Capitolo 14

Siedo con le dita delle due mani incrociate, poggiate sulle gambe, tenendo lo sguardo basso nervosamente. Dalla mia tasca giunge un suono breve e squillante, così ne estraggo la fonte. Sul display del telefono compare un messaggio, è il suo: "Arrivo". Ripongo il telefono nei jeans con goffaggine e riesco a percepire il quasi irrilevante tremolio delle mani. Getto indietro il capo contro il poggiatesta dell'auto, sospirando con forza verso il tettuccio.

Un'auto passa accanto alla mia e accosta poco più avanti. Lo sportello del passeggero si apre e ne esce una ragazza. Riconosco Margoux quando ha già oltrepassato metà della strada che ci separa. Giunta in prossimità della mia auto rosso fiammante, inclina leggermente la schiena e guarda oltre il finestrino, assicurandosi così che si trattasse di me. Sorride, accomodandosi nel sedile accanto al mio.

«Ciao!» Nessun accenno di nervosismo o trepidazione nella sua voce morbida, mentre io tradisco una non trascurabile forma di agitazione con un "ciao" quasi smorzato, bilanciando il tutto con un sorriso sincero.

«Scusa per non averti avvisato con più anticipo, la mia missione...» provo a concludere la frase, dimenandomi in una lotta intestina per tenere alta la concentrazione tanto su di lei quanto sulla strada che ho ricominciato a percorrere.

«Non preoccuparti, ero lì lì per ritirarmi, ma appena ho letto il tuo messaggio ho fatto il possibile per raggiungerti al più presto. E poi ora non c'è il coprifuoco, dobbiamo approfittarne a tutti i costi.»

Mi volto un momento a guardarla, cogliendo la linearità invidiabile del suo profilo, appena in tempo per rimettere gli occhi sulla strada. Sorpasso un auto e mi getto in corsa sul viale alberato poco al di fuori della città.

«Posso portarti via di qui?» le chiedo.

«Via dove?»

«Fuori città.» Controllo l'orologio digitale all'interno della lunetta davanti a me, e spero che Margoux non rifiuti la mia proposta; a quest'ora gli insediamenti della Guardia Repubblicana sono ancora consistenti in tutta quanta quest'area, e non voglio che riconoscano anche uno solo di noi due.

«Va benissimo, non ho orari» mi risponde Margoux sorridendo.

Durante il tragitto notturno affrontiamo ogni sorta di argomento che non celi il benché minimo timore di un possibile imbarazzo. Mi dice che i primi mesi di apprendistato nel Corpo di Giurisdizione vanno a gonfie vele, ma non ne avrei mai dubitato. Margoux ha vent'anni e un futuro già scritto da se stessa. Vede il nostro mondo come un'unica grande possibilità da cogliere in ogni sua parte e non dubita un attimo delle sue capacità. Io, Anderson Moriarty, al contrario non ho idea di dove stia conducendo la mia esistenza. Un attestato di Inutilità Letteraria in tasca, la visione assai distorta di un sognatore tormentato, e un giuramento di fedeltà al Corpo di Gendarmeria che non è così difficile da disdire, perché al giorno d'oggi la fedeltà nella nostra terra è solo l'emblema ormai sbiadito di una civiltà morta due generazioni fa.

Abbiamo già percorso una decina di chilometri e una città della Contea dal nome impronunciabile prende a mostrare i suoi bagliori di modernità davanti ai nostri occhi. Non ho idea del come e del quando, ma i nostri discorsi hanno raggiunto l'ambito dell'infanzia nostalgica.

«E così, quando eravamo piccole preparammo questo intruglio di sostanze del nostro orto, con una dose di succo di mirtilli, qualche granello di polvere extradimensionale-»

«-Per la miseria! Polvere extradimensionale? Che ci facevate?» la interrompo io sorridendo, mentre fatico a tenere gli occhi lontani dal suo viso.

«Era dei miei nonni e dei miei genitori, roba da adulti. Ad ogni modo, l'intruglio assunse un colore violaceo, e lo versammo accanto ad una lucertola che avevamo precedentemente imprigionato in una scatola, così da costringerla ad assaggiare. Una volta fatto, liberammo la lucertola e la lasciammo seguire la sua strada. Probabilmente è morta poco dopo, o si sarà trasformata in qualcosa di mostruoso.» Ride in modo incontrollato e sguaiato alle sue stesse parole, portandosi le mani sullo stomaco e piegandosi in avanti. Gli occhiali le scivolano un po' più giù per via dei suoi movimenti bruschi, ma non pare farci alcun caso.

