Capitolo 25: Chiedimelo
Mio tenero germoglio, che non amo perché sulla mia pianta sei rifiorita, ma perché sei tanto debole e amore ti ha concesso a me.
(Umberto Saba)
Venni chiamata da Mark, nel suo ufficio all'ultimo piano. Quando entrai, notai immediatamente la figura longilinea di Ryan e quella di Dylan.
Entrambi posarono gli occhi su di me, quando mi fermai alla porta.
– Prego, Deitra. Entra pure – mi incitò Mark, con un sorriso tirato. Lo ascoltai e chiusi la porta dietro di me, con il respiro incastrato in gola.
Ryan posò gli occhi sui pantaloni bianchi a palazzo che indossavo ed un cardigan lilla. Mi schiarii la voce, quando continuò a tenermi gli occhi addosso per più tempo del solito. Questo sembrò svegliarlo letteralmente, si irrigidì e si rigirò.
– Qualcuno oggi apprezza il vestiario – lo prese in giro Dylan. – Ormai non sei più in grado di comportarti come un uomo professionale. O forse non lo sei mai stato.
– Dylan – si intromise Mark, con una voce più dura del solito. – Ryan e Deitra si conoscono da quando sono piccoli.
– Sì, signore – si limitò a dire Dylan, dopo avermi guardato con un sorriso malizioso.
Ryan si limitò a congiungere le mani. Tutto in lui sembrava dare l'idea di un ragazzo composto e calmo... se non fosse stato per quel muscolo della mascella che continuava a guizzare.
– Buongiorno – rimarcai. – Che succede?
– Ryan ha richiesto nuovamente la tua presenza nel suo settore – annunciò Mark.
Trasalii leggermente e cercai gli occhi di Ryan, ma lui stava continuando ad osservare attentamente il comportamento di Dylan. – Emh... mi trovo bene con Dylan – mi limitai a dire. Non era vero, non mi trovavo bene con Dylan. Da quando mi aveva chiesto informazioni su Ryan era diventato scorbutico e scostante, ma sapevo che tornare al settore contabile mi avrebbe messo a dura prova.
La realtà era che mi spaventava il mio corpo, quando c'era di mezzo anche Ryan. Mi spaventata la mia mente, perché non sembrava mai più forte del desiderio che continuava a spingermi verso di lui.
E sì, una parte di me era comunque elettrizzata. Era la parte di me che più fremeva un contatto con Ryan, o semplicemente quelle occhiate in cui era in grado di rendermi nervosa.
Ryan si strinse il labbro inferiore tra i denti, trattenendo un sorriso, quando mi sentì parlare.
– Il tempo per provare entrambi i settori l'hai avuto. Preferisci il settore paghe? – mi domandò Mark.
– No – dissi d'istinto, quando un sorrisino compiaciuto si presentò sulle labbra di Dylan.
– Ottimo, allora... da domani ti aspettano al settore contabile. Ora andate a casa.
Mark ci congedò girandosi di spalle, verso l'enorme finestra che dava su gli altri edifici alti quanto quello dove ci trovavamo in quel momento.
– Complimenti – iniziò Dylan, osservando Ryan mentre si affrettavano a raggiungere l'ascensore. – Vedo che come sempre si fa come chiedi tu.
Ryan passò lentamente la lingua sulla dentatura perfetta. – In realtà, mio padre è stato abbastanza intelligente a capire le tue vere intenzioni – replicò Ryan, senza guardarmi. – E, mi dispiace, ma sei l'unico a fare ancora giochetti per vendicare il fatto di non essere abbastanza bravo.
Dylan ridacchiò, entrando in ascensore dopo di noi. – Sei solo un figlio di papà.
– No, sono solo una persona intelligente che capisce quando deve stare in silenzio e quando invece può intervenire – disse Ryan. – E sono arrivato dove sono anche perché non faccio giochetti alle spalle degli altri.
Senza aggiungere una parola, uscii insieme a Dylan, per andare a prendere le mie cose. Uscii in fretta dal palazzo, guardandomi in giro. Mi fermai di scatto appena notai Ryan appoggiato con la schiena sul mio sportello, la tesa china sul cellulare, mentre le dita si muovevano veloci sulla tastiera.
