Sconosciuto.
"Mantenere l'equilibrio di fronte alla fatalità,
sopportare con grazia le condizioni avverse
è più di una semplice costanza:
è un atto di aggressione, un vero trionfo."
Thomas Mann.
Erano le quattro del mattino quando Deva fu svegliata bruscamente all'interno della sua camera al Bittersweet Hotel dalla suoneria del suo cellulare. Allungò la mano verso il telefono poggiato sulla mensola accanto al letto, cercando di mettere a fuoco il nome della persona che la stava chiamando a quell'ora della notte: numero sconosciuto. La ragazza ebbe un sussulto e si mise a sedere prima di rispondere alla telefonata.
«Pronto?» rispose, gli occhi ancora socchiusi e la voce assonnata.
«Conosco il tuo segreto» disse una voce maschile fredda dall'altro capo del telefono. Deva si sentì come se qualcuno le avesse appena sferrato un forte pugno allo stomaco e la mano che stringeva il telefono iniziò a tremare, ma prima che riuscisse a mettere insieme una frase, l'uomo chiuse la telefonata.
Era paralizzata, seduta sul letto con la schiena contro la testata, mentre con le braccia stringeva le ginocchia al petto. Il volto della ragazza era apparentemente rilassato, nessuna traccia di paura, ma dentro di lei regnava la tempesta. Cercò di tranquillizzarsi: in fondo poteva essere solo uno scherzo, qualcuno che voleva farla spaventare e ha tirato a indovinare... chi poteva conoscere il suo segreto e ricattarla a quell'ora della notte? Dopo tanti anni, tra l'altro.
Fece fatica a riaddormentarsi quella notte. Continuò a camminare avanti e indietro per la sua camera, cercando di ripercorrere i momenti più significativi di quelle ultime settimane, ma niente di ciò che pensava Deva era riconducibile al suo segreto. A dire il vero, oltre il progetto al Bittersweet e Ben, non era successo niente di speciale nell'ultimo periodo, e lei non ne aveva parlato con nessuno. Non sapeva se avere più paura che lo scoprisse il suo capo o Ben stesso.
Quando si svegliò per andare a lavorare il suo umore era più cupo che mai. Cercava di non pensarci mentre dava direttive ai tecnici della luce e sistemava le ultime cose nella sala conferenze: mancavano pochi giorni all'evento ed era tutto pronto, se non per le ultime verifiche. Non si era mai sentita così nervosa: quello era il primo lavoro veramente importante della sua carriera e, se non fosse stato per la supervisione di Nesbitt, poteva dire di aver orchestrato tutto lei da sola. Non solo non voleva deludere il suo team e le persone che sarebbero venute alla mostra, ma soprattutto non voleva deludere le aspettative di Ben. Prima che uscissero insieme Deva poteva giurare che a lui importasse ben poco di quel progetto, ma adesso le cose erano cambiate.
Sentì il telefono vibrare nella tasca posteriore del jeans e avvertì una fitta al cuore. Si allontanò dal gruppo di colleghi guardandosi intorno, infastidita da quel senso di paura che la pervadeva. Non poteva sobbalzare ogni volta che riceveva un messaggio, avrebbe finito per impazzire. Sfilò il telefono dalla tasca, un sms:
«Incontriamoci a Primrose Hill stasera alle 7. Vieni da sola».
Ancora una volta, Deva era rimasta paralizzata. Questo gioco non le piaceva e aveva seriamente paura che qualcuno sapesse la verità. Non sapeva chi potesse essere, e non sapeva che cosa volesse a distanza di anni. Nonostante la paura la immobilizzasse, era troppo curiosa per lasciare stare, soprattutto se questa persona misteriosa sapeva la verità.
Decise di stare al gioco e alle sette si presentò al parco di Primrose Hill, sfidando la pioggia e il fango. Il parco era semideserto ma illuminato, il ché la rincuorava, ma più si addentrava più si pentiva di quella scelta. Notò in lontananza un uomo seduto da solo su una panchina, che non appena la vide si alzò e le fece segno di avvicinarsi. Deva aveva ripreso a tremare.
«Chi sei?».
«Non importa».
«Che cosa vuoi da me?».
«Io so il tuo segreto, Deva Thompson».
L'uomo raccontò la vicenda in modo dettagliato: sapeva davvero tutto. Deva non riusciva a capire come uno sconosciuto spuntato dal nulla potesse sapere, ma aveva di fronte la pura verità. Lacrime di rabbia rigavano le sue guance arrossate dal freddo, mentre avrebbe voluto soltanto urlare e picchiare quell'uomo con tutte le sue forze.
«Cosa vuoi?».
«Devi lasciare in pace il signor Barnes, Deva cara. Una ragazzina così insignificante dovrebbe stare lontana dagli uomini importanti».
«Sai, a Ben piacciono le donne, che io sappia».
«Non sono innamorato del signor Barnes, tranquilla. Ci sono questioni più grandi di te in ballo e devi farti da parte. Altrimenti il tuo segreto verrà rivelato, e non credo che riuscirai a vincere contro un team di avvocati come il nostro».
