XXXII
Disclaimer: linguaggio forte
menzione di tentato suicidio
menzione di morte
«Cerca di rilassarti, piccola. Non succederà niente, ci siamo noi.»
Gli occhi scuri di Beth saettavano da lui a Lee, seduti accanto a lei sul retro di un taxi. Si trovavano di fronte al posto di lavoro del padre della ragazza. L'uomo non rispondeva alle telefonate da giorni, e non si era nemmeno presentato il giorno delle dimissioni di Beth dall'ospedale. Da quel momento era passata una settimana e la situazione, per la ragazza, stava diventando insostenibile. Si sentiva di essere un peso sulle spalle di Laura e Isabelle, e aveva continui attacchi di panico e crisi di pianto. Le ferite sui suoi polsi, grazie all'incantesimo effettuato da George erano guarite quasi completamente, ma le ferite del suo cuore continuavano a esistere, pulsanti e dolorose.
«N-non cr-credo che sia una buona idea. Siamo sempre in tempo per andarcene, no? Troveremo un'altra soluzione...» tentò di dire Beth.
«Smettila, per favore. Dobbiamo chiudere questa storia una volta per tutte... non puoi continuare così. Lo capisci, Beth?» spiegò George, con uno sguardo comprensivo ma con il tono di voce fermo. Vedere la sua piccola amica in quelle condizioni gli stava spezzando il cuore, non riusciva più a tollerare di vederla distruggersi così, per quell'uomo infimo e meschino.
«Ehi, sta uscendo qualcuno! Beth, è quello tuo padre?» chiese Lee, indicando con il dito un punto davanti all'ingresso dell'edificio.
Il volto della ragazza si scurì, e in un flebile sussurro rispose: «Sì...»
In un secondo, George spalancò la portiera del taxi e scese, seguito dagli altri. In pochi passi raggiunse l'uomo, e dovette cercare in ogni modo di trattenere la sua rabbia.
«Signor Goldsmith?»
L'uomo si girò, e George riconobbe nel suo volto i dolci tratti di Beth. Si assomigliavano così tanto.
«Sono io, e lei è...?»
«Sono la persona che ti renderà la vita un inferno, se continui a fare il cazzone con tua figlia. Hai capito?» rispose lui, quasi ringhiando. Sentì la rabbia crescere esponenzialmente.
La mano di Lee si posò sulla sua spalla, come per calmarlo. Per fortuna che c'era anche lui. Il suo amico riusciva sempre a fargli avere un punto di vista lucido e concentrato in queste situazioni.
«Signor Goldsmith, noi siamo amici di Beth» disse Lee, indicando la loro amica, rimasta qualche passo indietro, impietrita. «Siamo qui per parlare della situazione di sua figlia. È completamente sparito dopo averla portata in pronto soccorso e questo ci fa preoccupare. È ancora minorenne e se la situazione dovesse perdurare entrerebbero in gioco i servizi sociali, questo lo sa?» spiegò in modo diplomatico.
L'uomo spostò lo sguardo verso Beth, con gli occhi che diventarono lucidi. Tentò di aprire la bocca per parlare, ma non uscì alcun suono. A quel punto, George non riuscì più a trattenere la rabbia.
«Ti reputi un essere umano? Mi fai schifo. Tua figlia si è tagliata le cazzo di vene per te, idiota. Per colpa tua e delle tue scelte infelici... che razza di padre fa questo?» esclamò, avvicinandosi pericolosamente all'uomo e prendendolo per il bavero della giacca. «Visto che mi sembri indeciso, ti dico io cosa faremo. Visto che noi a Beth ci teniamo, ci siamo ben informati su tutte le possibilità per farla uscire dalla situazione di merda in cui tu l'hai portata. E, per fortuna, una soluzione si può trovare. Questa soluzione si chiama emancipazione di minore e la legge inglese la prevede. Ma c'è un però» disse, mentre l'uomo deglutiva rumorosamente. «Questa emancipazione non può avvenire a meno che il genitore non firmi i documenti per la procedura, cosa che ti chiediamo gentilmente di fare adesso, così ci evitiamo una causa e un processo che debiliterebbero fisicamente e mentalmente Beth, e che farebbe incazzare ancora di più noi» disse, mentre Lee tirava fuori dalla tasca una busta di plastica con diversi fogli al suo interno, insieme a una penna. «E se non dovessero bastare le buone, possiamo anche passare alle cattive. Scegli tu».
