Capitolo 21
Garrett diede un'occhiata all'orologio posto al di sopra di una mensola ricoperta di foto di famiglia, così addentò l'ultima polpetta del piatto e la masticò con fare frettoloso.
«Mangia piano, o ti ci strozzerai con quella roba» disse suo padre dall'altro lato del tavolo.
«Sono polpette, non roba» replicò sua madre.
Garrett annuì ed ingoiò rumorosamente il boccone. «Sono di fretta, domani ho due temi da consegnare. E se dovessi riuscirci vorrei anche fare due passi, più tardi.»
«Con Zoe?» chiese suo padre.
Garrett annuì di nuovo, stavolta mentendo.
«Ma non avevi detto che oggi sarebbe tornato Damien per qualche giorno?»
«Mmh, e allora?»
Suo padre sembrò rifletterci su, fissando il piatto quasi del tutto vuoto. «Oh, nulla, credevo che quei due avrebbero passato del tempo da soli.»
«Sarà per la prossima volta, io ed Aaron faremo da terzo e quarto incomodo» mentì di nuovo Garrett.
«C'è una cosa di cui dovremmo parlarti» fece sua madre. Si pulì il contorno della bocca con un tovagliolo, prima di proseguire: «Tuo padre ed io staremo fuori, questo weekend.»
«Come mai?»
«E' il nostro anniversario.»
«Giusto» replicò Garrett appena imbarazzato. «Sapete com'è, i figli maschi difficilmente ricordano queste cose. E dov'è che andrete?»
«Nella Città che non dorme mai» disse con simulata enfasi suo padre.
«E tu...» riprese sua madre, concedendosi prima un sospiro, «tu dovrai occuparti della casa.»
«Non è mai stato un problema.»
«Non dare party in nostra assenza» sentenziò suo padre senza guardarlo.
«Il fatto che quest'anno mi stia dando da fare e mi stia facendo dei nuovi amici non vuol dire che verrebbe qualcuno ad una festa organizzata dal sottoscritto.»
«Infatti, fallo capire a tuo padre.»
Garrett fulminò con lo sguardo la madre, che rise nascondendo la bocca dietro il tovagliolo.
«Ma la senti? E poi lo stronzo sarei io.»
«Tu sai fare di peggio, papà.»
Stavolta tutti e tre risero, quindi il padre di Garrett riprese: «Seriamente, hai intenzione di invitare qualcuno?»
Il ragazzo face ruotare il manico della forchetta tra le dita, pensandoci su. «Se verrà qualcuno, si tratterà dei soliti. Tranquilli, terrò tutto in ordine.»
«I soliti?»
Alla domanda della madre, seguì un breve scambio di sguardi fra i genitori che Garrett non tardò a definire come un qualche cenno d'intesa. «Che intendete? Zoe, Aaron-»
«-Nessuna ragazza?» lo interruppe il padre, guardandolo oltre la montatura spessa degli occhiali, non troppo diversa dalla sua.
«Zoe è una ragazza.» Garrett cominciò a studiare nella propria testa la prima strategia utile che potesse fungere da uscita di sicurezza da quel discorso sempre più spinoso. Quei due lì di fronte dovevano essere a conoscenza di qualche dettaglio che lui non aveva in alcun modo rivelato, e che di certo non era pronto a rivelare, considerata la sua timidezza e la totale impreparazione nel gestire il triangolo che si sarebbe creato fra di lui, i genitori e la ragazza fulcro delle loro attenzioni.
«Oh, andiamo, l'altra ragazza. Com'è che ha detto che si chiama?»
«Chi ha detto cosa?»
«Credo Marlee» rispose sua madre. Solo a quel punto tornò a guardare e a dare attenzioni a Garrett, sorridendo: «E' così che si chiama, no?»
«Ma come diavolo fate a...?» Garrett fermò il movimento delle dita, serrò il manico della forchetta nella presa salda della mano e lo batté contro il tavolo. «Zoe! Ve lo ha detto lei!»
«E che male c'è?»
«C'è che è affar mio, papà. L'ho detto che voi tre non dovreste essere così amici!»
«Ma dai, se non lo avesse fatto lei, chissà quando ce ne avresti parlato» replicò sua madre, che scambiò ancora un cenno d'intesa col marito.
«Ed è anche una bellissima ragazza.»
«Oh vi siete informati bene. Cos'altro sapete? L'avete portata già a cena fuori, in mia assenza?»
«Andiamo, siamo dei genitori giovani noi, non facciamo storie se nostro figlio esce con una ragazza. E' solo curiosità.» Suo padre s'interruppe un momento quando la moglie prese a sparecchiare la tavola. «Ripeto: è davvero bella!»
