XXVII
Disclaimer: tentativi di suicidio
Sentiva il suono dei suoi passi pesanti colpire il pavimento di linoleum dell'ospedale. Il rumore arrivava ovattato alle orecchie di Isabelle.
La sua vista era offuscata e l'odore del disinfettante e dei medicinali le riempì le narici.
Aveva sempre odiato gli ospedali, fin da piccola. Lei e la sua famiglia, quando ancora poteva considerarla tale, avevano accompagnato sua nonna paterna in una estenuante battaglia contro il cancro. Un lungo calvario che aveva portato ad un epilogo doloroso per tutti.
Poi lo aveva odiato quando, in un estremo tentativo di salvare la vita della sua bambina, l'ambulanza in una corsa contro il tempo aveva portato Eric, Stella e lei, in stato confusionale, al pronto soccorso. L'aveva detestato quando i dottori si erano avvicinati a loro, seduti su quelle scomode panche, per comunicargli che ormai non c'era più niente da fare per lei.
E lo detestava adesso, mentre correva per i corridoi bianchi e spogli, che le facevano venire la nausea. Una morsa stretta le stava facendo contorcere la bocca dello stomaco, mentre si avvicinava in maniera impetuosa al banco dell'accettazione del pronto soccorso.
«A chi mi devo rivolgere per avere informazioni su una persona ricoverata?» disse senza fiato e con gli occhi che si spostavano freneticamente in ogni direzione.
Un infermiera bassa con una coda di capelli castani alzò lo sguardo e incrociò il suo, spaesato e preoccupato. «In cosa la posso aiutare?» chiese con tono monocorde.
«Sto cercando una persona. Credo che sia stata portata qua questa mattina. Il suo nome è Beth.»
«Beth come? Ho bisogno di più informazioni...» rispose l'infermiera, prendendo una gomma e iniziando a masticarla in modo rumoroso.
«Il cognome è Goldsmith. Beth Goldsmith».
La donna non rispose, si limitò a digitare qualche parola sulla tastiera del computer di fronte a lei. Dopo qualche minuto, scuotendo la testa le disse: «Qui non c'è nessuno con quel nome, mi dispiace».
Prima che se ne rendesse conto, sbatté in maniera violenta la sua mano sulla superfice del bancone. Il suo respiro si fece agitato e si rese conto di aver iniziato ad alzare la voce.
«Ascoltami bene. La persona in questione è molto importante per me, e tu adesso mi devi indicare dove si trova. E se non sei in grado di farlo, voglio immediatamente parlare con qualcuno di più competente. Ci siamo capite?»
Sentì la mano di George posarsi in modo delicato sul suo braccio. Si era completamente dimenticata della sua presenza.
«Bel, adesso cerca di calmarti. Magari chiamiamo Laura e ci facciamo dire in che stanza si trova-»
«No! Lei adesso ce lo deve dire! Hai capito?» continuò, rivolgendosi di nuovo all'infermiera. I suoi occhi si riempirono velocemente di lacrime. George le cinse la vita con un braccio e la avvicinò a sé, lasciandole un lieve bacio tra i capelli.
«Shh, Bel... tranquilla...»
L'infermiera sembrò colpita dall'agitazione e dalle lacrime di Isabelle. Si schiarì la gola: «Signorina, mi scusi. Sono stata forse poco professionale, è solo che sto per terminare un turno di dodici ore e sono esausta. Ad ogni modo, riesce a darmi qualche informazione in più? Data di nascita, motivo del ricovero?»
Isabelle scosse la testa. «No, so solo il suo nome e che è stata portata qua perché ha... tentato il suicidio» disse, mentre un groppo enorme le si formava in gola.
«Può provare con Elizabeth Goldsmith? È il suo nome completo» disse George.
L'unico rumore che si udì per qualche minuto erano le dita dell'infermiera sulla tastiera e i bip di qualche macchinario nelle stanze più vicine all'accoglienza.
«Trovata! È stata registrata sotto il nome di Jane Elizabeth Goldsmith, probabilmente sarà uno sbaglio di qualche collega... quinto piano, stanza 34.»