Il padre di Beth diventò bianco come un fantasma e quando George lasciò la presa si schiarì la gola, iniziando a passare in modo nervoso le mani tra i capelli perfettamente ingellati. Si rivolse dopo qualche secondo alla figlia, rimasta ancora qualche passo indietro. Lo sguardo nei suoi occhi cambiò in un secondo, da dispiaciuto ad arrabbiato. «Ho sempre pensato che ti saresti fatta un giro di amici poco raccomandabili... ma addirittura venire a minacciarmi? Sei proprio caduta in basso, Elizabeth. Jane sarebbe veramente delusa da te-»
«Tu il suo nome non lo devi nemmeno pronunciare. Hai capito?» esclamò con rabbia Beth, facendo alcuni passi avanti. «Tu hai perso ogni diritto su di lei e su di me nel momento in cui hai tradito la sua fiducia. La mamma ti ha chiesto esplicitamente di prenderti cura di me, e tu non lo hai fatto. Ti sei rifatto la tua vita con la tua piccola sgualdrina mangiasoldi, e hai cercato di disfarti di me in ogni modo. Anzi, non ti è fregato nemmeno niente che fossi stesa in un letto di ospedale con i polsi tagliati e un catetere venoso nel petto. Sono sicura che ovunque sia, alla mamma si sta spezzando il cuore, proprio come si è spezzato il mio. Ma sono stanca, di te e della tua insulsa vita. Perché se c'è una cosa che ho capito, è che la vita di merda è quella che fai tu, e io non ho più intenzione di darti la possibilità di rovinare anche la mia. Quindi, per favore, firma questi cazzo di fogli. Voglio solo chiudere questo capitolo della mia vita e scordarmi di avere un padre. Perché tu, per me, sei morto» disse mentre lo guardava, impaziente che firmasse. Il volto della ragazza era una maschera di ghiaccio e George le fece una piccola carezza sul volto, per tranquillizzarla. Lei rispose con un sorriso tirato e stanco.
«Allora paparino, che facciamo? Scegli le buone o le cattive?» chiese poi George.
Dopo qualche secondo di esitazione, l'uomo prese la penna e i fogli che Lee gli stava porgendo e fece un paio di firme, nei punti indicati da alcune x che loro avevano inserito.
«La firma leggibile, grazie» aggiunse George, con tono ironico.
«Ti pentirai di tutto questo, Elizabeth. Chi ci penserà a te? Chi sosterrà le tue spese, i medici, la psicologa...» esclamò l'uomo, che aveva cominciato ad usare un tono che ai due ragazzi non piaceva.
«Elizabeth Jane Goldsmith non è più un tuo problema da ora in poi, ma nostro. Buona vita, grandissimo stronzo» esclamò Lee. Poi si girò e posando una mano sulla schiena di Beth, la invitò a tornare nel taxi, che li stava aspettando nello stesso punto di prima. George fece un piccolo cenno con la mano all'uomo, mentre si girava e rientrava nell'auto.
La ragazza appoggiò la testa allo schienale dell'auto. «Sono libera...» disse con la voce rotta dal pianto.
«Sì piccola, puoi lasciarti finalmente tutto alle spalle... non sarà facile, ma non sei sola» rispose George, tirando un sospiro di sollievo.
Finalmente quell'incubo era finito.
Novembre 1999
«Isabelle, quando hai fatto con quelle pratiche ci sarebbe da inoltrare l'ordine per la cancelleria, puoi pensarci tu?»
La ragazza, seduta alla sua postazione davanti al computer, annuì con decisione alla richiesta della sua collega. Quando le venivano affidati nuovi incarichi e cose da fare, anche se semplici come l'ordine di penne e matite, si sentiva orgogliosa. Per la prima volta nella sua vita faceva un lavoro che le piaceva e che le portava continue soddisfazioni.
