Case 7 - Il timore delle vittime
«Léon, cos'era?» mormorò (NM) portandosi due dita sul collo e accarezzando delicatamente i fori dei canini.
La giovane era rannicchiata con la schiena poggiata al muro dello studio del medico, le ginocchia le aveva portate al petto e tremava un poco. Era stata aggredita poco prima -in fin dei conti, però, se lo era aspettato fino dall'inizio- da colui che, all'inizio, aveva reputato suo salvatore.
Era stata tradita, le era stato fatto del male appena poco prima, eppure non l'aveva ancora pienamente realizzato.
Il corvino era di fianco a lei, in piedi e pure lui appoggiato alla parete. Guardava un punto imprecisato avanti a sé con fare pensieroso, attese una manciata di secondi e poi tirò fuori dalla tasca interna della giacca un pacchetto di sigarette e un accendino grigio vecchio stile. Se la portò alle labbra e l'accese, poi ripose la roba nelle tasche dei pantaloni e si tolse la casacca per posarla sulle spalle tremanti dell'assistente. Lei si rifugiò in quel pezzo di stoffa, stringendosi nelle spalle.
«Mi dispiace, mi dispiace davvero. Non era mia intenzione farti male, ma tu eri lì e la tua pelle era così calda e la tua carne così morbida. Non ho resistito.» cercò di giustificarsi il medico, fallendo miseramente.
Non c'erano scusanti per lui, il povero medico che altro non poteva fare che mettersi a fumare e lanciare occhiate sfuggenti su quella ragazza tremante. Solo immaginava cosa provasse, quanto fosse terrorizzata. Si sarebbe scusato anche per anni per quell'evento, per il non aver capito in tempo di non riuscire a controllarsi.
Guardando quella povera ragazzina si sentì tremendamente in colpa.
«Cosa? Cos'era quello?» chiese all'improvviso la giovane donna, che aveva smesso di tremare come una foglia e che si stava stringendo nella giacca del corvino. Parlò con voce incerta, con la paura di chiedere e la vergogna di essersi illusa, di essersi fidata.
Quell'uomo, che le era sembrato tanto gentile e tanto preoccupato da sembrare irreale, l'aveva aggredita. Aveva fatto con un discorso esaustivo e appassionato su quanto e dove i vampiri -eccetto rarissimi casi, ricordava- fossero totalmente diversi sia da Twilight che dal conte Vlad, poi fu il primo ad aggredirla. Si sentiva così stupida e ingenua da desiderare di sotterrarsi, stringendosi ancora di più nella stoffa della giacca.
«Non è necessario sapere molto. Accontentati di sapere che è probabile che ricapiti nuovamente in futuro, ma cercherò di far in modo che non accada. Lascia stare il bicchiere, pulisco io.» disse il medico con tono apparentemente indifferente, respirando il fumo della sigaretta per poi soffiarlo fuori. Poi, uscì senza dire più nulla dalla stanza.
(NM) riprese a tremare, la giovane donna, che non sapeva come reagire. Prima l'aveva aggredita, poi l'aveva lasciata lì, con niente se non il disagio.
Era spaventata, così così spaventata da sentire il cuore battere a mille e il tremolio si fece più intenso. Avrebbe potuto rifarlo, sarebbe potuto tornare in qualsiasi momento è fare di peggio è lei non riusciva a muoversi. No, neanche un movimento, neanche riusciva a levarsi di dosso quella maledetta giacca che la faceva sentire al caldo. Poi le venne un lampo di genio e portò le mani sui fori che i canini del vampiro dovevano aver lasciato. Li sentiva bruciare sul suo collo, li sentiva chiaramente, ma al tatto non risultava nulla. Né piccoli buchi né irregolarità di ogni tipo, tanto che credette per un momento di averlo sognato.
Lanciò qualche occhiata fugace attorno a sé e notò uno specchio vicino alla libreria, uno di quelli antichi e un po' polverosi ma non abbastanza da non riflettere, nascosto da quel mobile imponente in legno. Lo fissò per secondi interminabili, osservando la sua figura, quei suoi lunghi capelli scompigliati e gli occhi scavati. Era ridotta uno straccio, chissà quanto sangue aveva perso.
Si mise a gattonare verso quella cosa, abbandonando l'indumento di Léon sul pavimento con noncuranza, e si spostò i capelli dal collo per vedere meglio. I fori erano lì, perfetti, anche con una goccia di sangue che sembrava cadere, ma erano come tatuati. Si vedevano, erano lì, sembravano veri.
«Q-Questo cos'è?» balbettò con voce, non appena vide dallo specchio che quel giovane medico era tornato. Non sapeva di cosa avete paura, se di quel corvino o del dolore dei segni che aveva lasciato o semplicemente di tutto, di quella situazione, di ogni cosa la circondasse. Era un piccolo agnellino in un mondo di lupi famelici, un vaso di terracotta che viaggiava con vasi di ferro come avrebbe detto il padre. Quando sentì il corvino poggiare nuovamente la sua giacca sulle sue spalle si voltò. Era a pochi centimetri da lei, a guardarla con quei suoi occhi limpidi, poi si inginocchiò sul pavimento.
