Capitolo 7



Bonnie camminava al centro del corridoio, diretta verso l'uscita principale della scuola, lo zaino in spalla e i jeans attillati che catturavano l'attenzione dei ragazzi poggiati contro gli armadietti. Aaron gli stava appena dietro, e allungò il passo per raggiungerla.

«Vai sempre così di fretta» fece il ragazzo, riprendendo fiato.

«Sai che ho da lavorare alla tavola calda» ribatté Bonnie, che continuava a camminare guardando davanti a sé.

«Non salterai di nuovo le prove delle cheerleader?»

«Se anche le cheerleader mi pagassero, preferirei comunque lavorare dai Rutherford.»

«Chiaro.» Aaron temporeggiò un momento e le afferrò un braccio per rallentarla. «Aspetta. Sei arrabbiata per quella sera

«Avrei qualche motivo per esserlo?» replicò a sua volta Bonnie.

«No... cioè, forse sì.» Aaron si passò una mano fra i capelli. Non aveva ben capito se si trattasse o meno di una domanda retorica. «Non lo so.»

«Non darti troppa pena, nessuno lo fa mai.»

«Che hai fatto con Blythe?»

Stavolta Bonnie si arrestò, voltandosi verso di lui. Erano ormai nel giardino scolastico, l'aria che proveniva dai boschi pizzicava il volto di Aaron, che provò così a nascondere parte di esso sotto la sciarpa blu. «Non sono arrivata in terza base, se è questo che ti interessa.»

«Se mi interessa? Mi interessa, sì.»

Bonnie sospirò. «E' quello che faccio, lo sai. Persino tu – e mi conosci da così poco – me lo hai reso ben chiaro, quella sera.»

«No Bonnie, ascolta: non è quello che intendevo. Smettila di ripeterlo. E' che...» Aaron puntò lo sguardo sul campo da football alla sua destra e, ancora più in fondo, lo fissò sul bosco, sperando che la risposta potesse pervenire oltre di esso. «E' difficile.»

«Immagino lo sia sempre.» Bonnie si guardò i piedi. «Devo andare. Ma sta' tranquillo, anche senza questa forma embrionale di scuse e spiegazioni, non me la sarei presa con te per la faccenda di Lotte, o di qualsiasi altra cosa si tratti.»

«Non si tratta solo di sensi di colpa-»

«-andiamo, Aaron. Possiamo ancora vederci, e sai dove trovarmi.» Così dicendo, Bonnie gli baciò con delicatezza la guancia, sfiorandogli le labbra, e se ne andò lungo la via.

*

Riempito frettolosamente lo zaino con quanto di necessario, Aaron salutò Olivia e i suoi genitori, in piedi sulla soglia d'ingresso del motel, e salì sull'auto di Garrett. Seduto sul sedile posteriore, Blythe lo salutò senza alcun segno di entusiasmo. «Ancora non capisco perché dobbiamo viaggiare con questo apriscatole» borbottò esasperato.

«Perché siamo in democrazia, due voti contro di uno è la maggioranza. Aaron sa apprezzare i viaggi on the road e dovresti farlo anche tu!» esclamò con un certo entusiasmo Garrett alla guida.

Diretti a Pittsburgh, dove avrebbero visto la partita di NFL degli Steelers, i tre lasciarono la città di Edwynville, accompagnati da Baby it's you dei Beatles e da tutto il repertorio di canzoni di Garrett.

Ogni qual volta si lasciavano alle spalle i rilievi e i boschi, davanti a loro la strada prendeva a srotolarsi senza alcuna apparente fine nell'orizzonte del tramonto arancio e fece provare ad Aaron il brivido della fuga e dell'ignoto, capace di distoglierlo dall'inquietudine sempre vigile nel suo animo. Sempre più trepidante, persino Blythe si dimostrò una compagnia non troppo difficile da sopportare, per quanto raro fosse per lui avere un personaggio così accanto. E poi, cosa più importante, Aaron cercò di tenere sempre a mente che si era ritrovato ad essere lì solo e soltanto per merito suo e di Garrett.