«Tu e tua sorella siete delle persone terribili. Ma non credo lo siate più di me» intervengo, mentre ruoto lo sterzo di novanta gradi a destra per immettermi sull'ampio ponte che sovrasta un tratto del letto del fiume.

«E cos'è che avresti fatto di così terribile? Sentiamo» mi invoglia Margoux. Si sistema un ciuffo di capelli bruni dietro l'orecchio e fissa lo sguardo sul mio. E' passato pochissimo da quando l'ho conosciuta per davvero - al di là delle apparenze a cui ero in precedenza abituato, e a cui non facevo minimamente caso – e ho già compreso appieno che sa rivolgere un'attenzione assoluta e incondizionata al suo interlocutore, con gli occhi che inseguono ogni sua parola senza la benché minima ombra di cedimento.

«Quando io, i miei fratelli e miei cugini eravamo piccoli, andavamo spesso in campagna da mio nonno, nella Gran Distesa dei Frutti Arancio, hai presente? Ecco, non so cosa stesse passando nelle nostre menti malate, ma creammo una sorta di conca d'acqua nel terreno e ci immergemmo un numero esagerato di lumache. Fu una sorta di campo di concentramento per lumache! Capisci?»

Margoux è di nuovo piegata su se stessa, rifiutando qualsivoglia forma di contegno. Abbassa il finestrino per accogliere un'aria certamente più sana di quella che noi stessi abbiamo creato. «Non credevo potesse essere possibile, ma sì, hai fatto di peggio tu!»

«Come si può definire una cosa del genere? Abbiamo portato ad uno sterminio storico e noi ci ridiamo pure su. Un... Lumicidio?» Lascio che la mia risata trabocchi tanto quanto la sua, nel momento in cui i suoi occhi roteano verso l'alto e cercano un appiglio che possa farla scampare ad una degenerazione incombente.

«Al massimo possiamo parlare di Lumachicidio! Un Lumicidio è più l'uccisione dei lumi, ne sei consapevole?»

«Assolutamente, è stato un lumachicidio. Un genocidio di lumache, un genocidio di lumachicidio.»

«No, aspetta, genocidio di lumachicidio è assolutamente errato, grammaticalmente parlando.» Stavolta scuote rapidamente il capo da un lato all'altro, raccoglie i capelli lisci e, accarezzandoli, li fa ricadere su una spalla.

Attraversiamo la città e la luminescenza delle sue moderne strutture per un breve tratto, prima di giungere in prossimità del mare. Un elivelivolo di piccole dimensioni sovrasta le nostre teste quando scendiamo dall'auto, prima di atterrare in cima ad una struttura a forma di spirale.

Io e Margoux abbiamo lasciato che le argomentazioni – o presunte tali – sul nostro triste passato da predatori di vite innocenti, decadesse per affrontare un interesse comune, il cinema. Così Margoux, le braccia conserte nel suo giubbotto di pelle, comincia a scandagliare il suo animo in cerca delle pellicole che l'hanno maggiormente segnata, e non ci mette granché prima di immergersi in un nuovo, avvinto monologo, accompagnato da gesti e lievi movimenti delle dita nell'aria davanti a sé. E' un po' come se ognuno di questi gesti dia modularità alla sua voce, e io mi preoccupo di non perdermi anche uno solo di essi.

Conduco Margoux su una scogliera, il mare nella notte è quasi invisibile agli occhi, ma ci si percepisce la vicinanza quando le onde si infrangono contro la roccia. Ci sediamo l'uno accanto a l'altro su uno scoglio sufficientemente ampio per entrambi. Margoux sta parlando del suo ragazzo, o meglio, di quello che è stato il suo ragazzo. La sua lontananza durante l'apprendistato ha reso tutto quanto più difficile, e lui ha ammesso di aver avuto una relazione mentre era via. Ho sempre pensato che Margoux non fosse affatto incline al perdono di un simile gesto, eppure nonostante la sua ferma volontà di non cedere ad alcuna forma che lei interpreterebbe come di debolezza, percepisce nel suo cuore che le resistenze sarebbero del tutto frangibili ad un convinto ritorno di lui. Così ci ritroviamo lì, a guardare il mare di fronte a noi, con la sola compagnia delle parole di Margoux tese ad affrontare argomenti sempre più scomodi per se stessa. Tengo le gambe attaccate al corpo e avvolte fra le braccia, e continuo ad ascoltarla. In tanti pensano che Margoux sia una persona logorroica, che si perda in discorsi prolissi e che quindi metta da parte chi ha accanto per servirsene come testimone delle sue disavventure e future imprese. Dicono sia una persona tremendamente convinta di sé e altezzosa, ma non è forse l'autocompiacimento una necessità per se stessi? Come si può credere che qualcuno da fuori possa convincere Margoux di cosa è capace meglio di lei stessa, se non è lei la prima a credere nelle sue capacità?

