo risposte.
Non riuscivo a togliermi dalla mente l'espressione di Nicholas quando gli avevo chiesto cosa voleva davvero da me. Mi ero persa nelle sue iridi nel tentativo di decifrare il suo obiettivo.
Passai una mano sul volto e sospirai.
«Hai una cattiva cera, Rossa.» Constatò Trevor quando il cameriere ci lasciò da soli al nostro tavolo.
«Lunga giornata.»
La camicia che indossava gli fasciava le spalle a tal punto che mi chiesi se, facendo un gesto brusco, il tessuto si sarebbe strappato.
Ci trovavamo in una sala privata, sedevamo su una rustica ma elegante panca a forma di ferro di cavallo che costeggiava i tre quarti del tavolo. Botti di vino erano addossate alla parete creando un design sofisticato che rievocava un'atmosfera d'altri tempi.
«Ti piace?» domandò Trevor sporgendosi oltre il tavolo. «Un po' di intimità è l'ideale per conoscersi meglio.»
Mi passò il menù e scivolò sulla panca per leggere da sopra la mia spalla. La sua mano si depositò in modo casuale sulla mia gamba. Decisamente non aveva problemi con l'approccio fisico.
La lasagna che ci servirono come primo era così ricolma di sugo da straripare, fortuna voleva che, come ogni ristorante altolocato, le porzioni non fossero troppo abbondanti.
Il secondo non avevo idea di cosa contenesse nel dettaglio, notai solo il modo in cui Trevor rise alla mia riluttanza del tortino di verdure che mi trovai davanti. Ne condividemmo un paio, sotto sua richiesta. Non capii bene di cosa fosse fatto, ma il sapore era delizioso.
Il cameriere giunse a sparecchiare. Ringraziai in modo cortese e mi sistemai meglio sulla seduta. Trevor stava di nuovo messaggiando al telefono.
«O sei molto impegnato o ti stai annoiando.»
Lui sospirò prima di riporre l'oggetto in tasca.
«Scusami. Lavoro, ho decisamente troppi impegni. Mi divido in quattro pur di fare tutto, soprattutto quello che mi interessa di più.»
Ammiccò facendomi sciogliere un pezzo di ragione, così, con uno sguardo.
«Che tipo di ruolo svolgi nell'azienda?»
«Per lo più manageriale: controllo che i compiti vengano svolti come richiesto, progetto ciò che faremo nel futuro. In effetti mi piace molto.»
«Scartoffie e pianificazioni quindi?»
«Lo dici come se fosse una brutta cosa. Ma ti garantisco che è tutto fuorché noioso.» Ma basta parlare di lavoro.» Appoggiò la mano sulla mia gamba. «Oltre a studiare e lavorare al bar, quali altre passioni hai, Rossa?»
I suoi polpastrelli accarezzarono la zona sensibile dietro il mio ginocchio.
«Passioni?»
«Sì, cosa ti piace fare. Poiché si vede che hai sofferto e che sei rigida. Dimmi cosa ti appassiona, così lo facciamo insieme e ti leviamo quello sguardo perso dagli occhi.»
Mi zittii, colta alla sprovvista.
«Non guardarmi così. So capire le persone, Rossa, è per questo che sono bravo nel mio lavoro. Per esempio: non hai finito nessuno dei piatti che abbiamo mangiato. O non ti piacevano o hai lo stomaco chiuso. In più ogni volta che nominiamo alcuni argomenti ti rabbui e quando ti tocco.» Le sue dita si inoltrarono con decisione sotto il mio ginocchio, imprimendosi nella pelle tenera oltre la stoffa.
«Hai due tipi di reazione molto diversi tra loro: ti irrigidisci eppure ti spingi verso di me.»
Ma che...
«Come immaginavo: non lo avevi notato.» La sua mano salì sulla mia coscia, dall'interno. Qualcosa si infiammò a ogni suo tocco. «Vedi: se non ti piacesse ti sposteresti. Invece non lo fai.»
Le sue labbra mi sfiorarono la guancia, l'accenno di barba mi pizzicò la pelle tenera.
«Hai chiuso gli occhi, giusto?»
Li spalancai mentre lui si discostava da me. Sorrise, soddisfatto.
«Questo significa che non vedi l'ora di lasciarti andare. Quindi la domanda è: perché non lo fai?»
«Non lo so...»
Il cuore mi batteva all'impazzata, mi sentivo disarmata e confusa.
«Mhm. Ripartiamo: mi chiamo Trevor, ho ormai un quarto di secolo, vado matto per la bistecca alla brace e ho la passione per gli orologi meccanici. Vedi?» Mi mostrò ciò che indossava al polso. «Detesto i kiwi perché mi pizzicano la lingua e da quando ti ho incontrata il rosso è diventato il mio colore preferito.» Il suo fiato caldo mi sfiorò la guancia. «Voglio conoscerti, Sam, ma non voglio farti sentire a disagio, quindi torniamo alla mia domanda iniziale. Cosa ti piace fare?»
«Non saprei: è da un po' che non faccio qualcosa per me.»
La sincerità delle mie parole fu uno shock. L'avevo detto davvero.
«Allora pensa a qualcosa che facevi prima di trasferirti e che ti manca fare.»
«Nuotare.»
Rise, un suono accattivante che sarei stata per ore ad ascoltare. «Immaginavo qualcosa del genere.» Mi afferrò la mano e si alzò dalla panca. «Andiamo, ti porto a nuotare, Rossa.»
«Adesso?»
«Adesso.»
Non pagammo il conto. Protestai, ma Trevor fece un cenno del capo al cameriere alla cassa e questo rispose annuendo.
