Capitolo 22
Sette ragazze erano ferme sulla linea di partenza, prima che il coach soffiasse nel fischietto e liberasse così la loro corsa lungo la pista d'atletica. La bionda ragazza dalle origini tedesche, Kitty Leitner, tagliò il traguardo dei cento metri per prima, seguita da Donna Stevenson e Beth Cavanaugh. Bonnie finì la corsa da penultima, si piegò sulle ginocchia per pochi secondi, riprese fiato e si avvicinò alle panchine sul bordo esterno del campo. Lì trovò a fissarla Garrett Collins, che tese un asciugamano verso di lei. Bonnie lo afferrò e si asciugò la fronte.
«Che ci fai qui?» chiese lei infine.
«Da quand'è che finisci le gare per ultima?»
«Cosa? Sono arrivata prima di Lawrence.»
«Pardon, penultima.»
Bonnie scosse il capo, sorridendo appena. «Non mi alleno più come una volta, e poi il fumo...»
«Eh sì, brutta bestia.»
«Ma se hai toccato la tua prima sigaretta... Quanto? Un mese fa?»
Garrett sollevò l'indice e il medio nella sua direzione.
«Due mesi fa, esatto. E poi tu non fai neanche sport.»
«Non essere troppo duro con me. Ecco la tua borraccia. Ad ogni modo, mi hai chiesto che ci faccio qui, ebbene: ho bisogno del tuo aiuto.»
Bonnie butto giù in un solo sorso quel che restava della sua bevanda energetica, prima di replicare con un filo di circospezione: «Non c'è proprio ragione per cui Garrett Collins debba voler chiedere aiuto alla sottoscritta, nessuna ragione al mondo.»
«Già, si aspettano tutti che io sia qualcosa di molto vicino ad un onnisciente.»
«E non lo sei?»
«Beh, come ho detto, è ciò che si aspettano gli altri, ma...» Garrett immerse la testa nell'alto colletto del suo cappotto, guardò ai piedi di Bonnie e riprese: «Ho alcune lacune in ambito... pratico.»
La ragazza lo guardò storto. «Pratico? Restringi il campo.»
Garrett fece segno col braccio di avvicinarsi, e quando lei fu sufficientemente a tiro da poterlo udire sussurrare, rispose: «Sessualmente parlando.»
«Cosa? Chi è che sta per deflorarti?»
«Shhh! Abbassa il tono! Dio santo, è già fin troppo imbarazzante così.»
Bonnie soffocò una risata, quindi si ricompose e tornò ad affiancarsi al ragazzo. «Okay, okay, scusami. Devi spiegarti meglio.»
«Ho bisogno di consigli pratici. Sai, non ho idea di come avvicinarmi, da dove partire, cosa devo assolutamente evitare di fare e cosa invece mi renderà memorabile ai suoi occhi.»
«Agli occhi di...?»
«Marlee» rispose Garrett in un sussurro ancora più debole.
«Questo è... davvero, davvero sorprendente.»
«Mi aiuterai o no?»
«Non capisco perché ti sia rivolto a me. Perché non Zoe? Siete così intimi, voi due.»
Garrett fece una smorfia. «E' proprio per questa sorta di intimità che con lei non ne riuscirei a parlare. Allora perché non Aaron? Mi chiederai. E' partito presto stamattina per Philadelphia, non tornerà prima di domani. E poi, pensandoci bene, credo che per una cosa come questa non ci sia persona migliore di te a cui rivolgersi.»
Bonnie gli rivolse un'occhiata diffidente, non del tutto sicura del dover interpretare quell'ultima affermazione come un complimento o come qualcosa di molto lontano dall'esserlo.
«Non guardarmi così, ho solo fiducia nella tua esperienza.»
«Sì, questo l'ho capito, e con Marlee ti serve molta esperienza.»
«Cioè sai anche com'è a letto?» Garrett sgranò gli occhi e portò la mano avvolta nel suo guanto di lana davanti alla bocca.
«Idiota, la mia è solo un'intuizione. Ad ogni modo, oggi non posso aiutarti. Ho lezione tra pochi minuti. Hai impegni nel pomeriggio?»