Senza nemmeno ringraziarla, Isabelle si voltò e a grandi passi andò verso l'ascensore. Iniziò a premere in maniera frenetica il pulsante rosso per la chiamata, con i nervi a fior di pelle e le lacrime che minacciavano di uscire da un momento all'altro.
«Bel...»
Sentì le grandi mani del suo ragazzo posarsi sulle sue spalle, mentre la testa si appoggiava delicatamente alla sua. «Non puoi agitarti così, cerca di mantenere la calma... starà meglio, adesso che siamo qui con lei.»
Si voltò e appoggiò il capo al suo petto. Le lacrime, dinanzi alle sue parole, fecero la loro comparsa. Il nodo in gola si tramutò in grandi goccioloni che scorrevano lungo le sue guance e inzuppavano la maglietta di George. Una delle sue mani accarezzò con gentilezza i suoi capelli, scendendo poi a posarsi sulla sua guancia.
Lo scampanellio, indicante l'arrivo dell'ascensore al piano terra, li distrasse dal loro intimo momento. Asciugandosi gli occhi con il dorso della mano, Isabelle entrò nell'angusto abitacolo, seguita a ruota dal ragazzo con i capelli rossi.
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Nonostante cercasse di mantenere la calma e la razionalità, anche George si sentiva distrutto. In più, vedere Isabelle così lo faceva soffrire. Si sarebbe preso volentieri tutto il suo dolore, tutti i suoi fardelli, le sue difficoltà, pur di vederla felice.
Si avvicinarono alla porta della stanza 34 del quinto piano. Era socchiusa e da dentro si poteva udire un vocio indistinto, basso.
Aprendo la porta, il suo cuore si fermò per un attimo.
Beth, la forte, cazzuta Beth, quella piccoletta a cui aveva iniziato ad affezionarsi e che aveva finito per adorare, si trovava distesa in un letto di ospedale fin troppo grande per lei.
La sua figura minuta sembrava sprofondare in quelle lenzuola azzurre. Notò subito le enormi fasciature bianche intorno ai suoi piccoli polsi e le flebo che spuntavano dall'interno del suo braccio destro e dal petto, coperte da una camicia da notte rosa chiaro.
Il suo volto, pallido e scavato, si girò di scatto verso la loro direzione.
I suoi occhi si inumidirono e subito il suo sguardo si abbassò.
«Perché hai chiamato anche loro...?» disse la ragazza in un flebile sussurro a Laura, seduta accanto a lei su una grande sedia marrone.
Isabelle, accanto a lui, mosse un passo verso il centro della stanza, poi un altro. Prendendo coraggio, si avvicinò impetuosamente al lato del letto e si inginocchiò, mettendosi all'altezza della loro piccola amica.
«Beth, cos'è successo? Ci siamo sentite per messaggio l'altro giorno e stavi bene, mi hai detto che stavi uscendo, hai conosciuto qualche nuovo amico... ti prego, spiegami» disse prendendo le mani della ragazza tra le sue.
George si avvicinò lentamente ai piedi del letto. Era sconvolto, non si era preparato ad una visione del genere. Prese qualche secondo per osservarla e notò che effettivamente, la ragazza era ancora più magra rispetto all'ultima volta che l'aveva vista. I suoi polsi, le sue braccia, le sue gambe e anche il suo viso, risultavano scheletrici.
«Oh Bel, mi dispiace così tanto di avervi disturbati... Laura, perché li hai chiamati?» chiese Beth, stavolta alzando un po' la voce.
Laura non seppe cosa rispondere, ma prima che potesse parlare fu interrotta da Isabelle. «Beth, non dire neanche per scherzo una cosa del genere. Non ci hai disturbato e mai lo farai. Mai. Hai capito?» disse, facendole una carezza sul volto. «Ti prego, adesso puoi raccontarmi cosa è successo?»
I suoi grandi occhi scuri si spostarono da lei verso George. Arrossì lievemente.
«Beth, non devi vergognarti di noi. Per favore, raccontaci cosa è successo. Vogliamo solo aiutarti...» disse lui, sporgendosi in avanti e appoggiando le mani alla struttura del letto.