Un altro elivelivolo sorvola le nostre teste, stavolta più grande e dalla forma ovale. Margoux è visibilmente ferita, probabilmente non accetta dentro di sé di essersi lasciata coinvolgere emotivamente da qualcosa che ora non può controllare, da qualcosa che irrimediabilmente potrebbe farle perdere il filo dei suoi interessi per chissà quanto tempo. Mi ha detto in precedenza di aver sempre desiderato l'autosufficienza, il bastare da sé, di slegare la propria felicità dalle relazioni così da conquistarsi una vera indipendenza.

Sta tornando indietro nel tempo, mi parla di un certo Pearce e della relazione più sbagliata della sua intera esistenza. Non è una sentimentale: quando Pearce le ha regalato un libro che lei ha finto di leggere, ci ha allegato una lettera, e Margoux odia la formalità di un sentimento.

«Perché mai deve concludere la lettera con "Il tuo... Pearce"?»

Me la sono certamente cercata, i nostri due corpi rivolti verso il mare non hanno neppure un margine di distanza, così devo solo rivolgere il capo a Margoux, sulla mia sinistra, e avvicinarlo un po' al suo orecchio. «Il tuo... seme» sussurro. Non ho idea da dove possa essere nata una simile battuta, ma Margoux è già nuovamente piegata su se stessa, per poi esplodere in una risata rivolta verso il cielo.

«E' assolutamente fuorviante! Il tuo seme!» esclama, sul viso quell'ampio sorriso che in altri sarebbe apparso del tutto forzato, non in lei. Corruga l'espressione e gli occhiali si spostano appena verso l'alto mentre mi guarda, assestandomi una leggera gomitata sul fianco.

Mentre la nostra risata si spegne, sollevo il capo e seguo il profilo delle nuvole appena visibili nel cielo quasi plumbeo. Fra l'una e l'altra si scorgono stelle, polvere extradimensionale, pianeti ignoti. Punto l'indice in alto e seguo quei profili, e naturalmente quando finiamo per definire la forma che le nostre menti assegnano alle nuvole, i risultati di Margoux non potrebbero essere più differenti dai miei.

Mi chiede poco dopo di alzarci, e riprendiamo a camminare lungo il molo. Nonostante ci troviamo in una realtà completamente diversa da quella del nostro paese d'origine, in una città con un'anima e un'esuberanza travolgenti, anche qui gli effetti della guerra hanno ridimensionato gli entusiasmi e portato tutti a privarsi di momenti come quelli che io e Margoux stiamo vivendo. E' notte inoltrata, ma non ho la minima intenzione di tornare. Mi fermo un momento, abbassandomi per riallacciare una scarpa. Nel movimento, la piccola confezione di sigarette sta per scivolare giù dal taschino sul petto del mio giubbotto di jeans. Lo afferrò con un rapido riflesso prima che possa toccare il suolo.

«Non credevo fumassi» dice Margoux, puntando l'indice sul pacchetto, mentre lo ripongo al suo posto.

«Oh, non fumo. Non saprei neanche come spiegartelo, è... di compagnia.» Estraggo nuovamente il pacco e lo apro davanti a lei, così che possa averne chiaro il contenuto: un'unica sigaretta.

«Di compagnia?» ripete, e solleva un sopracciglio.

«Mettiamola così, mi fa sapere che è lì. Non sento assolutamente il bisogno di toccarla, di consumarla, ma sai, ci sono dei momenti in cui le cose non vanno proprio come ci aspettiamo che vadano, o semplicemente momenti in cui non desideriamo altro che compiere un gesto, e per farlo magari c'è bisogno di un mezzo. Ora non ho idea del perché dovrei servirmi di questo... rotolo di filtro e tabacco, non ho idea della gestualità di cui potrei aver bisogno, ma mi rende più tranquillo il sapere che c'è.»

«Credo di aver capito cosa intendi.»

«Bene, perché io non credo di saperlo,» sorrido e scuoto il capo, «alle volte so davvero poco delle cose che penso.»