Sbuffai, sentendo il cuore sussultare leggermente alla visione di quel ragazzo con quel maledetto completo grigio scuro che metteva in evidenza i capelli biondi e la pelle chiara. Sentendo i piccoli tacchi battere sull'asfalto, alzò la testa su di me. Mise il cellulare in tasca, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Ne approfittai per osservare quei pantaloni fasciargli le gambe muscolose, la camicia bianca non troppo stretta ma abbastanza da far intravedere i muscoli ed il colletto leggermente aperto. Era dannatamente bello e ne era fin troppo consapevole forse.
– Perché l'hai chiesto? – chiesi io, stringendo la borsa.
– L'ho fatto prima della partenza – rispose, impassibile. – Non potevo rimangiarmi tutto.
– Ok. – Mi misi davanti a lui, incrociando le braccia appena sotto il seno. Lo guardai con le sopracciglia alzate ed aggiunsi: – Che cosa c'è?
– Non voglio più sentire una scenata del genere – iniziò.
– Quale scenata? Sei tu che fai il maschio alfa con Dylan – lo schernii.
– Sai benissimo di che cosa sto parlando – disse, la voce piatta e senza alcuna emozione. – Forse in passato fare queste scenate ti ha portato a qualcosa, con gli altri. A me da semplicemente fastidio.
Ridacchiai. – Con gli altri?! – ripetei, alzando leggermente la voce.
– Non mi interessa – tagliò corto. – Con me queste cose non devono accadere. Odio le scenate di gelosia in pubblico. In realtà, le odio in generale.
– Volevo soltanto farti capire che dovevi andartene – borbottai, guardando le sue scarpe eleganti.
– Da casa mia?! – chiese lui con una vena di divertimento.
– Da casa di mio fratello – lo corressi.
– È casa di entrambi – disse, allungando leggermente le gambe verso di me.
– Stavamo parlando.
– Lo so – disse. – L'ho capito nel momento esatto in cui tu eri in piedi davanti a lui con il dito puntato ed il viso in fiamme. Stavate litigando. – Sospirò, imitandomi: incrociò le braccia. Mi venne in mente un articolo che avevo letto riguardo l'imitare i movimenti a livello inconscio. Di solito voleva dire che c'era una buona intesa e che la persona aveva una buona considerazione dell'altra. – Comunque, come al solito, ha ascoltato più te che gli altri. Sembra essersi rimesso in piedi.
Annuii. – Lo so. Aveva bisogno di una strigliata, non di essere capito – borbottai.
Mi guardò per momenti interminabili, con un'espressione che non riuscii a definire. – Justin parla molto. Mi ha detto che hai chiuso con lui – se ne uscì.
– Vuoi parlare di Justin adesso? – ringhiai. – Poco fa mi hai detto che non vuoi scenate di gelosia.
– Sto solamente cercando di capire – disse, senza staccarmi gli occhi di dosso. – Hai chiuso con entrambi.
Sospirai. – È complicato.
– Non credo proprio – borbottò.
Alzai il mento, arrabbiata. – Lo è. Vuoi sapere che cosa non è complicato? Tu che stai attaccato a Kitty ed io che sono costretta a vedervi insieme.
Si passò una mano tra i capelli, alzando lo sguardo sulla porta dietro di me. – Non devo spiegarti il perché io mi sia ritrovato di nuovo con lei – mormorò. Mi incenerì. – Dopotutto, sei stata tu a decidere di non proseguire quello che c'era tra di noi.
Ridacchiai. – Che cosa c'era? Un paio di strusciatine e toccatine? – lo derisi io. Ero arrabbiata, ma ero sincera. Aggrottò la fronte, contrariato da quell'affermazione. – Perché l'hai reso solamente questo nel momento esatto in cui non hai chiuso le cose con lei.
