Case 1 - Innocenza macchiata
Legenda
(NM) — il nome che vuoi dare al personaggio.
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«Quindi, sei tu?»
Fu come quando la mattina si svegliava per andare all'università, un qualcosa di improvviso che la faceva ritornare in sé. Non sapeva esattamente per cosa, ma si destò da quello che nella sua mente si era mostrato come incubo. Non fece nulla, non disse nulla, ma restò a guardare savana sé nonostante non ci fosse nient'altro per tranne il maltempo e il freddo. Si rese conto in un secondo momento di dove fosse.
Era per strada, con gli stivali nella neve e la pelliccia a coprirle le spalle. Non le sarebbe bastata per la notte e non aveva abbastanza soldi per pagarsi una camera d'albergo. Neanche un letto in un ostello, aveva speso tutto la settimana prima, quando volle stupidamente comprare quella borsa firmata. Non se lo sarebbe perdonata facilmente, non dopo essere morta congelata. Decise di darsi una mossa, se non voleva morire per davvero.
Era scappata di casa appena tre quarti d'ora prima, dopo aver rubato il mazzo di chiavi di riserva dal cassetto del comodino della madre. Mentirei dicendo che non aveva avuto ripensamenti, che aveva aperto la porta e se ne era andata come se nulla fosse, abbandonando un pezzo della sua vita al nulla. Stette lì, davanti alla porta con la chiave appena fuori dalla serratura a pensare a cosa stava lasciando dietro di sé. Tutti i ricordi, il letto caldo, i genitori, tutto. Stava abbandonando tutto e si chiese se ne valesse la pena. Passarono una manciata di secondi, poi si disse di sì. Doveva farlo, non aveva altra scelta se non quella di uscire e non tornare. Non poteva.
Camminò per circa sei metri, poi svoltò l'angolo stringendosi nella sua pelliccia e andò avanti senza guardarsi attorno. Dopo qualche passo si poggiò a un muro e si portò una mano al petto. Aveva il fiatone, non stava bene, ma non volle tornare indietro. Voleva solo prendersi un the e andare a dormire in un letto caldo, possibilmente nella sua camera. Più ci pensava e più si sentiva sul punto di assopirsi in piedi, quasi si stava dimenticando del freddo artico che le stava facendo tremare le mani. Solo al pensiero di qualcosa di caldo che le arrivava allo stomaco le fece dimenticare del suo corpo, che tremava come una foglia
«Madmoiselle, non è un poco tardi per uscire?» e lei si voltò, dovendo fare i conti con quel freddo senza precendenti che aveva dimenticato e non avrebbe voluto ricordare. Tremò tutta, persino il suo cuore.
Colui che le aveva rivolto la parola era un ragazzo di circa la sua età, ma non si somigliavano affatto. Lui pareva brutto, instupidito, non credeva sapesse leggere o scrivere. Era sicuramente della classe contadina, non credeva che un borghese potesse parere così poco intelligente.
A seguito aveva due ragazzi poco diversi da lui dei quali non riusciva a intravedere i volti.
«Potrei dire lo stesso di voi, no?»
Il ragazzo sorrise in modo maligno e guardò la ragazza negli occhi e allude a una specie di tassa, un tributo che lei gli doveva. Peccato che, come già abbiamo detto, la poverina non avesse un soldo in tasca. Ella alzò le mani e le mostrò vuote.
Lui si avvicinò di qualche passo e tirò fuori dalla tasca del giubotto un coltellino a serramanico.
La ragazza deglutì della saliva e indietreggiò ulteriormente, ma non fece più di qualche passo per la paura e perché cadde a terra. Forse l'avrebbe derubata, o peggio, forse l'avrebbe addirittura uccisa perché non poteva buttare via i suoi soldi in uno stupido passaggio perché altrimenti sarebbe morta assiderata.