«Già, questo sorprende anche me, non è così che immaginavo la prima ragazza con cui sarei uscito» fece Garrett con tono stizzito, ormai arresosi all'evidenza dei fatti.
«La realtà è sempre meglio dell'immaginazione!» Gridò sua madre dalla cucina.
«Certo, solo che nella realtà non abbiamo Hogwarts.»
«E' ad Orlando, tesoro» replicò ancora lei.
«Allora non abbiamo Narnia, e non farmi proseguire con la lista.»
«Lascia perdere le cavolate. Torniamo alla questione importante: Marlee.» Suo padre parlò con tono fermo e fiero, mentre lo fissava con viva curiosità.
Garrett roteò gli occhi. «Ma che c'è da sapere?»
«Che la porterai qui, al posto dei tuoi amici. Lo sappiamo, io e tua madre. E stavolta Zoe non c'entra, si sa come vanno queste cose»
Sua madre tornò in sala da pranzo annuendo vistosamente e mantenendo con apparente disinvoltura quel sorriso che Garrett faticava sempre più a reggere. «Quindi ci sono delle cose che dovremmo chiarire, cose che ad un certo punto della propria crescita, i figli devono sentirsi dire dai genitori.»
«O-mio-Dio.» Garrett si coprì il viso e desiderò come mai prima di allora di potersi smaterializzare via, lontano da quella casa. «State per farmi il discorso.»
«Saremo brevi, tranquillo» disse suo padre, incespicando tra le parole mentre rideva. «Una sola parola: preservativi.»
«O mio Dio, o mio Dio! Devo andare a preparare i due temi, dopo uscirò dalla finestra se sarà necessario, così non dovrò vedervi fino a domani.» Garrett si alzò rapidamente, con la fronte che prese a grondare sudore e le orecchie che gli diventarono bollenti.
«Aspetta un momento. Dai, non ascoltare tuo padre! Avrò io un po' più di tatto!»
Il ragazzo si arrestò di fronte alla scalinata, voltandosi verso la madre. «Sentiamo come pensi di cavartela tu, con le parole.»
«Beh, dato che non vuoi in alcun modo avere un confronto sull'argomento con noi, almeno vedi di informarti per bene. Chiedi ai tuoi amici, se dovessero essere più esperti di te.» Sua madre tentò di trattenere una risata, e riprese: «In ogni caso, hai tutta la nostra approvazione. E' benvenuta in casa nostra.»
Garrett la guardò storto, scosse il capo e sospirò, prendendo a salire le scale: «Va bene. Buon viaggio.»
«Mancano ancora tre giorni, lo sai?»
«Oh sì, ma fino ad allora farò in modo di non incrociarvi!»
*
«Fammi capire,» disse Erin, girando lentamente il cucchiaino nella tisana fumante, «vuoi davvero saltare i test d'ammissione?»
«E' da un po' che ci penso» rispose Blythe, poggiato contro la scrivania di sua sorella, mentre sfogliava un manuale di scienze senza porci alcuna attenzione.
«Intendo... davvero davvero?»
La replica di Erin, che lo guardò dal basso della sedia su cui era seduta, suonò al ragazzo come un'inutile forzatura, una di quelle a cui rare volte lei si concedeva – e di certo in quel frangente non era il caso di stare a ponderare l'autenticità delle sue parole. «Non è così strano. Potrei riprendere gli studi più avanti. Insomma, il college è così tanto importante?»
«Oh, certo che no.»
«Appunto!»
«Praticamente è l'unica cosa che conta.»
«Non mi sei d'aiuto.» Blythe richiuse il tomo con un unico, rapido movimento della mano e lo ripose nel ripiano accanto.
«Non devo esserti d'aiuto. E con il football come faresti? Le squadre dei college più importanti non aspettano che tu faccia prima il tuo... quanto vuoi prenderti? Un anno sabbatico?»
Il ragazzo sospirò, riflettendo sul peso esatto di quelle parole: sapeva che sua sorella aveva ragione, ma quella preponderante percezione di sentirsi attanagliato da continui vincoli, che lo aveva investito con più forza negli ultimi mesi, prevalse ancora una volta dal fargli accettare in modo restio ciò che il futuro – anzi, la sua famiglia – aveva scritto per lui. «Non so ancora quanto tempo vorrei prendermi. E poi si tratta solo di un'idea.»
«Un'idea che faresti meglio a far evaporare al più presto» sentenziò Erin, che bevve la sua tisana e tornò ad osservare con attenzione il sistema di assi cartesiani sul suo quaderno.