«O-ok... St-stava andando tutto bene. Insomma, tutto meglio, sicuramente. Sono stata rimandata a scuola e ai corsi di recupero ho conosciuto delle ragazze di un'altra classe. Abbiamo subito fatto amicizia e abbiamo iniziato ad uscire almeno due, tre volte a settimana. Ho anche ricominciato a mangiare un po' di più, pensate che ho azzardato una fetta di torta gelato, una sera. Ero davvero felice... mi sembrava di sognare. Ma ovviamente questo non è andato bene a mio padre, o alla sua nuova fidanzata... si è trasferita a casa mia, sapete?»
«Oh no...» disse Isabelle, aumentando la presa sulle sue piccole mani.
Lei annuì. «Due sere fa, sono rientrata all'incirca a mezzanotte. Ero in ritardo di quanto, mezz'ora forse? Voglio dire, è estate, chi torna a casa così presto? Comunque, quando sono entrata erano entrambi seduti in salotto ad aspettarmi... avreste dovuto vederli, sembravano due sceriffi, pronti con le pistole puntate. Hanno iniziato ad inveire contro di me, a dirmi quanto sono stupida, inutile e schifosa...»
I suoi occhi si riempirono di lacrime e George sentì la rabbia montare dentro al corpo. La sentiva scorrere, fluire nelle vene e terminare il percorso nelle sue mani, adesso strette a pugno.
«Poi mio padre ha sganciato la bomba. Dopo il matrimonio, tra un mese esatto, ci trasferiremo. Gli hanno offerto un lavoro in Alabama e ovviamente ha già accettato, senza chiedermi niente. In quel momento ho sentito il mondo crollarmi addosso. Non potevo pensare di lasciare le mie nuove amiche, la scuola, il gruppo... non posso pensare di lasciare voi. E non riesco ad accettare di dovermi trasferire e non poter più andare a trovare mia madre al cimitero ogni volta che ne sento il bisogno...»
Finalmente le lacrime iniziarono a scorrere e violenti singhiozzi scossero il suo piccolo corpo. George sentì il bisogno di un contatto con lei e chiese con lo sguardo a Laura di spostarsi. Sedendosi sulla sedia, si allungò e la avvolse in un abbraccio stretto. Lei, così come aveva fatto Isabelle poco prima, si appoggiò al suo petto e si lasciò andare ad un pianto liberatorio.
Dopo diversi minuti ricominciò a parlare: «Mi sono sentita morire. Non sarò maggiorenne fino all'anno prossimo e il pensiero di doverlo passare con loro, in una città e in un paese completamente sconosciuto, senza di voi e senza mamma... non ho visto altra scelta. In quel momento volevo solo porre fine alla mia stupida, insulsa vita. Non mi importava di niente, volevo solo che il mio dolore svanisse, che se ne andasse. E così ho fatto, o almeno, ho tentato. Ho riempito la vasca e mi sono immersa. Poi ho preso una lametta e... ho iniziato a tagliare. Più andavo in profondità, meglio mi sentivo. Ho fatto prima un polso, poi l'altro, e dopo mi sono stesa ad aspettare. Non ricordo molto, credo di essere svenuta e poi mi sono risvegliata qua, con i polsi fasciati... credo che mio padre abbia avuto un moto di compassione e mi abbia accompagnata in pronto soccorso ma da quel momento...»
«Quel pezzo di merda è sparito dalla circolazione» la interruppe Laura, in piedi con le braccia incrociate. «Beth mi ha chiamato stamani e sono corsa subito. Non potevo lasciarla sola».
George restò pietrificato. Non riusciva a comprendere come fosse possibile una cosa del genere, una crudeltà simile. Come era possibile rinnegare il sangue del proprio sangue? Non capiva come un padre avesse potuto rifiutare la stessa vita che aveva creato. Suo padre era sempre stato un punto fermo per lui. Un ancora a cui aggrapparsi in momenti difficili, una figura su cui poter contare, così come tutti i membri della sua famiglia.
Isabelle, per tutta la durata del racconto, era rimasta stoica, immobile, mentre le lacrime solcavano le sue guance a bagnavano il tessuto azzurrognolo del letto.