Mi chiesi se fosse frutto della nomea dei Black, come mi aveva rivelato Alice. La conferma giunse quando, dopo un paio di messaggi che digitò mentre guidava, senza distrarsi per un secondo di troppo dalla strada, arrivammo alla mia università, avvolti dal buio della sera.
«Non possiamo entrare...»
«Io posso.»
Estrasse delle chiavi con cui sbloccò la serratura, il lieve cigolio fu l'unico rumore intorno a noi.
Entrammo in silenzio. Mi sentivo una ladra. Una ladra traboccante adrenalina. E dio quanto l'amavo questa sensazione di potenza.
Trevor incrociò le dita alle mie e mi guidò, lanciandomi occhiate di sottecchi. Passammo dalla porta a vetri che si aprì docile sotto le sue spinte e l'odore di cloro ci pizzicò il naso. Osservai i tenui bagliori delle luci sul fondo della piscina: illuminavano l'acqua di striature bianche e azzurre,rendendola magica.
«Non ho il costume.»
«Immagino tu non sia nuda sotto quei vestiti.» Ammiccò, lo sguardo penetrante. «Mi pare giusto, prima io.»
Iniziò a sbottonarsi la camicia, un bottone alla volta. Scoprì la pelle con lentezza e quando rimase a torso nudo, il suo petto muscoloso e definito mi fece aggrovigliare il ventre.
Mi umettai le labbra, l'afa della piscina che non mi aiutava per niente.
Lo sguardo di Trevor scese e si arpionò a quel movimento.
Poi continuò il lavoro, raggiungendo la chiusura dei jeans e sbottonandoli uno a uno. «Che fai resti a fissarmi o vuoi che ti aiuti?»
Mi riscossi, proseguendo fino a rimanere solo con il reggiseno nero e gli slip. Legai i capelli in una coda alta.
Mi accorsi che mi stava studiando, ogni curva e angolo di pelle esposto. Feci altrettanto: era rimasto con dei boxer che lasciavano ben poco all'immaginazione. Iniziai a ribollire.
Mi avvicinai al bordo della piscina, il materiale ruvido mi grattò le piante dei piedi.
«Se ormai abbiamo infranto le regole.»
Mi tuffai. Il contatto con l'acqua mi tolse il respiro. Nuotai, i suoni si ovattarono. Dio, quanto mi era mancato: quella sensazione di perdersi ed essere padrone del proprio corpo, quel silenzio.
I polmoni pompavano aria a bracciate regolari, i muscoli delle spalle bruciavano inebriati, le gambe scalciavano a ritmi precisi. Riemersi assaporando la dolcezza dell'aria, incurante dell'affanno, dell'indolenzimento e dei capelli umidi che mi si appiccicarono alla schiena.
Trevor mi raggiunse. Aveva i capelli tirati all'indietro sulla nuca, lo sguardo ammaliante che aveva assunto una sfumatura tremendamente eccitata.
«Ti piace?»
«Non sai quanto» mormorai.
«Si vede.»
I miei pensieri fluttuavano, distanti. Il dolore era un ricordo di un corpo non mio e la sofferenza non mi poteva raggiungere, lì.
«Come ti senti ora?» Le gocce ruscellavano sul suo corpo disegnando sentieri tortuosi e proibiti.
«Viva.»
La sua mano mi modellò il fianco. «E come vuoi sentirti?»
«Viva.»
La sua bocca cercò la mia. Ed ero pronta a sbarazzarmi di ogni razionalità composta che mi affossava. Ero trepidante e scoppiante di quel bisogno di perdizione che Trevor mi suscitava.
Mi trasse a sé, le mani che stringevano e mi palpavano. Mi lasciai andare, mi lasciai modellare. Afferrò il mio fondo schiena e mi premette contro di sé, bacino contro bacino. Gemetti.
«Questo non era un verso di piacere» appurò, il respiro affannato.
«Non è niente.»
«Non mi pare affatto niente.»
Un braccio mi avvolse le spalle e l'altro passò sotto le ginocchia, un istante dopo mi issò sul bordo della piscina.
«Non ce n'era bisogno-» protestai.
«Se non vuoi che la piscina diventi un lago di sangue.»
Come?
Si issò sul bordo con un pompare di bicipiti da vertigini; l'acqua accompagnò il movimento con un ticchettio ripetuto. Voltò il mio avambraccio, mostrandomi un'escorazione da cui piccole gocce rossastre fuoriuscivano.
«Aspetta qui.»
Non riuscii a distogliere lo sguardo dalle sue spalle possenti finché non sparì oltre una porta a vetri. Quell'appuntamento stava superando tutte le mie aspettative.
Un rumore rimbombò per la piscina.
«Trevor?»
Il suono della mia voce si spense nel silenzio, al ritmo del mio cuore inquieto.
Nessuna risposta.
Un clangore metallico. Sfregamento di oggetti.
Mi sollevai di scatto.
La penombra diventò densa, il caldo affannoso della piscina mi trangugiò l'aria.
«Trevor?» La mia voce riecheggiò nella semioscurità.
Un altro suono appena accennato, poi crebbe, si avvicinò, riecheggiò nella cupola della piscina, rimbalzò tra le pareti.
Mi si accapponò la pelle, divenni colla negli arti e singulti nel cuore.
Non vedevo. Non capivo.
Indietreggiai verso la direzione in cui era sparito Trevor.
Il rumore si interruppe di colpo.
Trattenni il respiro.
Qualcosa si mosse al margine del mio campo visivo.
Scivolai, gridai e caddi.
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