«Un problema, ecco cos'è.» disse, scostandole una ciocca di capelli per vedere meglio il segno sul collo.
«Non mi toccare!» urlò la giovane donna in un momento di panico, scostando in un gesto molto poco gentile la mano guantata del corvino. Sì guidata dalla paura, vuoi per il collo che le bruciava vuoi per il terrore di essere aggredita nuovamente da quell'uomo. Non le importò di vederlo sorpreso da quel gesto, rigettato da una donna a cui aveva fatto del male. Aveva immaginato una reazione del genere, ma comunque l'aveva preso alla sprovvista.
«Per favore, non mi toccare.» ripeté, con voce tremante e le lacrime agli occhi.
«Ascolta, so che quello che ho fatto è stato ignobile e improvviso e che tu non eri preparata. Non è un comportamento che ho fatto perché mi andava, è totalmente fuori dal mio controllo. Okay, puoi tranquillamente dire che mi sono comportato da stronzo, ma non ho deciso io di farlo. È un discorso complicato, è difficile da spiegare.» disse il medico, mettendosi alla sua altezza e guardandola negli occhi. Non era certo che capisse, che una bambina che aveva —probabilmente— vissuto attraverso le idee e le costrizioni dei genitori potesse capire molte delle cose che sarebbero accadute.
Il medico guardò negli occhi la sua assistente, poi spostò la sua attenzione verso le assi del pavimento e fece un sospiro sconsolato.
«(NM), se non mi vuoi credere va bene comunque, ma in ogni caso non ti posso lasciare andare. Non sai quanto mi dispiaccia.» disse, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
«Se ti dispiace, Léon, perché lo fai?» chiese improvvisamente la ragazza, rannicchiata e stretta stretta nella giacca che le aveva dato.
Lei lo guardava con quei suoi espressivi occhi (CO) e lui stette in silenzio per una manciata di secondi. Non si osava dire nulla, sia riguardo a quel debito controverso sia riguardo a quella fortunata serie di eventi che l'avevano —malauguratamente— spinta a rifugiarsi tra le sue braccia anziché morire assiderata tra le strade innevate della sua anonima cittadina francese.
Il cuore del corvino sembrò fermarsi per qualche secondo per poi continuare a battere rumorosamente nel suo petto. Aveva una mano sul pomello dorato pronta ad aprire eppure restò lì, non si osò né a uscire né a rispondere a quella domanda. Non ebbe il tempo di realizzare che la giovane donna, con il cuore in gola e con un qualcosa che non la faceva stare tranquilla, trovò un briciolo di coraggio.
«É per pena? Non ho un posto dove andare, i miei genitori hanno tagliato i rapporti con le rispettive famiglie prima della mia nascita e non ho parenti che mi potrebbero ospitare. L'unica persona che forse ci farebbe un pensiero è chissà dove. Lo fai perché ti faccio pena, non è così?» suppose, ma vide solamente quel medico distogliere lo sguardo in favore del pavimento. Stava iniziando a pensare che quel dannato parquet valesse più di lei.
Léon si morse l'interno della guancia in un gesto meccanico mentre pensava a cosa rispondere.
«É un discorso complicato. Forse te ne parlerò più avanti. Ora, io vado giù che devo fare una cosa, raggiungimi quando te la senti.» disse, per poi uscire dalla stanza e lasciare quella poveretta da sola. Continuò a ripetersi che non aveva fatto nulla di sbagliato, che non l'aveva deciso lui e che non era successo niente, ma nulla funzionava e il senso di colpa rimaneva a stringere come in una morsa il suo cuore.
Scese le scale frettolosamente e poi si lasciò cadere sul divano del salotto, tra quei cuscini logori e impolverati a guardare un punto imprecisato del salotto. Non era colpa sua, non aveva deciso lui nulla di tutto ciò —eccetto l'arredamento scadente e le cianfrusaglie da collezione sparse dovunque— eppure si sentiva in colpa. Forse lasciarla sola non era stata la sua idea migliore, se ne rendeva conto, ma era l'unica cosa che poteva fare.
Non era colpa sua, non aveva deciso nulla autonomamente eppure si sentiva male.
Léon si tolse i guanti e si morse avidamente il braccio sinistro. Volle provare quel che aveva fatto provare a (NM), voleva sentire quanto faceva male sulla sua pelle. Il sangue colava, sentiva dolore, ma lui non stava meglio.
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Ehilà~
Allora, devo dire che questo capitolo è stato piuttosto complicato, tant'è che ci ho messo abbastanza per scriverlo tra errori e riscritture, ma spero sia venuto un qualcosa di decente e apprezzabile.
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