Capitolo 13: La tua persona
Alla mia persona.
Quando mi svegliai, compresi subito il significato di quella giornata.
Per un po' cercai di rimettermi a dormire, ignorando il dolore al petto.
Dopo metà mattinata passata a letto, decisi di alzarmi per darmi una sistemata. Sul viso due occhiaie scure davano sempre di più un'idea del pallore che caratterizzava la mia pelle. Mi lavai velocemente, infilai una tuta nera ed andai al campus, nonostante avessi già perso gran parte delle lezioni.
Il tempo stava passando, se da una parte mi sembrava essere passata una vita, dall'altra mi sembrava comunque troppo poco tempo. Forse determinate perdite non si accettano mai veramente. Soprattutto se sei costretto a perdere l'unica persona che ti abbia mai capito realmente. Soprattutto se perdi la tua persona. La mia persona era la mia mamma.
I primi mesi quel giorno, il ventiquattro, era sempre stato una pallottola nel cuore. Con il tempo, il dolore si era attenuato un po' di più, dopo circa sette mesi il ventiquattro a volte non lo vedevo nemmeno sul calendario, a volte passava senza che me ne accorgessi. Tuttavia, c'erano alcuni mesi in cui era tutto più difficile.
Quel ventiquattro ottobre era l'anniversario della morte di mamma.
Ed io mi guardavo attorno, alla ricerca di qualcosa. Non era mia mamma. Era una qualche risposta. Qualcuno o qualcosa che mi potesse far capire perché dovesse ancora fare tanto male, o perché dovessi ancora sentirmi così persa senza di lei.
A volte mi sembrava di andare avanti bendata, senza alcuna ispirazione o speranza. Mi facevo trasportare. Niente aveva più lo stesso senso di prima ed in qualche modo tutto quello che facevo aveva un significato diverso. Era come se tutte le vittorie fossero diventate meno importanti, da quando se n'era andata.
Forse quella ormai era la mia vita. Forse tutto era destinato ad essere corrente. Ed io... beh, io mi ero ritrovata ad essere un ramoscello caduto nell'acqua sbagliata.
Entrai in aula e non ascoltai una parola. Osservai a lungo il professore, le sue labbra e le sue mani muoversi lentamente.
Dopo la seconda ora, all'ora di pranzo, mi ritrovai seduta altrove. Mi coprii con il cappotto ed osservai fili d'erba danzare insieme al vento.
Più volte avevo immaginato mia mamma diventare materia: acqua, aria... Ma niente era riuscito a farmi sentire meglio. Perché io avevo ripreso da lei: non credevo in queste cose. Mi immaginavo mamma in un buco nero. Il niente. Faceva male, diavolo se faceva male... ma era quello in cui credevo. La speranza non mi avrebbe aiutato.
Trattenni le lacrime, le cuffiette nelle orecchie e le mani appoggiate a terra. Sospirai e chiusi gli occhi, per cacciare indietro le lacrime.
Qualcuno si mise seduto accanto a me, a terra. Non ci fu nemmeno bisogno di girarsi: il suo profumo non aveva bisogno di conferme visive. Quindi rimasi a guardare avanti a me, senza togliermi le cuffiette. E lui sembrò accettarlo, perché sospirò sonoramente ed appoggiò la testa al tronco dietro di noi.
Non disse una parola.
Non mi guardò nemmeno una volta.
Guardò un punto indistinto davanti a noi, esattamente come me.
Poi, lentamente, avvicinò la sua mano alla mia, ancorando il suo mignolo con il mio.
Incrociò le gambe, con disinvoltura, osservando la gente passare davanti a noi, senza degnarci di uno sguardo. Eravamo dei semplici ragazzi, intenti a rilassarsi. Per gli altri.
Il cuore sembrò prendere la rincorsa per perdere pezzo dopo pezzo più velocemente. Si sgretolò non appena il suo mignolo strinse il mio.
Il mio mento iniziò a tremare, il respiro accelerare a causa del dolore represso.
- Dovresti andare da Dan - mormorai io, la voce rotta, allontanando malamente la mano dalla sua.
Sospirò nuovamente. - Ti stava cercando - replicò.
- Voglio stare da sola - aggiunsi.
Annuì, continuando a guardare avanti. - Va bene - disse semplicemente.
Aspettai.
Aspettai ancora.
- Non te ne vai? Ti ho appena detto che voglio stare da sola.
Girò il viso verso di me, quindi lo imitai. Ci guardammo negli occhi. - Io non me ne vado - replicò lui, fermo.
La vista si appannò in fretta, quindi ricominciai a guardare avanti a me. Il mento tremò terribilmente. Strinsi le labbra in una linea fina, per sentire un altro tipo di dolore.