«Mi hanno messo anche un catetere venoso centrale, qua» disse Beth, mentre indicava con le dita ossute al centro del suo petto. «Perché hanno visto che sono molto sottopeso. Mi hanno detto che lo dovrò tenere ancora un po', per iniziare a riprendere liquidi e sostanze nutritive e poi... mi hanno detto che ci vorrà un bel po' prima che le ferite sui polsi si richiudano. Ci ho dato parecchio dentro e ho perso tanto sangue...» disse chiudendo gli occhi e appoggiandosi al morbido cuscino posto dietro la sua schiena.
«Beth, non preoccuparti. Supereremo tutto insieme, in qualche modo. Ce la faremo» disse George, mentre le faceva uno dei suoi sorrisi più sinceri.
Isabelle annuì convinta. Se c'era una cosa di cui entrambi erano sicuri, era che non la avrebbero mai lasciata sola.
Mai più.
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«Non vale, hai barato!»
La risata sincera di Beth risuonò lungo le pareti della stanza e fece vibrare i loro cuori. Sembrava aver ripreso un po' di colorito e aveva anche tentato di fare due passi nel corridoio del reparto, scortata saldamente sottobraccio da George. La sera precedente avevano dato il cambio a Laura per la notte e avevano sorvegliato la ragazza a turno. Si era svegliata un paio di volte, in preda ad attacchi di ansia e di pianto, ma la loro vicinanza era riuscita a calmarla.
«Non è vero, ranocchia! Non ho barato, è che questo gioco è stupido!» rispose lui, mentre con un gesto di stizza cancellava con la penna quello che aveva scritto su un foglio bianco.
«Nomi cose e città non è un gioco stupido, è un gioco divertente e stimolante. Sei tu che ti inventi le parole! La burrobirra non esiste, da nessuna parte nel mondo! E non puoi segnarti punti così a caso!»
Lui le fece la linguaccia e Isabelle sorrise. Qualche parola riguardante il mondo magico l'aveva imparata, ma George non poteva svelare la sua esistenza anche a Beth. O perlomeno, non in un momento del genere.
Mentre i due continuavano a discutere animatamente, il suo telefono squillò. Sua madre la stava chiamando e lei non aveva minimamente voglia di risponderle.
Ma doveva. Poteva essere un emergenza, e lei non voleva avere sulla coscienza un ulteriore peso.
«Pronto mamma?»
«Ho chiamato la madre di Pam e Sammy, mi ha detto che siete tornate ieri sera. Perché non sei ancora passata?»
Sospirò. Sua madre non sarebbe mai cambiata.
«Ciao anche a te. Sto bene grazie, e tu?» disse sarcasticamente.
«Isabelle, non prenderti gioco di me. Perché non sei passata?»
«Mamma, ho avuto un emergenza. Più tardi nel pomeriggio vengo, ok?»
«No. Vieni adesso, devo parlarti. Ci vediamo tra poco» e riagganciò.
Che palle.
«Ragazzi, mi dispiace disturbare la vostra discussione così accesa ma devo passare da casa di mia madre per sistemare delle cose. Torno presto, promesso» disse lei, prima di sporgersi a lasciare un bacio sulla testa di Beth con fare materno. «E ricordati cosa ha detto il dottore, dopo passano a portarti qualcosa da mangiare. Se riesci a finire tutto, possono valutare di levare la nutrizione parentale tra qualche giorno. Mi raccomando, piccoletta!»
«Sì, signor capitano!» rispose lei sorridendo.
«Mi raccomando, accertati che mangi tutto» disse rivolgendosi a George. Lui si alzò e la avvicinò, avvolgendola in uno dei suoi soliti abbracci, Uno di quelli che le toglievano il fiato.
«Va bene, non tardare troppo. Ti aspettiamo qua».
Le diede un lungo bacio. Quando riaprì gli occhi e si staccò da lei, Isabelle sentì caldo alle guance e i brividi scorrerle lungo la schiena. Quel ragazzo le aveva davvero fatto una magia.
«Ehi! Quando pensavate di dirmi che vi siete messi insieme?» urlò Beth, battendo le mani felice. La sua esclamazione fece arrossire entrambi, mentre George passava come sempre una mano dietro la nuca, con fare imbarazzato.