La ragazza non capì bene cosa successe dopo, la scena che si presentò davanti a lei fu veloce e confusa. Colui che sembra essere il capo venne chiamato da un amico e, nel giro di un secondo, la neve fu coperta di sangue. Le dispiacque, perché una manto così candido e innocente non meritava di essere macchiato.
Il ragazzo era a terra e davanti a lei c'era un giovane uomo che si teneva il fianco sinistro, dal quale gocciolava del liquido ematico.
Voleva proprio sapere chi era il pazzo che si era fatto accoltellare per lei, e glielo avrebbe chiesto, se non fosse svenuta.
Si risvegliò dopo chissà quanto tempo, ma non sentiva più il gelo della neve sul suo viso, bensì una superficie morbida e calda sulla quale era appoggiata. Le ci volle un po' prima di avere la forza per aprire gli occhi.
«Bevi.» si sentì dire da una voce maschile, per poi vedere una tazza piena di the caldo essere posata sul tavolino di legno davanti a sé.
Era su un divano marrone scuro, coperta da un plaid dello stesso colore.
Lei si mise a sedere —assicurandosi di coprirsi le spalle con la coperta— e si rese conto di dove fosse. Era una stanza disordinata, piena di cianfrusaglie, più simile a uno sgabuzzino piuttosto che a un salotto, ma la sua attenzione si spostò presto sul ragazzo —o meglio, giovane uomo— che aveva dinanzi a sé, seduto sul divanetto davanti a quello in cui c'era lei.
«Su, bevi, non è avvelenato.» la esortò lui, bevendo dalla sua tazza.
La ragazza poté guardare meglio la persona che —supponeva— la stava ospitando. Aveva un'altezza nella media, circa un metro e settantacinque centimetri, una corporatura decisamente poco robusta e dei capelli neri e corti. Non spiccava per l'aspetto se non per un paio di occhi di un azzurro chiaro.
«Dove sono?» chiese, prendendo in mano la tazza in ceramica e bevendo da essa. Credeva fosse chissà cosa, data quella casa molto poco ordinata, ma alla fine era un semplice the al limone, che aveva preparato lui stesso a giudicare dal pentolino posto sui fornelli spenti. Lo sentì scivolare fino al suo stomaco e sentì un piacevole tempore nel corpo. Aveva passato circa tre quarti d'ora nel freddo pungente, quello che desiderava era solo il caldo.
«A casa mia. Se non fossi intervenuto saresti morta, ragazzina, se non per quello schifoso imbroglione per il freddo. Sei pazza a uscire con questo gelo?» chiese spazientito, quasi fosse preoccupato per lei, ma non era fattibile, come molte delle cose successe quella sera.
Lei non credeva possibile che qualcuno fosse arrivato giusto in tempo per evitare il peggio, non era possibile, aveva avuto troppa fortuna, tant'è che si chiese se non l'avesse seguita, ma non si pose molte domande al riguardo. Era viva, stava bene e aveva ancora i suoi soldi con sé, o almeno lo supponeva, perché se quell'uomo avesse cercato il suo denaro non l'avrebbe mai portata in salvo.
«Dovevo, ero obbligata.» rispose distogliendo lo sguardo e posandolo su un punto imprecisato della stanza.
Era sincera, doveva andarsene esattamente quella sera, che i genitori erano a cena da amici e lei aveva tutto il tempo necessario per prepararsi. Doveva ammettere di non essersi preoccupata del freddo e tantomeno dei possibili rischi e di pensare a un persona che la potesse ospitare che non fosse la sua compagna di corso, la quale abitava nella città vicina.
«Non importa.» disse lui sbuffando. Si alzò dal divano e mise la tazza nel lavandino con noncuranza. Sembrava si fosse totalmente dimenticato della sua ospite, la quale si stava guardando attorno in cerca della sua borsa, ove aveva lasciato tutto ciò che le serviva: soldi, telefono cellulare, documenti e altri oggetti importanti. Per un momento sperò che quell'uomo non l'avesse lasciata tra la neve. La vide di fianco al divano, in perfetto stato, e la prese assicurandosi che ci fosse tutto dentro.