«In ogni caso,» riprese Blythe in un sussurro, avvicinandosi un po' più a lei, «non parlarne con i nostri, soprattutto con papà.»
«Ti spaventa il suo giudizio?»
«No, solo non voglio che si metta lì a dirmi cos'è importante per me. Che poi è quello che hai fatto anche tu.»
«Ehi, ascolta» replicò Erin, facendo per voltarsi di nuovo verso di lui. Gli prese una mano tra le sue, più sottili e delicate. «Non è esattamente la stessa cosa. So chiaramente che non dico quello che vorresti sentirti dire, ma vedi, io lo faccio per proteggerti. Papà non lascerà mai che tu possa anche solo lontanamente rinunciare a prendere il suo posto. E se tu soltanto ti mettessi di traverso, avresti molti più problemi di quanti credi di averne ora. Credimi, so per certo che ci sono un mucchio di cose più importanti a cui dovremmo poterci dedicare. Certo, ti ho detto che il college è la cosa più importante, ma solo perché ho assimilato le grandi necessità impellenti, quelle per cui siamo stati scelti a ricoprire determinati ruoli. E tu, tu devi accettare il tuo ruolo. Ti servirà del tempo, ma alla fine ci riuscirai, lo accetterai con serenità. Se non lo farai, dovrai affrontare un conflitto che perderai, che ti riporterà sui tuoi passi con una grande forza d'urto, e ti farai male. A quel punto dovrai accettare il tuo ruolo dolorosamente. Cosa credi che sia meglio?»
Sua sorella lo fissò con quegli occhi che Blythe aveva sempre trovato più algidi dei suoi, più severi, più influenti, e persino più sensibili. Si limitò a raccogliere la giacca college dal letto ricoperto di una morbida trapunta bianca e, senza dire alcunché, uscì dalla stanza, poi dalla dimora, infine superò i boschi, sperando che la sua "grande necessità impellente" – come Erin l'aveva definita – smettesse di seguirlo oltre quell'immenso scudo naturale.
*
Lotte fissò per qualche secondo il nevischio depositatosi sul suo guanto, prima di volgere un sorriso al ragazzo che le camminava accanto. «E' da un po' che va avanti così.»
«Cosa?» chiese Aaron, dopo aver sorseggiato un po' della sua cioccolata calda.
«Questo tempo. La prima nevicata è arrivata oltre un mese fa. A Philadelphia è la stessa cosa?»
«Diciamo che non fa così freddo, ma l'inverno sa essere altrettanto lungo. Qui però non è così male.»
«No, ma si gela troppo anche solo per una breve passeggiata.»
«Vuoi che ti riaccompagni?»
Lotte lasciò che Aaron la guardasse un momento coi suoi grandi occhi nocciola, quindi rispose: «Va bene così, vorrei restare con te ancora per un po'.»
«Possiamo stare insieme anche in macchina, o da qualche altra parte.»
«Tipo al motel?»
«Già, credo... credo che si potrebbe» rispose Aaron girando il capo da un'altra parte.
Lotte riconobbe la sua espressione incerta quando lui tornò a guardare il marciapiede su cui stavano camminando. «Il motel non va bene?»
«Oh, no, no, è che... non mi rende troppo sicuro.»
Provò a decifrare quella risposta, così replicò: «Ti riferisci all'andarci con una ragazza?»
«Diciamo che... non vorrei che i miei genitori mi trovassero lì in, ecco, in buona compagnia.»
«Capisco perfettamente. Allora andrà bene anche in macchina.» Lotte sorrise e assaporò la sua cioccolata calda.
«Grazie per la comprensione» fece Aaron, replicando con un sorriso forzato.
«Ma figurati.» Col silenzio che prese a farsi insistente, sospirò e guardando in fondo alla strada gli alberi e le piccole abitazioni sostituirsi agli edifici pubblici, cuore pulsante della città, disse: «Nel racconto che mi hai fatto leggere, sembra proprio che Anderson abbia tanto di tuo, tanti aspetti che so per certo che ti appartengono.»
«Sai per certo che mi appartengono? Attenzione, non mi conosci poi da chissà quanto» disse ridendo Aaron.
«Okay, okay, mi correggo: aspetti che credo ti appartengano. Ora va meglio? Okay. Anderson però viene da una piccola città, ed è proprio a proposito di questo aspetto che ho trovato qualche incertezza.»
«E me ne parli solo ora? Voglio dire, sono passate tipo tre settimane da quando te l'ho fatto leggere.» Aaron la guardò con aria di finta disapprovazione.