Ripercorriamo la strada di ritorno parlando poco, quasi neanche una parola. Margoux tiene il finestrino appena abbassato, e l'aria che filtra le scompiglia i lunghi capelli bruni. Più mi volto verso di lei e colgo il suo profilo innestarsi nei pochi passaggi di luce lunare, più mi convinco che saranno gli ultimi momenti, e non ho idea del perché.

Vorrei sbloccare la mia situazione, il mio disagio, ma la continua ricerca di se stessi spesso non porta altro che ulteriori domande, ulteriori intoppi. «Cerco una chiave» sussurro, gli occhi fissi davanti alla strada sinuosa che percorro.

Margoux si volta verso di me. «Quale chiave?»

«La chiave per aprire una porta, anzi, che apra ogni porta. Voglio conoscermi più a fondo, ma alcune serrature sono impossibili da forzare. Serve una chiave.» Confido che le mie parole giungano alla sua mente stanca e che le restituiscano un senso.

«Un po' come le chiavi che aprono le altre dimensioni» replica Margoux, stavolta impassibile.

«E tu ci credi davvero?»

Solleva le spalle. «Devono essere chiavi fatte di polvere extradimensionale dall'efficacia assoluta. Magari possono aprire varchi per dimensioni in cui i gigli, le margherite, e ogni altro fiore di qui si combina con qualcos'altro di incredibile la fuori. Realtà in cui il senso di pace si realizza in modo del tutto connaturato ad ogni parte che la costituisce.»

Annuisco. «Deve essere incredibile.»

Accosto sul ciglio della strada, e guardo la porta d'ingresso dell'edificio antico in cui Margoux vive. Si sgranchisce e volge il proprio corpo verso il mio, gli occhi che mi fissano attraverso il riflesso degli occhiali. Non sono sicuro di poter reggere il suo sguardo, come non sono sicuro di poter dar voce ai pensieri che si sono insediati poco fa nella mia testa. Conto fino a cinque e la guardo, sorridendole.

«Sono stata bene» mi dice.

«Anche io.» Non riuscirò a dirle altro per il mio naturale impedimento ad affrontare una situazione come questa.

Mi saluta baciandomi sulla guancia, prima di sorridere un'ultima volta. «Buonanotte Anderson.»

«Notte Margoux.» E aspettandola mentre si richiude il portone alle spalle, batto i pugni contro lo sterzo ed espello l'aria trattenuta fino a quel momento nei polmoni.

Aaron interruppe la scrittura quando la corrente saltò. Il display, divenuto improvvisamente nero, ne cancellò ogni parola. Anche Paroxysm of Happiness, che era esplosa fino ad un attimo prima nelle sue orecchie, si interruppe bruscamente.
«Dannazione» riuscì a borbottare. Si gettò sul letto nel buio notturno della sua stanza, e ripensò alle parole a cui aveva dato vita. Ne era passato di tempo da quando era stato capace di scrivere qualcosa per se stesso, e non gli andava neanche di riscoprire a quale momento risalisse quell'ultima volta. Si chiese, in una spontanea immersione nella dimensione di Anderson e Margoux, se una chiave potesse esistere davvero, e la possibilità di una ricerca senza fine, o che al contrario potesse concludersi con l'unica avvilente soluzione che in realtà si è soli, lo gettò nello sconforto che aveva sempre tentato di rifuggire. 

Angolo autore:

cominciamo con le grosse e sincere scuse per il mio inammissibile ritardo! Potrei dirvi di tutto, e in effetti ho avuto parecchi impegni, lo studio, appuntamenti e soprattutto ho fatto da telefonista/corriere per due giorni al referendum sulle Trivelle (ahimè, il triste referendum); ma sento di dirvi soprattutto che la realtà dei fatti è che mi sono sentito mangiato dentro da un'ansia (il grumo, come lo chiamo io) direi a tratti inspiegabile. Ora, questo non si chiama l'Angolo della Psicanalisi, ma ciò che ho sentito mi ha portato a scrivere anche un capitolo diverso, intimamente mio. C'è questa sorta di meta-storia, di storia nella storia, di cui Aaron è l'autore (sì, la scrittura è un suo interesse che scopriremo forse a breve), che ho sentito come assolutamente necessaria da raccontare, anche perché io adoro la combinazione di generi e di dimensioni. Potrei dire che Margoux è un po' l'incarnazione delle volontà e dei dubbi di Aaron, ma non è importante parlarne. Ciò che conta è che mi perdoniate (sempre che ci abbiate posto caso) il ritardo e che soprattutto possiate apprezzate il capitolo sui generis.

Noi ci vediamo alla prossima! :)

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