Dopo oltre due ore, i tre raggiunsero la città di Pittsburgh, riuscendo ad ammirarne l'imponenza dei grattacieli illuminati nel buio del crepuscolo. Costeggiarono un lungo tratto del fiume Allegheny, passando per il Children Museum e il Community College of Allegheny Country, del quale Garrett sembrò conoscere la storia quasi per filo e per segno. Poco più avanti raggiunsero la meta, l'enorme stadio Heinz Field, ed Aaron poté rendersi conto, una volta di più, della posizione di influenza che la famiglia di Blythe ricopriva, nel momento in cui fu concesso loro di saltare la lunga fila di tifosi all'ingresso per accedere allo stadio da una porta di servizio.

La partita vide i padroni di casa emergere sugli avversari, i Cincinnati Bengals, producendo un entusiasmo generale fra gli oltre sessantamila tifosi degli Steelers presenti quella sera. Garrett guidò gli altri due verso l'auto nel parcheggio, inneggiando a cori di cui non conosceva le esatte parole, con stridore nella voce e poca sobrietà nei movimenti.

«Togliamoli quella birra, prima che degeneri» intervenne Blythe.

Aaron rise. «Lascialo fare, guiderò io.»

«Ah no, no, ragazzi, non torneremo mica a casa!» Garrett si voltò verso di loro, facendo ruotare per aria la sciarpa degli Steelers acquistata poco prima del match. «Blythe, avevi promesso di portarci in quel locale dove vengono serviti cocktail caraibici da donne in bikini!»

«Ti ho già detto di sì, ma stai pure certo che non sei il loro tipo.»

Dopo aver pagato una cospicua somma di denaro per accedere al locale, i ragazzi fecero il loro ingresso al suo interno. Garrett cominciò da subito a muovere la testa e i piedi a ritmo di musica, Blythe si diresse al bar, esasperato dalla vista del compagno, ed Aaron osservò da un angolo il contesto della sala. Le luci violette si muovevano con rapidità all'interno dello spazio buio, un dj stava in piedi di fronte alla sua piattaforma e alla strumentazione, su un piano rialzato rispetto all'ampio quadrato da ballo. Aaron aspettò che Blythe si allontanasse dal bar per potersi avvicinare lì a sua volta, senza dover condividere con lui un imbarazzante silenzio, nonostante la caoticità della musica.

Mezz'ora dopo, se ne stava ancora poggiato al lungo e variopinto bancone, ordinando il suo terzo cocktail.

«Fammi un altro Daiquiri, grazie.» Poggiò la banconota spiegazzata nella mano della giovane barista e si voltò con la vista della pista da ballo davanti agli occhi. Si chiese dove fossero le ragazze in bikini, prima di accorgersi che Garrett aveva raggiunto la piattaforma sopraelevata del dj, tenendo in alto fra le mani due cicchetti di qualcosa, e muovendo i fianchi inesistenti sbadatamente da una parte all'altra. Un tipo robusto del personale, vestito di nero, lo fece scendere senza strattonarlo troppo, e Garrett riprese a ballare sulla pista, sul viso quell'espressione tipica di Luke lo strafatto.

Con atteggiamento del tutto opposto a quello entusiasta del ragazzo occhialuto, Blythe se ne stava poggiato accanto ad una porta aperta sull'esterno, con una sigaretta tra le dita e un'espressione annoiata in volto. Incrociò lo sguardo di Aaron, e tornò così ad ignorarlo, un po' come aveva fatto quella volta al provino, e più tardi quella volta al lago, dopo aver preso Tyler da parte e avergli chiesto scusa. Aaron non sapeva bene perché, ma il suo atteggiamento non era poi così differente da quello che il quarterback, capitano dei Noble Deers, gli aveva fino ad allora palesato. Persino nella sua stessa dimora, nel suo stesso salotto adibito a luogo di festa, Blythe aveva esibito una certa sofferenza nei confronti di tutto quanto il contesto degli amici. Forse, per certi versi, non erano poi due personalità così differenti.