- Sai... potremmo andare - sussurrò.
- Dove? - ringhiai io.
- Al mare. Da lei.
L'osservai con le lacrime agli occhi. - Potrebbe essere ovunque nel mare, ormai - replicai.
- Potrebbe essere ovunque - ripeté lui, sorridendo a malapena. - Potrebbe esserlo davvero.
Erano le stesse parole, eppure avevano un significato completamente diverso.
Il mio era un modo per dire che poteva essere più lontana, completamente inarrivabile. E questo mi provocava solo più dolore. Eppure, per Ryan non era una questione di lontananza... o meglio, poteva esserlo, ma non nel modo in cui pensavo io. Mamma poteva essere ovunque, perché effettivamente le sue ceneri potevano aver viaggiato in posti diversi, in momenti diversi magari. Mamma poteva essere ovunque, poteva essere vicina e lontana, poteva essere mare e poteva essere sabbia. Era tutto, tranne che una gabbia. Non era più un semplice corpo ridotto pelle e ossa a causa del tumore. Poteva essere altro. Poteva essere ovunque.
Fu in quel momento che strinsi forte la sua mano, bisognosa di sentirlo e di ringraziarlo. Perché sarebbe rimasto con me, anche in silenzio. Anzi, soprattutto in silenzio. Ed era esattamente quello di cui avevo bisogno.
Chiuse gli occhi per alcuni secondi, strinse i denti per qualche secondo e poi intrecciò le sue dita con le mie.
***
Finii le ultime lezioni, per poi prendere la macchina ed andarmene. Sapevo che a casa avrei trovato Callie e suo fratello e non avevo proprio voglia di stare con loro. Quindi non tornai a casa. Guidai per almeno mezz'ora ed effettivamente mi ritrovai al mare, lontano dal posto in cui avevamo sparso le ceneri di mamma, semplicemente perché l'avevamo fatto in barca.
Era una bella giornata, nonostante il vento piuttosto freddo. Passeggiai per un'ora, cercai un posto più vicino a lei, ma non mi sentii mai veramente vicina a lei.
Mi fermai, ormai stanca di cercare e camminare inutilmente. Mi guardai attorno. Non c'era nessuno.
Le lacrime iniziarono a bagnarmi il viso.
Il dolore riaffiorò, potente e senza alcuna delicatezza.
Misi una mano sul petto, per cercare di riequilibrare il forte peso che sentivo dentro.
Singhiozzai.
Singhiozzai senza alcuna vergogna.
Immagini di mia mamma durante il suo periodo più doloroso riaffiorarono. Immagini di una chioma di capelli castana, le mie mani che l'accarezzavano, mentre mi pregava di capirla quando mi diceva che non riusciva più ad andare avanti in quel modo. Immagini di me, una ragazza, mentre annuiva e cercava di cacciare dentro le lacrime, per farle capire che c'era... e che vedeva tutto. Immagini della prima crisi respiratoria. Della prima volta in cui aveva pensato che sua mamma sarebbe morta proprio davanti ai suoi occhi, perché non era stata in grado di farla respirare.
I suoi occhi spaventati, i suoi occhi spenti dalle notizie dei dottori, ma soprattutto i suoi occhi vitrei, di quando il suo corpo aveva deciso di mollare una volta per tutte. Che fosse perché non mangiava più da giorni o perché non aveva più ossigeno al cervello... aveva poca importanza.
Mi ricordai addirittura la sua ultima frase, riguardo la televisione che dovevamo ricomprare.
Mi ricordai la sua mascella, il modo in cui non c'era più.
Le mie urla quando la ritrovai sul letto, senza più vita.
Il mio modo di aggrapparmi a lei, di dirle che non ce la potevo fare senza di lei.
Il modo in cui il suo corpo era diventato freddo quasi subito.
Certe cose non si dimenticano.
Si cacciano dentro, perché la vita va avanti e perché dopo un po' ti ritrovi a dover andare avanti senza la tua persona.
Ma quelle cose sono dentro di te e rimarranno sempre là. E forse è giusto così.
Niente sarebbe stato più come prima. La mia vita era stata completamente stravolta. E forse era giusto così. Perché quando non c'è più quella tua persona, la tua vita deve cambiare, non può più essere la stessa.
Io non ero stata più la stessa.
Ed avrei tanto voluto far vedere a mia mamma la persona che ero diventata, perché sapevo che ne sarebbe stata orgogliosa.
Ma lei non poteva vedermi.
Non mi avrebbe mai visto. Mai più.