Deva non riusciva a crederci. Cercava di trattenere le lacrime, ma era più forte di lei. Non capiva perché la stesse ricattando, usando un'arma a doppio taglio: da un lato la paura di essere scoperta, dall'altro quella di perdere Ben.
«Cercami su questo numero quando avrai deciso» concluse l'uomo, porgendole un bigliettino, «sono certo che farai la scelta giusta».
Nella strada di ritorno verso l'hotel, Deva stringeva forte nella mano quel bigliettino come se da un momento all'altro glielo potessero rubare. Una grafia sottile ed elegante aveva scritto il suo numero di telefono con tanta perversione e cattiveria che Deva riusciva a percepirle attraverso la sua pelle; i bordi del cartoncino erano decorati dal disegno di una cornice antica, mentre in basso a destra vi era scritto "think" con un asterisco al posto del puntino sulla i.
Era colma di rabbia e odio nei confronti di quella persona che la stava ricattando, ma soprattutto verso sé stessa, che già sapeva avrebbe accettato il patto per salvaguardare Ben... perdendolo.
*
L'ultimo giorno Ben si risvegliò solare nell'albergo di famiglia a Nizza, l'Hotel Belle Vue, posto a pochi metri di distanza dalla spiaggia. Il suo buon umore si mantenne anche quando, una volta in piedi, si affacciò al balcone panoramico della sua suite francese: il mare invernale in tempesta lo affascinava come poche cose. Fu il primo momento della giornata in cui pensò a Deva, e con un sorriso andò a prepararsi del caffè. Il fine settimana era volato via in fretta e Ben quel pomeriggio sarebbe tornato a Londra, e il giorno dopo era il grande giorno della mostra.
Sua madre lo aveva chiamato per firmare una partnership di sei mesi con una catena di alberghi tedesca e Ben, anche se riusciva a intravederne l'opportunità lavorativa, ne fu quasi deluso. Proprio da quella specie di delusione si accorse che stava piacevolmente perdendo il controllo della situazione con la progettista, ma Ben sapeva che doveva tenerla alla larga dalla sua mente quando c'erano questioni lavorative di mezzo. Ma come fare?
La vedeva ovunque, la pensava ogni volta che notava qualcosa che le sarebbe piaciuto, non vedeva l'ora di tornare a casa e baciarla. Baciarla! Si sentiva un sedicenne alle prime armi, da quando in qua la prima cosa da fare che gli veniva in mente era baciarla?
Preparare i bagagli non era mai stato così facile. Quando arrivò all'aeroporto di Luton si sentiva così euforico che non riuscì ad aspettare e le mandò un messaggio:
«Trenta minuti e sono a casa. Vediamoci sul tetto».
Nei giorni passati non l'aveva contattata per non interferire con gli ultimi preparativi. Sapeva che doveva essere stanca e stressata, ma sapeva anche che rivederlo quella sera l'avrebbe fatta riprendere e che - anche se non lo avrebbero mai ammesso - si erano mancati.
Le porte del Bittersweet Hotel si aprirono e Ben non era così felice di tornare a casa da tanto tempo. Salutò in fretta i suoi colleghi e corse nella sua suite a cambiarsi per raggiungere il tetto. Perse qualche minuto per salutare Tonic che continuava a saltargli addosso, poi finalmente lasciò la stanza e salì le scale fino al tetto. Aprì la porta blindata e, quando uscì nel freddo glaciale della prima notte di dicembre, fece attenzione a non chiudersela alle spalle, nonostante avesse la tessera con sé questa volta.
Passarono dieci minuti e di Deva non c'era ancora traccia. Decise di aspettare e non insistere con un altro messaggio, sarebbe arrivata, lo sapeva. Passarono altri dieci minuti e l'euforia di Ben si era spenta, portando un senso di preoccupazione misto a nervosismo. Poi la porta si aprì e il suo sorriso si allargò di nuovo sul volto, ma durò pochi secondi.
«Stai bene?» le chiese andandole in contro, ma lei lo fermò indietreggiando, lo sguardo funereo.
«Dobbiamo smettere di vederci» disse, la voce spezzata e gli occhi lucidi, «stammi lontano».
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HOLA! Rieccomi, le cose si complicano, tanto per cambiare. Devo ammettere che sto amando scrivere questa storia e non è per nulla scontato, e principalmente grazie a voi che mi dimostrate il vostro interesse e affetto. Davvero, come ho già detto una volta, supportarsi e aiutarsi tra scrittori è una cosa meravigliosa! E ovviamente lo è anche ricevere supporto da lettori. Sono sempre ben accetti consigli su come migliorare, anche critiche. Ma torniamo a noi: sappiate che questa storia non durerà 100 capitoli, ma siamo ancora un po' distanti dalla fine, quindi se avete suggerimenti fatelo ora o tacciate per sempre! Grazie con amore sempre.
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