«A parte preparare il test di Storia Americana di domani, direi di no.»
«Oh, il test, lo avevo completamente rimosso» fece Bonnie mentre riponeva la propria roba nel borsone.
«Dovresti prepararlo anche tu, no?»
«Passo» rispose lei, facendo spallucce.
«Okay, se per te non ha alcuna importanza, passa da casa per le sette. I miei saranno ancora fuori per quell'ora.»
«Hai intenzione di fare pratica con me? A casa tua?»
Garrett non rispose, restando a fissarla con la bocca semiaperta, e Bonnie fu da subito sicura che se il ragazzo avesse solo tentato, avrebbe di certo incespicato tra le sue stesse parole. Così sorrise e scosse il capo, facendo per allontanarsi. «Dovremo cominciare lavorando su queste reazioni, o la terza base sarà l'ultima cosa che vedrai in vita tua. Ci si vede più tardi!»
*
Aaron percorse la lunga piana ai piedi della collina, sulla quale si stagliavano i mausolei delle famiglie di più alta caratura nobiliare della storia di Philadelphia, e si fermò davanti ad una schiera di piccole lapidi bianche poste in lunghe file. Ne contò ad occhio e croce almeno una quindicina, di quelle file. Rivolse il viso alla sua destra quando una brezza gelida prese a soffiare in quella direzione. Gli spostò i capelli bruni sulla fronte, gli accarezzò le guance, gli lambì le labbra, e lungo tutto quel breve momento Aaron tenne gli occhi chiusi. Per un attimo si aprì nel buio delle palpebre abbassate l'increspatura argentea del Nightfall Lake, con l'edera che ondeggiava prima di spegnersi sulla riva e la stessa, identica brezza alla quale si era abbandonato per la prima volta quel giorno di tre mesi prima, nel suo arrivo ad Edwynville. Ne distinse però le funzioni, diametralmente opposte: se quella volta la brezza lo aveva toccato, e in un soffio ne aveva portato via il ricordo, il dolente passato, privandolo per lungo tempo del senso di vuoto, della pena e della colpa, adesso Aaron fu certo che l'etere tutto volesse restituirgli ogni cosa.
Riaprì gli occhi. Claire gli sorrideva sinceramente. Chissà da quanto era lì ad aspettarlo, in silenzio. Aaron aspettò sul posto, con i piedi divenutigli in un istante di piombo, quando lei fece per avvicinarsi e gli prese la mano, incrociando le dita sottili alle sue.
«Andiamo» disse Claire, o almeno lui credette fosse così. La sua voce mancava del tutto di tono, così dovette interpretarne il labiale incertamente.
Ciò che più lo sorprese fu la sensazione che, spinto dal movimento della ragazza in avanti, la stessa percezione di pesantezza che lo aveva attanagliato un istante prima, con identica se non superiore rapidità era stata cancellata. Si mosse meccanicamente con Claire a pochi passi davanti a lui. Percorsero all'incirca dieci metri e si arrestarono nuovamente. Aaron posò gli occhi sulla lapide ai suoi piedi, e raccogliendo le forze di cui necessitava, pronunciò le prime parole che gli si affacciarono nella mente: «Di cos'è che hai bisogno esattamente?» Si voltò nella direzione di Claire solo dopo aver parlato, non ricevendo in cambio alcuna risposta. Ma era già andata. Era già andata e tanto bastava perché lui potesse trovare risposta da solo, senza ricorrere ad alcun oscuro ragionamento. Lesse l'incisione nella pietra bianca, pulita, senza un filo d'erba o del terriccio che potesse averla sporcata per il forte vento, e solo dopo fece anche caso ai fiori che stavano lì poggiati. Si piegò sulle ginocchia, ne portò uno vicino al viso e lo annusò. Qualcuno veniva lì spesso e si prendeva cura di quel piccolo spazio quasi quotidianamente – pensò dopo un momento – o magari si trattava solo di un episodio isolato: quel qualcuno era stato lì la stessa mattina, poco prima di lui, ci aveva deposto un mazzo di freschi ciclamini rosa, aveva lucidato la lapide e se n'era tornato da dov'era venuto.