«Ecco a lei» fece la barista alle sue spalle, avvicinandogli il Daiquiri.

«Grazie.»

«Potrebbe farne uno uguale anche a me?» Una ragazza comparve al suo fianco, facendosi largo fra due omoni sudati. Aveva lunghi capelli neri - o apparentemente tali, considerata la scarsa luce in sala -, occhi altrettanto scuri, e un naso sottile dalla forma dolce. Tutta rivestita di nero, indossava un top al di sotto di un blazer, con lunghi pantaloni attillati e alti tacchi che le concedevano almeno una decina di metri in più. Sbuffò, poggiando i gomiti sul bancone e voltandosi verso Aaron. «E' buono?» chiese alla fine, puntando l'indice sul cocktail nelle sue mani.

«E' il terzo che prendo, quindi sì, mi piace. Ma è pur sempre questione di gusti.» Per rispondere alla ragazza così da sovrastare il rumoreggiare della sala, Aaron le si era fatto più vicino, e poté notare la sua carnagione intensamente ambrata.

«Ah, i soliti gusti, se qualcosa è buono lo è e stop, punto, fine.» La barista tornò col daiquiri per la ragazza, che si voltò quindi verso la pista da ballo.

Aaron fece altrettanto, continuando a guardarla di tanto in tanto con la coda dell'occhio. Sospirò. «Non lo so, e non mi interessa saperlo.»

«Non mi sembri a tuo agio, ragazzo.»

«Nemmeno tu sembri granché in sintonia con tutta questa grande orgia qua.»

La ragazza gli diede una rapida occhiata, ed estrasse due sigarette, porgendone una ad Aaron.

«Non credo si possa fumare qui dentro.»

«Il personale è troppo impegnato a tenere d'occhio quei tipi scalmanati lì» replicò lei, indicando col capo un gruppo al quale si era unito Garrett.

Aaron prese la sigaretta, e la ragazza gli si avvicinò un po' più per accenderla. «Grazie.»

«Non c'è di che. Allora, ragazzo, perché sei in un posto simile?»

«Abbiamo voluto accontentare un amico.»

«Abbiamo?»

«Io e Blythe, che non ho più idea di dove sia.» Inspirò il fumo, la punta della sigaretta che si bruciava, consumandosi lentamente.

«Quindi mi dici il nome del tuo amico, ma non il tuo. Interessante.»

«Non ti serve il mio nome, dato che stanotte, o domani mattina all'alba – ancora non lo so – sarò di ritorno a casa. Che non è da queste parti.» Soffiò via il fumo in una nuvola quasi impercettibile alla vista.

La ragazza annuì. «Va bene, mi piace.»

«Cosa?»

«Non usare i nostri nomi. Io sono Jill e tu sei Locke.»

«Locke non mi piace, sa di...»

«Vecchio?»

«Qualcosa del genere.»

«Allora sei Desmond» concluse Jill alla fine. Silenzio. La ragazza riprese: «Desmond, è giusto accontentare gli altri?»

«E' giusto non farlo?»

«Insomma, sembra che tu non sappia molte cose.»

«Forse è così.» Aaron prese ad inspirare il fumo più lentamente.

«E' tutto un 'forse', un 'non so'. Vivi nel dubbio?» Jill fece quella domanda con un interesse apparentemente reale, perché smise di guardare davanti a sé e pose i suoi occhi neri su quelli di Aaron.

«E' che non so cosa ne sarà di me, cosa voglio» mormorò.

«Non ti sento!» gridò la ragazza, avvicinando l'orecchio destro a lui.

«Niente, ho detto che hai ragione.»

«Vivere nel dubbio è più facile, è come se ti scrollassi di dosso le responsabilità. E alla fine non si matura mai. E credo sia il momento di maturare un po'.»

«Tu? Ti senti un po' matura?»

«Per niente.» Jill gettò come se nulla fosse la cicca di sigaretta sul pavimento, e la schiacciò con uno dei suoi alti tacchi.