***
Mio fratello mi chiese di passare da lui. Accettai, perché sentii immediatamente la sua voce tremare.
Quando arrivai a casa, trovai non solo Ryan e Den, ma anche Dayna. Fu proprio lei ad aprirmi e buttare le braccia attorno al mio collo.
-- Sapevo che avresti passato tutto il giorno da sola - mi sussurrò.
Non risposi. Osservai Ryan, il quale mi guardò sottecchi, intento ad armeggiare con il cellulare. Dan stava seduto sul divano.
Mi avvicinai a lui e posai la mano sulla sua spalla, per attirare la sua attenzione. Alzò lo sguardo dalla foto di mamma che teneva in mano e posò la guancia sulla mia mano non appena mi riconobbe. - Finalmente sei arrivata - mormorò sospirando, come se fossi la persona che stava aspettando da una vita.
Gli accarezzai dolcemente i capelli. Guardai Ryan, preoccupata per mio fratello, e l'occhiata che ricevetti fu solo la conferma.
- Vado a prendere un po' di pizza per tutti - annunciò Ryan.
Dayna annuì, senza guardarlo.
Annuii sorridendogli dolcemente, perché ci stava lasciando del tempo per stare da soli e la pizza era solo una scusa. I suoi occhi blu mi osservarono un attimo di troppo, lasciandosi sfuggire la tanta amarezza che stava cercando di nascondere dietro quel suo modo di fare distaccato.
Non era sempre stato così facile per me leggerlo. Era stato un processo lento, che era durato anni. Essendo stata sempre affascinata da lui e dal suo modo di fare, la mia era diventata quasi una sfida.
Eppure ormai mi bastava osservarlo quel secondo di più... quel secondo in cui lui pensava di non essere osservato, o quel secondo in cui non riusciva più a nascondersi dietro al suo muro per tradurre quello che non voleva far vedere.
Io, d'altro canto, ero sempre stata un libro aperto: troppo emotiva per nascondere.
Quando Ryan si chiuse la porta alle spalle, io e mia sorella ci mettemmo sedute, tenendo stretto Dan.
Dan era sempre stato un mammone, ma dopotutto lo eravamo stati tutti. Mamma si era sempre fatta rispettare, ma aveva un carattere che col tempo ti lasciava appoggiare. Si era sempre presa tutto: il nostro dolore, la nostra rabbia, le nostre lacrime e le nostre urla. Mamma non era una di quelle persone che riesci a lasciarti alle spalle facilmente. Marito, figlio... ed addirittura amico.
Niente e nessuno avrebbe potuto riempire quel buco nero che si trovava Dan nel petto. Nemmeno la presenza della sua famiglia, delle sue sorelline.
Mio fratello soffriva tanto. Non come me, non come Dayna. Dan soffriva di un dolore lancinante, che non lo lasciava mai. Dietro quella sua corazza, c'era un ragazzo devastato da tutto quello che aveva dovuto subire. Alcuni caratteri semplicemente non riescono a guarire come altri.
Ci soffermammo sulle conversazioni su WhatsApp di mamma, sui suoi audio per ricordare la sua voce, che a volte io non ricordavo più. Poi passammo alle poche foto che avevamo di lei degli ultimi anni, dato il suo astio nei confronti della fotocamera. Solamente negli ultimi mesi, da quando aveva scoperto della malattia, non aveva mai detto una parola: si era sempre lasciata fotografare, sapendo che probabilmente da lì a poco avremmo avuto solo quei ricordi.
Dopo più di un'ora Ryan tornò con tanta pizza. Apparecchiai, mentre Dayna e Dan continuavano a parlare di mamma. Ryan si avvicinò a me, lentamente e senza farsi sentire dagli altri. Quando mi girai, coi bicchieri in mano, lo ritrovai a pochi centimetri da me.
Gli occhi si trovarono immediatamente.
Mi analizzò, per cercare probabilmente altro dolore.
Non disse una parola.
Poi lentamente prese i bicchieri dalle mie mani, per poi prendermi la mano e stringere. Con gli occhi abbassati verso quel tocco, il mio cuore sembrò esplodere di un dolore profondo e silenzioso.
Mi lasciò la mano solo per accarezzarmi dolcemente la guancia. - Sei bravissima - sussurrò, così a bassa voce che quasi non riuscii a capirlo. - La più forte di tutti - aggiunse, ancorando gli occhi ai miei. La sua sincerità mi inondò il cuore. - Ma non devi esserlo sempre.
- Con te non lo sono quasi mai - ammisi io, sorridendogli debolmente.
Alzò un sopracciglio, dubbioso.
Poi dovette abbassare velocemente la mano e si allontanò, non sentendo più le voci dei miei fratelli. Si girò e ricominciammo ad apparecchiare.