«E' opera tua?» fece una voce alle sue spalle, portando istintivamente Aaron a girarsi per darle un volto. Albert Donovan se ne stava fermo a pochi passi da lui, le mani in tasca, i capelli più grigi e diradati di quanto ricordasse, e un'aria stanca, desolata nonostante il sorriso che aveva deciso di mostrargli. Sembrava invecchiato di almeno dieci anni.
«Signor Donovan...» Aaron si sforzò di assottigliare la tensione instauratasi fulmineamente dentro di sé, se non di smorzarla del tutto. Doveva aspettarsi che quell'uomo, o sua moglie, avrebbe fatto capolino da un momento all'altro, specie in quel giorno così importante, mentre lui era giunto a Philadelphia percorrendo centinaia di chilometri dall'innevata Edwynville e neanche per un istante aveva fatto caso alla possibilità di incorrere in qualcuno di totalmente indesiderato per lui.
«E' tanto che non ci si vede» rispose Albert, mantenendo lo stesso sorriso stanco.
«Più di un anno» replicò Aaron, incerto.
«Allora? I fiori... sono opera tua?»
Aaron tornò a guardare i ciclamini, quindi scosse il capo verso l'uomo. «Nient'affatto. Ho deciso solo ieri pomeriggio di partire. Sono venuto direttamente qui: niente soste aggiuntive, niente tempo per pensare ai fiori.»
«Così deve essere opera di uno dei suoi innumerevoli ammiratori.» Stavolta l'espressione di Albert parve più rilassata, quasi quella sua ultima ipotesi l'avesse messo a suo agio.
«Lo credo bene. Sono voluto passare presto proprio per non incontrare nessuno.»
«Ho fatto il tuo stesso ragionamento, eppure mi hai anticipato, e qualcuno ha persino anticipato te.»
Aaron annuì e basta.
«D'altronde oggi sarebbe stato il suo diciottesimo compleanno, quale occasione migliore di questa?»
«Occasione per cosa?» chiese Aaron. Un attimo dopo si voltò a destra e a sinistra per assicurarsi che nessun'altro stesse sopraggiungendo lì.
«Per omaggiarla, sai, la tipica roba che si fa quando qualcuno ci lascia, specie se molto giovane.» Albert si accostò a lui, tirò fuori le mani dalle tasche e gliene appoggiò una sulla spalla. «Come ti senti?»
«Intende in questo preciso istante?»
«In questo istante o quando ti pare. E lascia perdere tutto questo formalismo, Aaron. Un tempo mi chiamavi per nome e mi davi del tu.»
Aaron si impegnò nel distendere le labbra in un accenno di sorriso. «Non so esattamente come mi sento, Albert, ma le cose ad Edwynville vanno bene. E tu, tu com'è che ti senti?»
L'uomo tirò fuori dalla tasca un fazzoletto, col quale poi si coprì la bocca e tossì ripetutamente. Aaron cercò di non voltarsi verso di lui, tenendo gli occhi dritti davanti a sé, quindi l'uomo rispose: «Cosa posso dirti... Trascorro quasi la stessa, identica esistenza che hai avuto modo di conoscere qualche anno fa, se non per il semplice dettaglio che sono tornato a fumare, e non me lo posso permettere... Non nelle mie condizioni.»
Aaron annuì e meditò sul modo più chiaro e semplice con cui replicare, senza risultato. Così, d'un tratto, gli venne spontaneo indirizzare i propri pensieri a Eloise. Chiese: «E tua moglie? Lei come sta?»
«Eloise se la passa meno bene di me. Non le è mai piaciuta l'idea di starsene qui, davanti ad una lastra bianca, a farsi prendere dal ricordo e dal rimorso. Dice di pensare a nostra figlia fin troppo anche senza essere qui, e che venire in un posto come questo non vuol dire affatto rincontrarla. Spesso la notte mi sveglio e la sento piangere nella sua vecchia stanza. Come biasimarla... Ognuno dà forma al lutto nella maniera più congeniale per se stesso.»