«E quando pensi di diventarlo? Quand'è che secondo te si diventa davvero maturi?»

«Credo quando acquisisci il potere e i mezzi di fare certe cose, di colpire qualcuno, ma semplicemente eviti di farlo.»

Aaron la guardò in silenzio. Cominciava a girargli la testa, ma cercò di tenere a mente quelle parole e di dar loro un peso, un significato vero.

Jill rise. «Vedi, quei due lì non mi sembrano molto maturi.»

A qualche metro da loro, Garrett stava discutendo audacemente, ma sicuramente senza coscienza di quel che faceva, con un tipo dall'aspetto poco raccomandabile, sul braccio un lungo tatuaggio che raffigurava un boa dalle fauci spalancate.

«Cazzo, non di nuovo! Cazzo, cazzo!» Aaron si lanciò verso di loro, dovendo rallentare quando lo spazio fra la gente in pista si ridusse sempre più. Prima di poterli raggiungere, Blythe lo precedette e assestò un poderoso pugno all'uomo tatuato, dopo che questi ebbe spintonato Garrett contro una ringhiera. Il quarterback aiutò frettolosamente Garrett a rialzarsi, fintanto che il tipo si riprendeva, quando un altro individuo, meno robusto ma altrettanto poco raccomandabile, si avvicinò alle spalle di Blythe, pronto per colpirlo. Fu in quel preciso istante che la scena si aprì davanti agli occhi di Aaron in una maniera del tutto nuova, in un puro stile Fight Club, solo con meno sudore, meno impeto, meno muscoli, e senza la nudità dei busti massicci dei protagonisti. Da vero vigliacco quale era convinto di essere, Aaron si gettò con tutte le forze alle spalle di quell'individuo sudicio, e lo scaraventò per terra. Si guardò attorno per un attimo, tutti coloro che si erano accorti della scena li stavano fissando con un certo entusiasmo. Blythe lo prese per un braccio, riportandolo alla realtà, e lo trascinò di corsa con sé. «Andiamo Lewis! Prima che ci facciano neri!»

I tre scapparono verso una porta di servizio, con alle spalle i due brutti ceffi e l'omaccione del personale che aveva tenuto sotto controllo Garrett fino ad allora. Quando raggiunse l'uscita, Aaron sentì diminuire la paura e la scarica di adrenalina che aveva in corpo, così poté voltarsi un attimo verso il bar. Jill sollevò le sopracciglia e rise, salutandolo con ampi gesti del braccio. Aaron fece altrettanto, prima di essere scaraventato all'esterno del locale da Blythe.

*

Accostarono con la Suzuki Samurai su un ciglio della strada, oltre il quale si apriva una lunga e ampia distesa di prato che precedeva le acque del fiume Allegheny. Blythe, che aveva guidato dal locale fino a lì con una certa foga, uscì dall'auto sorreggendo Garrett da un braccio. Aaron lo aiutò, sorreggendone l'altro. Stesero sul prato il ragazzo in preda al sonno e alla confusione da alcol. Quindi fecero altrettanto, sospirando all'unisono.

Blythe prese a ridere, prima sommessamente e poi in maniera sempre più incontrollata. Aaron lo guardò inizialmente di sbieco, per lasciarsi a sua volta andare a risa incontrollate che gli procurarono degli spasmi allo stomaco.

«Dannazione,» cominciò Blythe a bassa voce, «è stato fottutamente incredibile.»

«Già, ma non rifacciamolo. Mi si è stirata una gamba, credo.»

«Tranquillo, tanto venerdì sarai di nuovo in panchina!»

Aaron tornò a ridere, prima che entrambi lasciassero spazio al silenzio. Guardarono il cielo sopra di loro: le nuvole si muovevano lentamente, lasciando intravedere qua e là gruppi di stelle argentate nell'oscurità.

«Com'è stato... com'è stato lasciare una città come Philadelphia per Edwynville? Non senti l'oppressione, la mancanza di uno spazio necessario?» domandò Blythe, gli occhi fissi sempre verso l'alto.