Si avvicinò a me, con le mani nelle tasche. I nostri occhi si incastrarono, il blu dei suoi sembrò entrarmi dentro e mischiarsi al rosso del mio cuore. – Non devo giustificarmi. Non devo spiegarti quello che faccio – ringhiò. – Se vuoi dare la colpa a me, fai pure. Io so la verità.
– Anche io la so – ringhiai, eliminando del tutto lo spazio che c'era tra noi. Tremavo leggermente dalla rabbia, come una bambina. – So quello che riesci a fare tu e quello che non riesco a fare io. So che pochi giorni fa stavi ridendo con un'altra e so–
– Non voglio queste cazzo di scenate – ringhiò, avvicinando il viso al mio. – Faccio quello che mi sento di fare. Non sono legato a te e tu non sei legata a me, perché non hai il coraggio di dire a Dan la verità. Come se il non stare insieme adesso andasse a cancellare tutto quello che abbiamo fatto prima.
– Non vuoi queste scenate?! – esclamai io. – Allora non farmele fare!
Rise. – Ho smesso di insegnarti come ci si comporta.
Strinsi le mani, furiosa. – Tu non mi hai mai insegnato niente.
Fece per parlare, quando Dylan uscì dal palazzo, furioso. Sbatté lo sportello della macchina e sgommò via.
– Finalmente – mormorò Ryan.
Non feci in tempo a girarmi nuovamente verso di lui, che lo sentii agguantare il mio maglioncino, per poi girarmi e far sbattere rumorosamente la mia schiena sullo sportello della mia macchina. Un respiro ansante uscì dalle mie labbra e lo catturò all'istante, baciandomi.
Mi irrigidii all'istante, nonostante il calore della sua bocca sulla mia. Era completamente abbassato verso di me.
Afferrò la coda e la tirò, facendomi alzare malamente il viso verso di lui per baciarmi affondo. Alzò leggermente il maglioncino, affinché le sue mani potessero toccare la mia pelle calda. Ansimò, contro le mie labbra, quando le mie dita finirono tra i passanti dei suoi pantaloni, affinché si avvicinasse ancora di più a me.
– Puoi pensare quello che vuoi – mi sussurrò all'orecchio, prima di lasciarmi una scia di baci lungo tutto il collo. – Ma sei tu che voglio.
Annaspai, stringendo le sue spalle, mentre le sue dita mi stringevano così tanto da lasciare mezzelune sui miei fianchi.
Mi afferrò una gamba, portandosela accanto al fianco. Mi coprì totalmente con il suo corpo. Il vento freddo colpì la pelle che aveva lasciato esposto. Si premette contro di me, mordendomi la pelle sopra la clavicola e baciandola.
– Ryan... – lo chiamai, con il cuore in gola.
Gemette. – Per favore, D... – sussurrò, le labbra ancora sulle mie.
La sua era una preghiera. Mi stava chiedendo in modo così disperato di ripensarci.
– Non riesco a tornare indietro – ammise, aprendo gli occhi. – Non riesco a guardati e pensare che non potrò più parlarti come prima, o confidarmi come prima... o volerti come prima. Non ci riesco.
Non perdono una persona che mi ha giurato di amarmi e nel frattempo ha deciso di mentirmi guardandomi negli occhi.
– Ed io non riesco a pensare che un'altra possa in qualche modo toccarti in questo modo – mormorai io, con le gote rosse.
– Chiedimelo – mi disse, guardandomi con lussuria. – Chiedimelo.
– Non posso...
– Sì che puoi – ringhiò lui, stringendo gli occhi, frustrato. Posò la fronte sulla mia, con il respiro affannato. – Possiamo farlo.
– Non possiamo – dissi io, con la voce rotta.
– Provo per te un sentimento che non ho mai provato in tutta la mia vita – cercò di dire lui, la voce rauca e ridotta in un sussurro. – Quando sei attorno a me, non riesco a non guardarti per capire quello che ti passa per la testa. Mi sembra di vivere le giornate in base all'espressione che hai in viso, in base a quelle che sono le tue emozioni.
Alzai gli occhi su di lui, completamente rapita. Perché era esattamente quello che farebbe una persona innamorata, no?