Una giovane donna si fermò a qualche decina di metri più avanti, dando loro le spalle. Teneva la mano stretta a quella di un piccolo bimbo dalla folta chioma bionda, che a differenza della donna si guardava intorno con un'aria fortemente curiosa, ma sempre rispettando il religioso silenzio del cimitero. Quasi certamente era del tutto ignaro delle ragioni per cui sua madre l'aveva portato in un posto strano come quello, in cui un immenso manto verde di prato vedeva sorgere file e file di grossi denti bianchi intagliati nelle più variegate forme senza alcuna apparente ragione. Aaron desiderò di poter adottare la prospettiva che lui stesso aveva attribuito a quel bambino, anche solo per breve tempo, anche solo per un attimo.
«La sai una cosa?» riprese Albert, raccogliendo nuovamente la sua attenzione. «Eloise ce l'ha un po' con te. Ecco, si aspettava che prima o poi, prendendoti il tempo necessario, saresti passato a trovarci.»
Aaron gli rivolse un'occhiata interdetta. «Io... Io non...»
«Oh, non devi preoccuparti» sorrise ancora Albert. «Non è colpa tua. Tornando a ciò che ho detto un attimo fa, hai avuto il tuo modo di realizzare il lutto. So per certo che mia figlia non ti incolperebbe mai di una cosa simile.»
Il ragazzo si portò una mano sullo stomaco e nascose gli occhi dietro il buio delle palpebre, stavolta non per ripercorrere con la mente il suo arrivo ad Edwynville, bensì per un fastidioso sentore di nausea crescente. Le parole di Albert avevano avuto su di lui l'effetto contrario a quello a cui l'uomo aveva probabilmente mirato. Erano state fastidiose, al limite del ripugnante, ma Aaron non avrebbe saputo dire il perché. Immaginò che si trattasse di un senso di falsa condiscendenza nei suoi confronti, o magari il fastidio aveva origine dallo stare a sentire un uomo così semplice, così banale per tutto il tempo in cui lo aveva conosciuto, mettersi a disquisire di qualcosa di incommensurabilmente più grande di lui. Albert doveva tacere. Non era più il tempo di filosofeggiare e di consolare. Strinse la mano a pugno, ancora sullo stomaco, e la premette più a fondo. Serrò i denti e inspirò forte dal naso.
«Signor Donovan... la ringrazio. Ma so per certo che Claire, sua figlia, mi darebbe la colpa per cose molto più grandi di questa. Ora lei è andata, e se non le dispiace, adesso devo andare anche io.» Aaron si incamminò a passo rapido verso il pendio alla sua destra, arrestandosi solo quando Albert gridò nella sua direzione. «Non è stata colpa tua!» aveva detto, e la donna col bambino si era voltata a guardarli, prima che lui riprendesse il proprio cammino verso l'uscita.
*
«Così questo è il tuo rifugio antiatomico» disse Bonnie, non appena mise piede nella piccola stanza quadrata di Garrett. Si guardò intorno con curiosità e della miriade di poster appesi alle pareti, ne riuscì a distinguere soltanto quattro o cinque. «Sbaglio... o qui non c'è nulla di Dungeons and Dragons?»
Il ragazzo tirò fuori da sotto il letto una scatola del gioco citato. «Ho conservato solo questo.»
Bonnie sorrise. «E io che credevo che quello fosse il tuo pezzo forte.»
«Lo era,» replicò Garrett, mentre si risedeva sul letto, «ma i tempi cambiano. Sto cercando di superare quella fase.»
Bonnie sentì i suoi occhi addosso mentre cercava un posto per accomodarsi, quando il ragazzo gli indicò la sedia girevole di fronte alla scrivania. Si sedette e la fece ruotare sul posto in direzione di Garrett, che intanto aveva raccolto una serie di fogli impilati ed il manuale di Storia Americana, ed aveva allungato il braccio per porgerglieli. «Cosa ci dovrei fare con questi?»
«Devo solo finire di ripetere. Non credevo che venissi così presto, ma dato che sei qui perché non approfittarne? Fammi qualche domanda, ho segnato i punti salienti che non sono sicuro di ricordare.»
«Fai sul serio?» Bonnie piegò il capo di lato e sbuffò. Al che Garrett replicò col silenzio, fece spallucce e sollevò le sopracciglia. «Okay, okay.»