Era stata assunta nell'azienda del padre di Lucas all'incirca due settimane dopo aver portato il curriculum e dopo un attenta procedura di selezione. Questo era l'aspetto che la rendeva forse più orgogliosa di sé stessa. Aveva dovuto competere con altre tre ragazze. Tutte avevano i giusti requisiti per entrare, ma alla fine solo lei aveva avuto la meglio.
Dopo aver terminato il lavoro e aver inserito nel computer l'ordine, guardò l'orologio e vide che era ormai ora di pranzo. Prese il suo cappotto e la borsa e si preparò ad uscire. Nonostante l'azienda fosse grande e contasse una serie di filiali in giro per Londra e per l'America, lei aveva avuto la fortuna di essere inserita nell'ufficio posto a pochi metri dal pub in cui lavorava prima e in cui, invece, Sammy continuava ad andare. In questo modo, poteva vederla molto spesso e pranzarci insieme, o farle compagnia durante il suo turno di lavoro.
Mentre scendeva in strada, sentì il cellulare squillare.
Che vuoi mangiare stasera? Pensavo a una bella lasagna, che ne pensi? B.
Sorrise di fronte a quel messaggio. Beth, da quando era riuscita ad emanciparsi legalmente, era come rinata. Nonostante il dolore provato per l'abbandono da parte di suo padre, si sentiva finalmente felice di essere libera e spensierata. Si era sistemata in modo definitivo nella camera lasciata vuota da Pam, che ormai abitava ufficialmente insieme a Lee. Aveva superato brillantemente gli esami di recupero e stava frequentando il suo ultimo anno di scuola. La sua vita era finalmente ripartita.
Dopo aver risposto affermativamente al messaggio della sua piccola amica, rimise il telefono in borsa ed entrò nel pub.
«Bel, sei arrivata finalmente! Ti ho già fatto preparare il pranzo, so che vai di fretta» le disse entusiasta Sammy, in piedi dietro al bancone. Anche troppo, entusiasta. Conosceva bene la sua amica e sapeva che, quando faceva così, le nascondeva qualcosa.
Sedendosi a uno degli sgabelli di fronte al bancone, espose i suoi dubbi. «Cosa mi devi dire, Samantha? Sei euforica, e lo sei solo quando sei ubriaca o quando devi dirmi qualcosa di assolutamente eccitante. Quale delle due?»
La bionda di fronte a lei fece un sorriso enorme e i suoi occhi si inumidirono. «Oh, Bel... tu mi conosci così bene... non posso più aspettare a dirtelo! Anche se Charlie mi ha fatto promettere di non dire niente per adesso, io non posso nasconderti questa cosa! Sei mia sorella!» disse mentre si sedeva accanto a lei e le prendeva le mani.
«Ok... non so come dirtelo quindi sarò semplicemente diretta. Sono incinta».
Isabelle rimase per qualche secondo senza parole, mentre processava l'informazione. «Ma... come è possibile? Abbiamo iniziato insieme la pillola... come è successo?»
Sammy diventò tutta rossa. «Potrei essermi scordata di prenderla per qualche mattina durante il nostro viaggio, e... sono stata un po' incosciente, è vero. Ma ora che l'ho saputo, desidero questo bambino con tutto il mio cuore» rispose con gli occhi lucidi.
«Quindi diventerò zia?» chiese Isabelle, con gli occhi offuscati da lacrime di gioia.
Sammy di fronte a lei iniziò a piangere. «Diventerai zia, Bel... e io sarò una mamma...» disse in un sussurro, mentre calde lacrime scendevano lungo le sue guance. Isabelle la strinse in un abbraccio fortissimo, da cui nessuna delle due voleva staccarsi.