«Perché mi hai portata qui?» chiese lei guardando questa volta negli occhi l'uomo. Non era una stupida, si aspettava che volesse qualcosa in cambio per il suo aiuto e aveva paura che le chiedesse cose che non sarebbe stata disposta a fare.
Non voleva problemi o contrattempi, voleva solo essere felice e andare lontano da Doremì, non voleva fare del male a nessuno.
Il corvino si voltò e si sedette davanti a lei.
«Ius Sanguinis. Nel mondo degli umani probabilmente vuol dire un'altra cosa, ma qui è diverso. Io mi sono ferito per salvare te e ora sei in debito. Ti mostrerò la tua stanza e ti darò un cambio di vestiti quando avrai finito. Comunque, qui è la legge, non puoi opporti, quindi se vuoi piangere, implorarmi o disperarti fallo subito, ma te lo sconsiglio: sarà uno spreco di tempo.» disse.
Lei non ci poteva credere. Non aveva un posto in cui andare e nessun lavoro con il quale poter mantenere se stessa, la sua casa o l'università che aveva deciso di frequentare e quel lavoro, no, questo debito che aveva nei confronti del corvino capitava a fagiolo. Si chiese se non fosse troppo perfetto, ma non poteva lamentarsi. Era scappata di casa, aveva i soldi a malapena necessari per un motel e per arrivare alla città vicina, aveva rischiato di essere derubata e aveva visto un suo coetaneo che stava per puntarle un coltello a serramanico alla gola. Si convinse che era solo la fortuna che stava girando dalla sua parte.
«Va bene.» disse in tutta serietà, mettendosi composta. «Va benissimo, anzi, un posto in cui stare è proprio ciò che mi serviva. Se ti interessa so cucire, suonare il flauto traverso, posso pulire e metter in ordine, occupo persino poco spazio. Mi basta una stanza. Mi importa solo avere un posto dove stare.»
In realtà non aveva capito molto di ciò che aveva detto, né cosa lo Ius Sanguinis avesse di diverso da quello che intendeva lei e che c'era nella Costituzione tantomeno dove si trovasse inteso come coordinate geografiche. Poteva benissimo essere a pochi passi da casa. In quel momento, però, si concentrò più su ciò che le era successo di bello, ovvero quel debito, che le aveva dato ciò che cercava almeno finché non sarebbe stato saldato.
«Meglio così, allora.» disse lui, alzandosi in piedi e porgendole da mano destra. «Il mio nome è Léon Victor, sono un medico e da oggi tu sarai la mia assistente.»
Era tutto surreale, incedibile, come se i due fossero in un romanzo, ma quella era la realtà nuda e cruda, solo che non sembrava tale.
Lei allungò con riluttanza la mano sinistra fino a quando le dita affusolate della stessa non entrarono in contatto con l'estremità dell'arto destro del medico e finché non si poté parlare di "stretta di mano".
«(NM). Sono (NM).» si presentò lei sorridendo cordialmente.
Certamente, essere l'assistente di un medico dopo aver scelto la facoltà di letteratura francese non era la scelta migliore, ma non aveva altre soluzioni. L'alternativa era tornarsene buona buona a casa, da dei genitori che non voleva vedere, e quindi la scartò immediatamente.
Decise che quella sarebbe stata la sua casa finché non avesse saldato un debito, anche se non sapeva come.
Forse avrebbe dovuto saperlo, il come, perché è da quello che dipende la nostra storia. Lo avrebbe dovuto sapere, ma così non era e ne avrebbe pagato le conseguenze.
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Questa cosa è nata dalla mia mente malata ed è stata incoraggiata da Sabry2701 e ispirata da Angel_BlackShadow. Ringraziate loro se avete questa fanfiction.
Orsù, ora parlate!
Vi ringrazio dell'attenzione e vi auguro buona giornata/serata.
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