O una persona che tiene semplicemente ad un'altra, disse la vocetta dentro di me.
Non perdono una persona che mi ha giurato di amarmi e nel frattempo ha deciso di mentirmi guardandomi negli occhi.
– No.
Lo allontanai con forza.
Si fece allontanare. Aveva l'espressione di un ragazzo a cui gli avevano appena amputato un arto. Fece alcuni passi indietro. Annuì. – No – ripeté lentamente. – Deitra, pensi che non facendo succedere nient'altro tra noi, possa in qualche modo scagionarti dal dire la verità a Daniel?
Scossi la testa, con le lacrime agli occhi. – Non lo so, ma posso partire da qua. Da me e te che ci allontaniamo.
Alzò il mento verso il cielo, arrabbiato e deluso, facendo guizzare più volte il muscolo della mascella. – Non starò qua a pregarti – disse, abbassando nuovamente lo sguardo su di me. – In questa storia ci stiamo insieme.
– Pensi che questo mi faccia stare bene? – chiesi. – Ma ho parlato con Daniel e mi ha praticamente detto che tu non gli faresti mai una cosa del genere, che non mi guarderesti mai in questo modo, che non mi baceresti mai come hai appena fatto... Perché tu semplicemente non glielo faresti.
Aprì la bocca, pensò a cosa dire, ma qualcosa nel suo sguardo cambiò: la speranza cessò di esistere.
– Non ci pensa nemmeno – mormorai. Lacrime scesero lentamente sul mio viso. Vedendomi in questo stato, smise di respirare. – Perché per lui non gli faresti mai una cosa del genere.
Sospirò sonoramente. – Porca troia... – sussurrò. Scosse la testa e si avvicinò nuovamente a me, asciugandomi dolcemente le lacrime. – Ti prego, ti prego... No.
– Mi sembra di non riuscire a stare con l'unica persona che voglio realmente, l'unica persona a cui... sono mai realmente appartenuta – singhiozzai. – Mi sembra di appartenerti da una vita.
– È colpa mia – mormorò, baciandomi le guance bagnate. – Non avrei mai dovuto cambiare modo di fare con te. Se non lo avessi fatto, a quest'ora penseresti ancora a me come il migliore amico di tuo fratello, con cui non hai mai avuto alcuna possibilità.
Scossi la testa per poi catturare le sue labbra con le mie, continuando a piangere. Posai una mano sul suo collo, avvicinandolo a me.
Ricambiò il bacio, stringendomi a lui con disperazione.
***
Sprofondai tra i cuscini del divano, esausta e triste.
Callie mi osservò, poco lontano da me. Sospirò e si mise a scrivere qualcosa al computer, con le gambe sotto di esso incrociate. – So che è successo qualcosa tra voi due, quando eravate in viaggio – annunciò, senza guardarmi.
Trattenni il respiro, ma non smentii.
– Non devi dirmi niente – continuò. – Non ce n'è bisogno, ti si legge in faccia.
– Calliope...
– No – mi fermò. – Non te lo sto dicendo per fartene una colpa – aggiunse, alzando gli occhi su di me. La osservai con le lacrime agli occhi. – Capisco. Ci sono determinate cose... che semplicemente non si possono fermare.
– Gli ho ammesso i miei sentimenti – mi aprii.
– Non ha risposto, immagino – borbottò. Scossi la testa. – Come siete rimasti?
– L'ho allontanato.
– E per quale motivo? – volle sapere, acida.
– Sai benissimo per chi – mormorai io, abbassando lo sguardo sulle mie mani. – Non me lo perdonerebbe mai.
– E tu potresti perdonargli questo? – chiese, mettendo da parte il computer. – Sareste in grado di perdonargli questo? Dopotutto, è per lui che non state insieme. Riuscite a guardarlo senza dargli la colpa?
Scossi la testa, perché se da una parte non lo avrei più potuto guardare senza pensare a quello che avevo accantonato per la sua felicità... dall'altra parte – Non posso dargli la colpa per una cosa che non doveva accadere a priori – aggiunsi.