«E come farà Charlie con il lavoro? Avete pensato a dove andare a vivere? E poi-»
Sammy la interruppe: «Charlie ha deciso di lasciare il lavoro in Romania, ma lo avrebbe fatto ancora prima di questa bellissima notizia. Aveva già deciso di tornare qua a Londra, per stare insieme a me... aveva provato a fare domanda alla loro vecchia scuola, sai quella di ... magia» disse abbassando la voce e guardandosi intorno, per evitare orecchie indiscrete. «Gli hanno proposto la cattedra di Professore per la Cura delle Creature magiche, e gli permetteranno anche di portare due draghi dalla Riserva per insegnare ai ragazzi tutto di loro e imparare a conoscerli, a non temerli! E stiamo già cercando un appartamento, non troppo lontano da lavoro e da casa di mamma e papà» terminò riferendosi ai suoi genitori.
«Tesoro, tutto questo è meraviglioso. Sono felicissima per te! E Charlie come ha reagito quando glielo hai detto?»
«Quasi sveniva, era bianco come un lenzuolo! Ma dopo qualche minuto si è ripreso ed era felicissimo. Ha detto che questo fine settimana mi porterà a casa a conoscere la sua famiglia e dare la notizia... ci sarai anche tu Bel, vero? Non posso farlo senza di te!» disse la bionda mentre le stringeva le mani.
Isabelle annuì. «Certo, tesoro. Se vuoi che io ci sia, ci sarò. Ma sappi che non devi temere niente. La famiglia Weasley è magnifica, amerai ognuno di loro immensamente. Ne sono sicura... anche se dovrai prepararti! Si mangia per interi eserciti e il padre di Charlie ti farà mille domande su ogni oggetto presente nel nostro appartamento!» esclamò ridendo.
«Non vedo l'ora, Bel!»
«E Pam lo sa?» chiese lei curiosa.
Sammy annuì. «A Pam l'ho detto stamani, sono andata a casa di Lee... ci credi se ti dico che ci ha quasi reso sordi? Credo che l'abbiano sentita anche in America!» esclamò ridendo.
Isabelle sentì la gioia esplodere dal suo cuore, era felicissima per i suoi più cari amici. Perché se c'era qualcuno che si meritava tutto il bene e la felicità di questo mondo, quella era Sammy Davis.
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Ma la gioia della mattina presto si trasformò in un vuoto allo stomaco e al petto. Perché se da una parte una nuova vita stava nascendo, l'anniversario della fine di un'altra si stava avvicinando. Era già qualche giorno che Isabelle ci pensava, ma cercava sempre di rimettere il pensiero di Stella nel cassetto più profondo della sua mente. Quel periodo dell'anno l'annientava, la rendeva completamente fragile e in balia di sé stessa e del suo dolore.
Mancava una settimana esatta a quel giorno, e lei si sentiva completamente persa, senza la sua bambina. Aveva fatto tanti progressi con la dottoressa, con il gruppo e grazie all'aiuto di George, ma in quei giorni, quando il dolore si faceva più forte e lancinante, le sembrava di essere ancora allo stesso punto, al 10 di novembre del 1997, il giorno in cui la sua vita era finita.
E ora, in piedi di fronte all'ufficio di Lucas, si chiedeva quali parole avrebbe potuto usare. Si chiedeva come avrebbe trovato il coraggio di parlare di ciò che le era accaduto con un completo sconosciuto, o quasi. Il ragazzo era stato molto gentile e professionale con lei, e si erano scambiati solo qualche parola e qualche battuta sporadicamente. Non sapeva quindi niente di lei e della sua vita passata, e si trovava in difficoltà. Credeva che non avrebbe accettato la sua richiesta di permesso per quel giorno, che lei voleva dedicare completamente alla sua bambina e al suo dolore per averla persa.
Prese coraggio e bussò, e dopo poco la voce possente del ragazzo le giunse dall'altro lato.
«Avanti!»
Aprì, titubante. «Lucas, se hai qualche minuto avrei bisogno di parlarti...» disse entrando e chiudendosi la porta alle spalle. Si accomodò in una delle comode sedie di fronte alla sua scrivania.
«Non ti vorrai già licenziare?» chiese lui con un'espressione preoccupata sul volto.
Lei rise, un po' imbarazzata. «Assolutamente no, Lucas. Mi sto trovando benissimo qua, sono davvero grata per questa opportunità che tu e tuo padre mi avete dato.»