Finito di mangiare, decidemmo di mettere una commedia per cercare di distrarci, ma finii per addormentarmi poco dopo, sfinita dallo stress derivante da quella giornata.
Sognai mia mamma sofferente, in cerca di aiuto e con gli occhi spalancati.
Sussultai a malapena quando mi svegliai. Sentii delle risate. Era mio fratello. - Pure quando dorme ti ama - ridacchiò.
- Ma lasciala stare - lo riprese mia sorella.
Aprii lentamente gli occhi, assonnata. Grugnii senza alcuna eleganza, facendo ridere ancora di più mio fratello. Poi mi resi conto di essere sdraiata. Mi irrigidii, rendendomi conto di aver appoggiato la testa sulla pancia di Ryan. Alzai gli occhi e trovai il viso preoccupato di Ryan, che mi chiedeva silenziosamente di aiutarlo.
- Oddio - mormorai, mettendomi seduta velocemente. - Scusami - aggiunsi, rossa in viso.
- Sì, Ryan, scusala se riesce ad importunarti pure da addormentata - se ne uscì mio fratello, beccandosi una gomitata da mia sorella.
Io e Ryan non pronunciammo una parola, in difficoltà.
Ricordai immediatamente tutto quello che era successo su quel divano, pochi giorni prima. Arrossii ancora di più, con il cuore leggermente scosso. Ryan sembrò accorgersene, quindi si irrigidì ancora di più.
- Hai messo in imbarazzo Ryan - continuò Dan. - Non lo vedi?
Girai il viso verso il migliore amico di Dan, nervosa. Lo guardai con occhi grandi e preoccupati. Con la mascella pronunciata, posò per pochi secondi lo sguardo su di me. Era veramente nervoso. - Scusami, davvero - squittii io.
Ryan scosse la testa. - Eri molto stanca - disse a denti stretti.
- Così stanca che per poco non ti buttava la testa proprio-
- Sta' zitto, deficiente - intervenne Dayna. - Non esagerare. Già sono imbarazzati, non iniziare con le tue frasi da porco.
Guardai con la coda dell'occhio Ryan, il quale iniziò a muoversi nervosamente.
- Ryan non si imbarazza a sentire cose del genere - sghignazzò Dan. - Anzi, è capace di dire di peggio.
Trattenni il respiro e Ryan ridacchiò falsamente, dando ragione al suo amico.
- Per fortuna che ti vede come una sorellina, D - continuò mio fratello. - Altrimenti la situazione lì sotto si sarebbe fatta molto delicata, calcolando che pure quando dormi provi ad avvicinarti al suo-
- Daniel! - urlai io. - Smettila!
Questo fece ridere ancora di più mio fratello.
Per fortuna il suo cellulare squillò, quindi si alzò per rispondere e cercò un po' di privacy chiudendosi in camera sua. Mia sorella borbottò di dover andare in bagno e ci si chiuse poco dopo.
- Davvero, scusami - aggiunsi, rossa come non mai.
- Stavi solo dormendo - rispose Ryan, senza guardarmi. - Cerca... cerca di non agitarti in questo modo. Non è successo niente.
- Lo so, è solo che...
- Lo so - mi fermò Ryan, puntando gli occhi nei miei. - Lo so. Ma abbiamo tutto sotto controllo adesso. Non è successo niente, questa volta. Però devi cercare di essere meno...
Rimasi in silenzio, in imbarazzo. "Meno me".
- Tuo fratello ti conosce - finì poi, vedendomi ferita. - Potrebbe capire il tuo modo di fare.
- Mi sembra troppo occupato a prendermi per il culo - bofonchiai io.
- L'ha sempre fatto. È un buon segno - disse lui, pensieroso.
Mio fratello tornò in salone, rabbioso. - D, è vero che Calliope sta continuando a vedersi con un tipo?
Guardai Ryan, con la fronte aggrottata, poi passai a Dan. - Non mi risulta.
- Beh, a me sì - ringhiò. - Mi sembra ovvio che ci sia qualcosa tra noi, eppure continua a mentire a sé stessa.
Rimasi in silenzio, confusa.
- Forse stai parlando del ragazzo dai capelli rossi che continua a girarle intorno? - chiese Ryan.
- Esatto - confermò Daniel.
Trattenni una risata.
- Daniel, è suo fratello - lo riprese Ryan, serio.
Mio fratello lo osservò, affatto convinto. - Come fai a saperlo?
- Hanno gli stessi lineamenti - ribatté Ryan.
- Sono fratelli - confermai io.