– Ma è successo e nessuno dei due lo voleva – ribatté Callie. – Ryan è devoto all'amicizia che lo lega a Daniel. Nonostante questo, sembra essere più devoto a quello che prova per te.
– Forse stranamente sono io quella che non è realmente in grado di mettere da parte Daniel – sussurrai.
– Stai sbagliando – ringhiò. – Stiamo parlando della felicità di due persone a confronto della delusione di una sola persona.
– Daniel ha problemi a fidarsi...
– E questo l'ho capito fin troppo bene – digrignò i denti. – Ma tu hai un problema da quando hai dodici anni e non gliel'hai mai fatto pesare.
Scossi la testa, perché era completamente diverso. Avevo sempre avuto un debole per Ryan, ma questo sentimento non era mai stato reciproco... fino a pochi mesi fa. Daniel era stato ferito profondamente da due persone a lui care, la sua fiducia nei confronti delle persone era stata completamente sradicata per questo e stava portando conseguenze inimmaginabili.
– Se volete fare le cose di nascosto, per vedere come va ed essere sicuri di farlo per i sentimenti giusti... potete contare su di me.
***
C'era una capacità che avevo sempre invidiato alle persone, ed era la capacità di saper parlare sempre e comunque.
Non ero mai stata una che parlava, piuttosto ero una di quelle che rimanevano in silenzio ad ascoltare ed annuire.
Quella capacità di parlare per riempire qualsiasi tipo di vuoto non aveva mai fatto parte di me.
Quella stessa capacità mi mancava tutti i giorni.
E quel giorno mi mancò ancora di più.
Davanti a me c'era una dottoressa, senza occhiali o vestiti troppo seri. Mi stava guardando attentamente, senza dire niente.
Osservai le mie mani, giocando lievemente con le dita. – Questo dovrebbe essere il momento in cui inizio a parlare? – chiesi io.
– Può fare quello che vuole, in quest'ora – disse la dottoressa. – Anche rimanere in silenzio, se è quello che vuole.
Trattenni un commento sarcastico riguardo al guadagnarsi cinquanta dollari per ascoltare il silenzio di una persona.
– Non so che dire – ammisi.
– Può dirmi quello che le passa per la testa – iniziò lei.
Ridacchiai. – Mi passa per la testa che non so che dire.
Annuì osservandomi attentamente. – Le andrebbe di sdraiarsi su quel divanetto? – propose.
Osservai il divano e con una smorfia replicai: – Non proprio.
Si rese conto che davanti a lei non aveva una persona, bensì un muro. Non cercò di abbattere niente, incrociò le dita e guardò il suo quaderno aperto.
Dopo quella che mi sembrò un'eternità, decisi di parlare, per non morire di disagio. – Mia mamma è morta, un anno fa.
Annuì, tornando a guardami. – Perché non mi parla un po' di quello che è successo?
Mi resi conto troppo tardi di aver aperto un discorso che non sarei mai riuscita ad interrompere. Le raccontai di quando mia mamma era tornata, dopo un esame, e guardando il mio sorriso era sbottata a piangermi; del mio modo di scappare via.
Le spiegai che determinate malattie vanno oltre la persona stessa. C'era qualcosa... qualcosa che andava oltre alla malattia. C'era qualcosa di più tossico, che si trascinava la malattia, soprattutto il cancro. Qualcosa che ammuffiva tutto, che rattristava ogni giorno, che toglieva la speranza per poi darne un po' alla volta. Qualcosa che ti spingeva a dire che, nonostante stesse andando tutto male, non poteva andare peggio. E per "peggio" si intendeva sempre la morte.
Le parlai di notti insonni, notti piene di lacrime e preghiere, ma anche di notti in cui la stanchezza della malattia ti esplodeva e crollavi, perché non potevi fare altrimenti. Le raccontai delle minacce che avevo fatto a Dio, dei patti ma anche delle maledizioni.
Perché il cancro non solo prende gli organi, le cellule della persona malata. Prende molto di più del cervello del paziente.