«Lo so, lo so, ma ci ho pensato solo adesso.»
«Intendi che avrei potuto scriverlo meglio?»
«Non intendo questo. Tu vieni da un ambiente diverso da Edwynville, e quando nel racconto si è trattato di descrivere la piccola città natale di Anderson, il modo in cui lì la vita scorre placida e che lui rivive attraverso i ricordi, non saprei... Credo che il risultato sarebbe stato migliore se lui fosse stato originario di un posto diverso, un po' come Philadelphia.»
«Perché così avrei avuto a che fare con una materia più vicina a me?»
«Esatto, avresti parlato più facilmente e con risultati migliori di posti che conosci sin dalla nascita. Perché far crescere Anderson in una piccola cittadina?»
Aaron scosse il capo e guardò verso il basso. Il respiro si condensò in una nuvoletta a pochi centimetri dal suo viso. «Sai, è proprio perché in Anderson c'era già molto di me, che ho voluto prenderne un po' le distanze, e penso che renderlo originario di un posto diverso da quello in cui sono cresciuto potesse già essere qualcosa.»
«Non vuoi che il tuo protagonista sia troppo simile a te?» chiese Lotte, sperando di carpirne qualcosa in più.
«Non è il mio protagonista, è solo un esperimento, fallito per metà, aggiungerei. In ogni caso, non credo faccia bene creare personaggi che siano troppo simili a noi. Si rischia di restare imbrigliati e di affezionarsi a loro nel modo sbagliato, e di non farli sbagliare lungo la via per paura che così siamo anche noi a sbagliare.»
«Ed è fondamentale che i personaggi di una storia sbaglino.»
«Per l'appunto» affermò Aaron, sorridendo. «Sennò non ci sarebbe nulla da raccontare.»
«C'è chi riesce a raccontare grandi storie senza che nulla accada al loro interno.»
«Oh, sì, certo, i grandi autori ci riescono. Ma io non sono un grande autore, non sono nemmeno un autore.»
«Lascia perdere le lamentele. Con la scrittura ci sai fare.»
Raggiunsero la berlina grigia, e prima che Lotte potesse avvicinarsi allo sportello, Aaron gli si parò davanti. La fissò a lungo – o perlomeno questa fu la percezione che lei ebbe – e le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Aaron teneva la testa leggermente inclinata da un lato, con un'espressione indecifrabile sul volto: sembrava volesse nascondere un denso strato di apprensione dietro la forzatura di un sorriso. Ciononostante Lotte riuscì quasi a convincersi che la sua fosse semplicemente un'inesatta interpretazione. «Stai bene?» si limitò a chiedere alla fine, ora stretta fra le braccia di Aaron.
Il ragazzo annuì, baciandola piano sulle labbra. «Domani sarò a Philadelphia. Partirò presto, in mattinata. Fa davvero strano pensare di tornarci dopo mesi.»
«Immagino di sì. Cosa farai una volta lì?» chiese Lotte stringendo gli occhi.
«Devo... Andrò a trovare una persona. E' il suo compleanno.»
«Allora c'è qualcuno che hai ancora a cuore in quella città.»
Aaron schiuse le labbra per rispondere, ma tentennò un momento e voltò il capo di lato, guardando in fondo alla strada buia. Tornò a guardarla negli occhi cerulei, sorrise e, annuendo, disse: «Qualcosa di simile.»
Angolo Autore:
vi ricordate l'esame di m**** per cui ero impegnatissimo fino a poco tempo fa? Ecco, l'ho passato. Ora si va a meno uno, finalmente, non ne voglio sapere più niente. Ad ogni modo, questo 21esimo capitolo dalle atmosfere pacate e tranquille, almeno in superficie, aprirà la strada ad una forte rivelazione sul passato di Aaron, fin'ora tenuto molto in ombra dal suo tentativo di costruirsi nuove possibilità e relazioni che, per quanto precarie, hanno sortito qualche effetto sulla sua capacità di "andare avanti". Poi c'è Garrett, ma quello è un folle, e a ben vedere sembra lo siano anche di più i genitori (classici rompiscatole sul modello di chi vuole fare il papà o la mamma teenager). Dicevo, la vicenda di Garrett è da seguire, quindi non fatevi pregare, restate sintonizzati. Così come per Lotte, Blythe, Erin e Bonnie, che ogni tanto non sa dove andare parare quando non vuole stare col padre tra i piedi..! Vabbè, questa è un'altra storia. Leggete, votate, apprezzate, e alla prossima!
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