«Non proprio. La mia vita lì non era quella del tipico adolescente che coglie tutte le opportunità offerte dalla metropoli.»

«Beh, sei stato fortunato allora. Io non vedo l'ora di andarmene, Edwynville mi sta stretta.»

«Magari lo dico perché ci vivo da poco, ma non essere duro con quel posto» mormorò Aaron, strappando un filo d'erba e arrotolandoselo attorno all'indice.

«Ne parli così perché ti sei circondato di gente come Garrett e Zoe, che sanno essere ottimi amici.»

Aaron lo fissò per un attimo: gli pareva strano sentire da lui parole così a proposito della figlia del coach e del ragazzo addormentato al loro fianco. Forse le quattro del mattino facevano quell'effetto imprevisto a Blythe.

«E anche Bonnie» riprese il ragazzo accanto a lui. «Ti ho visto qualche volta con lei, a modo suo sa essere una tipa in gamba.»

Certo che lo era, ma preferì evitare di parlarne per l'imbarazzo e un certo fastidio dovuto a quello che era successo fra il di loro.

Blythe sospirò. «Grazie, per prima, per avermi aiutato.»

Aaron tentennò sulla risposta. «Grazia a te, per aver aiutato Garrett.»

«Prima non era così.»

Altre nuvole, inframmezzate da altre stelle.

«Sente il bisogno di cambiare, vive un cambiamento necessario. E' alla ricerca di qualcosa.» Aaron scelse con cura ogni parola, cercando di afferrarle fra le poche sensate nella sua testa confusa.

«Lo siamo tutti.»    

Angolo autore:

dopo aver concluso la lunghissima sessione invernale universitaria con ottimi risultati, eccomi con questo settimo capitolo. Si apre con il breve incontro fra Bonnie ed Aaron, che chiariscono (?) le loro posizioni, e prosegue con la lunga notte dei tre ragazzi nella grande Pittsburgh, un bel po' lontana da Edwynville. Ecco, spesso viene detto  che sono prolisso, che i miei capitoli sono lunghi e dettagliati e via discorrendo. Ma, sul serio, quando si legge un libro, anche banalissimo, anche di scarso livello, non è forse questo ciò che ci troviamo davanti? O si tratta di un batti e ribatti di colpi di scena, dialoghi serrati e continui, con momenti di azione sparsi qua e là senza una degna rappresentazione del contesto? Perchè sì, scrivere un romanzo, un racconto, significa introdurre e sviluppare un contesto, far muovere e creare la gestualità dei personaggi, crearne e ricrearne gli stati d'animo e le vicende interne, prima ancora di quelle esterne. Scrivere non è '«Ciao» disse Aaron. «Ciao» rispose Lotte'. Il dialogo viene dopo. Non si tratta del copione di un film o di un'opera teatrale. La peculiarità di un romanzo e dello scrittore deve stare proprio qui: nel saper ricreare qualcosa che va molto oltre l'azione. Se non c'è un ambientazione definita, se non ci si ricorda che la notte crea un senso di oppressione, frustrazione o di gioia, se non si scandaglia l'animo di pinco pallino mentre questi parla, allora non c'è il romanzo. Si fa prima a guardare un telefilm. Bisogna leggere prima le storie che stanno fuori da ciò di cui questa piattaforma virtuale è piena zeppa (con le dovute eccezioni), il cartaceo vero di un gran romanzo, e poi potersi concedersi la lettura e la critica, quindi sensata. E sono fin troppo breve e conciso nelle cose che voglio rappresentare, fin troppo cerco di contenere il mio modo di raccontare per adattarlo a quello che 'il lettore (ma solo qui sopra eh) in generale richiede'. 

Ma vabbè, a parte lo sfogo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, che vi abbia intrigato ancora e che quindi abbiate voglia di proseguire nella lettura. Io sono qui, pronto a soddisfare ogni vostro dubbio se mai voleste porne uno! Ah, il prossimo capitolo potrebbe essere roba forte, quindi prestate attenzione e non perdetevelo! Saluti :D

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