«Grazie!» fece lui, sorridendo. «Basteranno venti minuti.»
Ed esattamente venti minuti dopo, Bonnie rivolse la propria attenzione all'orario scritto in piccolo sul bordo del monitor del computer. «È proprio ora, ragazzo mio, è proprio ora.»
«Fammi un'ultima domanda, poi avremo finito!» Garrett si dispose a quattro zampe sul materasso, con il volto segnato da un'aria famelica e i capelli più che mai sparati verso ogni direzione.
Bonnie lo guardò titubante, incerta all'idea di restare seduta lì, di fronte a lui, con il solo manuale a difenderla dalla possibilità che quella sorta di versione selvatica e ingorda di conoscenza di Garrett potesse saltargli addosso per divorare anche il suo limitato sapere. «Va bene... Un'ultima domanda» disse lei in un sussurro. Sfogliò le pagine per qualche secondo, richiuse il volume e chiese: «Tornando alle relazioni con Cuba... Perché, all'inizio degli anni sessanta, gli Stati Uniti imposero l'embargo?»
La reazione di Garrett fu singolare quanto l'atteggiamento assunto un attimo prima che Bonnie gli rivolgesse la domanda. Piegò il capo di lato – la bocca socchiusa e gli occhi che correvano vispi da un angolo all'altro della stanza senza sostare un attimo – dopodiché sembrò spegnersi del tutto. Si rimise seduto sul letto, quasi in modalità zen, e guardandola negli occhi, le rispose: «Questa non la ricordo proprio, ho un vuoto cosmico incredibile. Com'è possibile?»
«È ricollegata alla prima domanda che ti ho fatto, esattamente ventidue minuti fa.» Bonnie pose particolare enfasi a quelle tre ultime parole, ed aspettò ancora per qualche secondo una reazione da parte del ragazzo. «Ti arrendi?»
«Mi arrendo. Avanti, spara, è questo che merito.»
Bonnie strinse gli occhi in una fessura, con difficoltà crescente nel conservare un'aria fintamente seriosa. Poggiò il manuale sulla scrivania e sbuffò. «Dovresti ricordarlo, le prime sanzioni contro Cuba risalgono al 1959, quando Fidel Castro prende il potere e nazionalizza oltre un miliardo di beni americani sull'isola. Le relazioni diplomatiche, e questo sarà il colpo di grazia, tra Stati Uniti e Cuba vengono interrotte nel 61, dopo che Cuba firma un accordo commerciale con l'Unione Sovietica. Poi arriva Kennedy, il paladino della giustizia, che nel 1962 impone nuove sanzioni, ufficializzando l'embargo. E di qui tutta la roba che già sai...»
«Sì, di qui tutto il resto...» disse Garrett.
«Non lo ricordi?» chiese lei, osservando con cura gli occhi del ragazzo persi verso qualche punto della scrivania.
«Oh, ma certo. Solo che... Facevo caso ad una cosa.»
«E cioè?»
«Hai risposto a ciò che io non ricordavo, e lo hai fatto senza leggere.»
Bonnie guardò il manuale poggiato sulla scrivania. Tornando a guardare il ragazzo, replicò sbadatamente: «L'ho letto prima, per avere un'idea di cosa stessimo parlando.»
«Sì, ma lo hai letto una sola volta.»
«Lo trovi sorprendente? A dirla tutta ricordo anche qualcosa delle nozioni del professor Jennings. Alle volte in classe mi annoio a starmene senza far nulla, così mi metto attenta ad ascoltarlo solo per ridere della sua aria boriosa. E che uomo lamentoso...»
«Questo è ancora più sorprendente» sussurrò Garrett con gli occhi sbarrati. «Sai, credo che... credo che se solo volessi, potresti prepararti per accedere al college.»
Bonnie tacque, prima di lasciarsi andare ad una risata priva di contegno. «Di che stai parlando? Non andrò mai al college, ed è troppo tardi per mettersi a studiare seriamente.»