Lui sembrò rilassarsi a quelle parole. «Allora, che succede?»
«Per me non è facile parlare di queste cose ma... cercherò di spiegarmi brevemente. Due anni fa, più precisamente il dieci di novembre... ho subito un lutto importante» disse, quasi senza fiato. Cercò di ritornare a respirare, prima di parlare di nuovo. «M-mia figlia. E visto che si sta avvicinando l'anniversario della sua... insomma, avrei bisogno di prendere un giorno di permesso. Voglio dedicarmi completamente a lei, non voglio pensare ad altro» concluse, con una lacrima solitaria che scendeva sulla sua guancia. Con un gesto veloce della mano la asciugò, mentre Lucas la osservava con gli occhi spalancati.
«Isabelle, non sapevo niente... mi dispiace così tanto. Ma certo che puoi prendere un giorno, anzi prenditi tutta la settimana se ti serve. Non preoccuparti di niente, mi farò carico io delle tue mansioni per qualche giorno.»
«Non importa tutta la settimana, bastano solo un paio di giorni. Grazie per la comprensione, Lucas» rispose lei, cercando di ristabilire il controllo sulle sue emozioni.
«Se hai bisogno di me, io ci sono Isabelle. Lo sai, vero?» disse con uno sguardo comprensivo.
Lei annuì. Uscì dalla stanza, non prima di aver rivolto un sorriso pieno di gratitudine a quel ragazzo tanto gentile, e di cui si pentì di aver pensato male tempo prima.
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10 novembre 1999
«Sammy mi ha detto che ti avrei trovato qua.»
«Ciao, George. Vieni, ti voglio presentare una persona...» rispose lei, inginocchiata di fronte alla piccola lapide bianca, mentre si voltava ad osservare il suo ragazzo. «Lei è Stella.»
Si inginocchiò anche lui, e le posò un lieve bacio sui capelli. Rimasero per qualche minuto in silenzio, con il gelido vento invernale a fare da compagnia. In quella parte del cimitero in quel momento, non c'era nessuno e Isabelle ne fu felice. Non voleva nessuno intorno, solo lei, Stella e George. L'unico che era davvero riuscito a oltrepassare le barriere del suo dolore e che riusciva a capirla.
«Ti assomiglia così tanto, è bellissima» disse lui, mentre passava delicatamente le sue grandi mani ad accarezzare la foto posta sul marmo della lapide. Una foto della bambina, sorridente e felice, con due piccole codine nere in testa.
«Ha preso i miei colori, ma assomiglia in tutto e per tutto a Eric. Hanno sempre avuto le stesse espressioni, sia felici che arrabbiate...»
«Come stai, amore?» chiese lui, preoccupato. Lei si girò di nuovo, non nascondendo le lacrime che rigavano il suo volto. Si trovava di fronte alla tomba da quella mattina. Era arrivata al cimitero dopo un intera notte insonne e si sentiva completamente stravolta, anche se il sonno perso in quel momento era l'ultimo dei suoi problemi.
«Sto male, George. Molto male... ma sono felice che tu sia qui con me» rispose lei, prima di cadere in un lungo silenzio. Lui si limitò a mettere un braccio intorno alla sua spalla e avvicinarla a sé.
«Credi che prima o poi il dolore diminuisca? O sarà sempre così?» chiese lei.
«Credo che il dolore sia sempre uguale, ma che prima o poi ci si abitua. Ci si abitua a questa fitta continua al cuore. Ma non ci si abitua mai alla loro assenza» rispose George, parlando piano.
Le parole sembravano superflue, in quel momento. Il loro silenzio, carico di dolore, parlava per loro. Il dolore di una mamma a cui era stato strappato il suo cuore, il dolore di un ragazzo a cui era stata strappata la sua esatta metà.
«Ho da farti vedere una cosa, vieni» disse George alzandosi e porgendole la mano. Lei lo osservò incuriosita.
«Cosa devi farmi vedere?»
«Ti fidi di me, Bel?»
Dopo qualche secondo di silenzio, lei rispose sicura. «Mi fido ciecamente di te.»
«Allora vieni, andiamo. Ci stanno aspettando.»
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