Mio fratello mi lanciò un'occhiataccia. - E tu me lo dici adesso?
Scrollai le spalle. - Ne hai fatte soffrire tante di ragazze... Prima o poi sarebbe dovuto toccare anche a te.
Dan fece per parlare, quando qualcuno bussò alla porta.
Ci guardammo, confusi. Daniel si alzò dal divano per aprire. Una voce femminile fece capolino poco dopo. - Ryan?
- Ciao anche a te, dolcezza - se ne uscì mio fratello.
Mi irrigidii e smisi di guardare Ryan, arrabbiata e ferita. Quest'ultimo si alzò ed andò alla porta, sospirando sonoramente.
- Katy - mormorò Ryan. - Che cosa ci fai qua?
- Ti volevo fare una sorpresa, visto che ti ho sentito piuttosto triste oggi - ridacchiò lei. - Ma non mi sembri molto felice.
- Oggi non è il caso.
Katy entrò in casa, senza essere invitata. - Tu dici? - cercò di flirtare lei, sfoggiando il suo sorriso migliore e mettendo in evidenza le sue curve.
Mi alzai di scatto, furiosa.
Katy mi guardò, affatto stupita. - Ciao, piccola D. Ti trovo proprio male.
- Ciao Kitty - ringhiai io.
- Mi chiamo Katy - mi riprese lei, arricciando leggermente le labbra.
- Ed io mi chiamo Deitra - ringhiai.
- Katy - cercò di attirare l'attenzione su di sé Ryan. Tuttavia, la ragazza continuò a guardarmi, leggermente infastidita. Non era difficile capire i suoi pensieri: era preoccupata, perché non riusciva a capire se potessi essere o meno una minaccia per la sua relazione con Ryan. - Senti...
- Io devo andare - mormorai, prima di afferrare il mio giacchetto.
- No, D... - cercò di fermarmi Daniel.
- Davvero, devo andare - continuai. Katy si fece da parte per farmi passare e mi guardò con un sorriso trionfante.
La lasciai fare. Perché a Ryan serviva lei. Perché tanto non ci sarebbe potuto essere niente tra noi.
Con le lacrime agli occhi per la rabbia, entrai in macchina. Presi un respiro profondo e misi in moto, per poi andarmene più veloce possibile.
Non tornai a casa.
Mi ritrovai a passeggiare in un parcheggio, poco lontano dal nostro campus.
Proprio in quel momento, la nostra squadra di baseball aveva appena finito gli allenamenti e si stava dirigendo verso le proprie macchine.
- Ei, ti serve un passaggio? - mi chiese un ragazzo.
Non lo guardai, con il cuore a mille.
- Smettila, lei è la sorellina di Daniel - lo riprese un altro.
- Davvero? - mi chiese il primo ragazzo.
- Sì - ringhiai io.
- In effetti, avete lo stesso caratterino - ridacchiò.
- Lasciala stare - lo riprese nuovamente il secondo ragazzo. Lo osservai. Aveva i capelli lunghi castani, un naso piuttosto pronunciato che però in qualche modo gli donava, le labbra carnose, la corporatura di un ragazzo atletico e lo sguardo genuino e buono.
Mi fermai, istintivamente.
Il ragazzo mi sorrise, per tranquillizzarmi.
I ragazzi se ne andarono.
- Piacere, io sono Justin - disse poi, porgendomi la mano.
La strinsi, riluttante. - Deitra.
- Mi sembri un po' distrutta, Deitra. Ti andrebbe di accompagnarmi a prendere un thè, in quel bar?
Osservai il bar a pochi passi di distanza da noi e poi lui. - No, non credo sia il caso - mormorai, in imbarazzo.
Sorrise. - Va bene. Ci si vede in giro allora - disse. - Torna a casa. I ragazzi dopo la partita tendono a bere più del previsto - aggiunse, girando il viso verso di me, mentre continuava ad avanzare verso il bar, da solo.
Rimasi ad osservarlo, interessata. Non dissi una parola e questo sembrò farlo sorridere ancora di più. Lo vidi entrare dentro il bar e dirigersi verso il bancone.
Mi girai per tornare in macchina, piuttosto pensierosa.
Mia sorella mi mandò un messaggio, per avvisarmi del fatto che Ryan era uscito con Katy, lasciando mia sorella e mio fratello da soli.
Strinsi il cellulare in mano, fino a sentire dolore.
Dovevo chiudere questa storia. Stava diventando quasi tossica e non mi avrebbe portato nient'altro che dolore.
Per questo promisi a me stessa che avrei preso le distanze da Ryan. Provai rabbia e delusione... E questo fece uscire il lato peggiore di me: quello vendicativo.
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