«Assolutamente no, e non dovresti neanche studiare così seriamente! Considera i college locali, qui nelle vicinanze: ce ne sono un'infinità che potrebbero fare al caso tuo. E poi non dovresti preoccuparti neanche così tanto delle spese-»
«-Frena, frena, Collins» lo interruppe lei, direzionando il palmo della mano verso il compagno. «Ho solo risposto al posto tuo ad una domanda sull'embargo. Niente di più, niente di meno. Lasciamo stare queste fantasie. Ora, se non ti dispiace, parliamo del motivo per cui sono qui, così potrò andare ad aiutare i Rutherford al più presto.»
Garrett allargò le braccia e scosse il capo, tenendo gli occhi chiusi. «Va bene, va bene.» Sospirò. «Sia come vuoi.»
Bonnie impiegò qualche secondo per lasciarsi scivolar via quella folle idea, quindi sorrise e annuì.
*
https://youtu.be/pmKkaCKWreM
Quel giorno Aaron percorse e rivisse i luoghi del tempo più importante passato con Claire, aspirando ad acquisire la memoria più tangibile di lei partendo dal sottile ricordo affioratogli appena giunto in città all'alba. Quando il sole prese a calare nel primo pomeriggio, scese lungo la riva del Delaware, e guardando più in fondo che poté con lo sguardo, nel piccolo spazio di intensa luce arancio del tramonto fra le due verdi e invadenti sponde del fiume, vide un grazioso battello risalire la corrente e poi farsi sempre più vicino, e più vicino, fino a quando non lo raggiunse. Aaron distinse su di esso le figure snelle dei camerieri che piroettavano fra i tavoli disposti sul ponte, poi riconobbe il suo profilo e quello di Claire mentre cercavano di tagliare una grossa aragosta, ma senza successo. Uno dei camerieri piroettanti li raggiunse e si mise ad aiutarli, dando sfoggio delle proprie abilità. Aaron e Claire soffocarono delle risate, un po' imbarazzati, e ringraziarono il giovane per l'aiuto quando questo ripose le posate accanto al piatto della ragazza. D'un tratto, Aaron si alzò, porse la mano a Claire e la portò a danzare senza alcun criterio e abilità fra le coppie di signori di mezza età che stavano occupando sempre più numerosi la pista.
Dalla riva, l'unica cosa che Aaron non seppe distinguere di quella scena fu la musica per cui i due erano entrati in pista. Faticava a ricordarla, come facilmente accade quando nelle proprie orecchie risuona una musica diversa. Nelle sue, di orecchie, c'era infatti un'altra melodia, ben più tenue e triste. Sembrava che Erin avesse preso posto accanto a lui, sedendo al suo pianoforte bianco, e lì avesse cominciato a suonare col suo tocco privo di sbavature, diventando anch'ella partecipe della scena, frutto della sua memoria. Aaron si sforzò di ascoltare la musica del battello, ma la melodia di Erin lo piegò ogni volta, e ogni secondo che passava il battello lo superava nell'altra direzione, risalendo ancora la corrente. Così sorrise. Sentì le lacrime accarezzargli le guance, toccargli gli angoli della bocca e discendere più lentamente in prossimità del mento. Singhiozzò sempre con più forza, riabbracciando e godendo di quel pianto che tanto addietro nel tempo aveva lasciato con quella città.
Angolo autore:
Sintetizzando: viene a galla qualcosa in più del passato di Aaron, finalmente abbiamo la certezza che Claire non appartiene più al mondo dei vivi e che il nostro non più baldo giovane si sente in colpa. Per la sua morte? Lo scopriremo presto. Intanto Garrett ha bisogno dell'aiuto della nostra cattiva-non tanto cattiva ragazza, che agli occhi del nostro occhialuto sembrerebbe nascondere anche un cervello niente male. Ebbene, non vi resta che restare sintonizzati per scoprire cosa accadrà nel prossimo CAPITOLO NATALIZIO (ahia!), per poi volare al CAPODANNO delle sorprese. Ma sì, lo so, sono rimasto indietro di qualche settimana coi tempi, ma mi farò perdonare con la qualità!
Fatemi sapere cosa ne pensate, votate, diffondete il verbo e restate con me! Saluti!
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