C'era qualcosa di tossico in queste malattie. Qualcosa che ti faceva promettere di morire insieme a tua madre, per poi ritrovarti a guardare il suo sguardo vitreo e non sapere cosa fare se non urlare. C'era qualcosa di profondamente inesatto nel vedere la mascella di tua madre completamente rilassata. C'era qualcosa di veramente sbagliato nel non riuscire a chiuderla e c'era qualcosa di profondamente doloroso nel non sapere, di non essere in grado di chiudere le palpebre a tua madre.
Perché dopotutto nei film mi era sempre sembrato un gesto facile da compiere.
Quello che non ti facevano vedere era il modo in cui il corpo si irrigidiva quasi immediatamente. Non ti spiegavano il freddo che emana quasi immediatamente un corpo privo di vita.
E di certo Colpa delle stelle non aveva raccontato nei dettagli una malattia infame come il tumore.
Aveva raccontato di una ragazza che necessitava di ossigeno, ma non aveva mai raccontato del modo in cui un corpo soffre senza quella maledetta bombola di ossigeno: i minuti in cui i famigliari devono andare a cambiare una bombola, perché più di una non viene mai data. Le corse, la preoccupazione e la pesantezza della bombola.
Quella stessa bombola che io non ero mai riuscita a trasportare, fino a quando il medico dell'assistenza domiciliare non mi aveva guardato e, portandomi leggermente lontano da mia mamma, mi aveva detto che se ne stava andando.
Quella stessa bombola che mi ero ritrovata a trasportare, trascinandola sui miei piedi, mentre mio padre ed il medico portavano mia mamma sul suo letto.
Di quei momenti avevo solo piccoli flash. Mi ricordavo i miei singhiozzi, i miei occhi spalancati e le mie urla quando mia mamma aveva deciso di andarsene, proprio mentre io mi stavo preparando in salone per dirle addio, tra un attacco di panico ed un conato.
Le raccontai di come tutto quello che mi era passato per la testa – le metastasi alle ossa per determinati dolori che aveva quando muoveva un arto, o le metastasi al cervello quando avevo visto il suo corpo muoversi senza la volontà di mia mamma – si era poi reputato vero.
Le raccontai di come per settimane mi ero ritrovata ad osservare un punto indistinto, perché ormai non sapevo fare altro se non accudire mia mamma. E quando mi era stato tolto anche quello...
Ammisi addirittura di aver osservato gli oppioidi che avevo dato a mia mamma quando era ancora in vita, in attesa di quel coraggio... quel coraggio che mi avrebbe spinto ad inghiottire tutto ed andare da lei. Esattamente come le avevo promesso.
Le raccontai di una ragazza che aveva iniziato a fare avanti ed indietro per la sede dell'assistenza domiciliare, in cerca di qualcosa che potesse almeno in parte sostituire il bisogno di accudimento che aveva. Mi ero ritrovata più volte a consegnare medicinali, strumenti... che avevano aiutato mia madre.
La dottoressa sospirò, dopo avermi ascoltato. – Mi dispiace molto che non si sia sentita la figlia – disse.
La guardai, con occhi grandi. Perché non mi aspettavo di certo una risposta del genere. La gente di solito mi diceva che non sapeva che dire, o che le dispiaceva per quello che mi era successo.
Nessuno mi aveva mai detto una frase del genere.
Perché effettivamente... avevo smesso di essere sua figlia nel momento esatto in cui mi ero messa accanto a lei e l'avevo spinta a parlarmi della possibilità di morire, o quando mi ero ritrovata ad ascoltarla piangere, mentre mi pregava di capirla quando mi diceva che la dovevo uccidere.
Perché determinati dolori non possono essere contenuti.
La guardai negli occhi e cercai maledettamente di non piangere.
La guardai con le lacrime agli occhi e cercai disperatamente di buttare tutto dentro come facevo sempre, rendendo tutto un groviglio interno.
La guardai negli occhi e sbottai a piangere, annuendo.
Perché mi resi conto che effettivamente aveva ragione: in effetti, non mi sentivo più figlia.
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