«Ti spiegherà tutto George! Adesso devo scappare!» disse lei mentre salutava con la mano e si allontanava fuori dalla stanza.
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«E tu che ci fai qua?»
Sapeva di non doversi fidare di sua madre. Era da sempre poco affidabile, soprattutto per quanto riguardava le scelte che compieva. Che, a quanto pare, continuavano ad essere discutibili.
«Non farla tanto lunga, Isabelle. Eric ha bisogno di parlarti e visto che da mesi non lo degni di uno sguardo o un saluto, ho ben pensato di invitarlo qua».
La voce stridula e strafottente di sua madre le provocò un brivido. Aveva il grande potere di riuscire ad irritarla con niente, e anche questa volta c'era riuscita alla grande. Sentiva la rabbia scorrerle sotto la pelle, pronta ad esplodere da un momento all'altro.
Eric si trovava seduto in cucina, con gli avanbracci appoggiati al ripiano del tavolo. Uno sguardo colpevole era visibile nei suoi occhi, marroni e profondi. Le sembrò per un attimo di rivedere in quello sguardo il vecchio Eric, quello di cui si era perdutamente innamorata e con cui aveva formato una famiglia.
«Bene, vi lascio soli! A dopo, ciao caro» disse sua madre facendo una carezza sui capelli neri di Eric, prima di andarsene dalla stanza.
Lei rimase, rigida, di fronte alla porta. Non osava fiatare, e rimase in attesa di una parola da parte di lui. Ma il silenzio calò, invece, pesante tra loro.
Ancora un minuto e me ne vado.
Contando mentalmente i secondi, Isabelle pregò dentro di sé che Eric non iniziasse a parlare. Non era sicura di voler sentire cosa avesse da dire. Probabilmente altre cazzate, altre scuse, solo per addossare la colpa di tutta la loro situazione a lei. Si rese conto, comunque, di non avere paura di lui, nonostante i loro ultimi trascorsi. Ne fu sollevata.
Stava per andarsene quando la sua voce, roca ma allo stesso tempo tremante, pronunciò le parole che non avrebbe mai pensato di sentire.
«Ti devo delle scuse, Bel... Potrai mai perdonarmi per tutto il male che ti ho causato?»
Esitò qualche secondo ma poi decise di sedersi su una sedia, proprio di fronte a lui. Pensò che fosse arrivato il momento di chiudere definitivamente alcune delle questioni rimaste in sospeso di quella che considerava la sua vita precedente.
La sua vita prima dei tentativi di elaborare il lutto di Stella.
La sua vita prima di una ritrovata serenità.
La sua vita prima di George.
Si schiarì la voce e assunse un tono deciso, intenzionata a non far trasparire il tremore delle sue mani o il groppo nella sua gola che non accennava a scendere.
«Sono pronta ad ascoltare».
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La guardò dormire serenamente. Le sarebbe sembrata un angioletto, se non fosse stato per i tubicini che uscivano da vari punti del suo corpo e per le spesse fasciature ai suoi polsi.
Aveva da poco chiuso gli occhi, complice anche una forte dose di calmante che la stessa infermiera del giorno prima, quella dell'accettazione, le aveva somministrato.
Accarezzandole lievemente i capelli, nella penombra della stanza, George chiuse gli occhi. Gli sembrava impossibile che nel giro di ventiquattro ore fosse tutto cambiato.
Prima la gioia, i sorrisi, l'amore.
Adesso un letto di ospedale, fasciature e medicinali.
E tanto, tanto dolore.
Lo stesso dolore che aveva visto negli occhi di Beth, quando qualche ora prima, probabilmente spensierata e noncurante a causa della sua presenza, aveva poggiato l'intero peso del suo corpo sui polsi per cercare di sollevarsi dal letto.
I punti si erano rotti e le fasciature si erano intrise quasi immediatamente di sangue, che aveva iniziato poi a colare. Lei si era davvero spaventata e aveva provato un dolore fortissimo. Glielo riusciva a leggere negli occhi, che si erano riempiti di lacrime.
Erano stati necessari nuovi punti, che lei si era fatta mettere senza fiatare. Era rimasta per tutto il tempo con la testa appoggiata sul cuscino e rivolta verso di lui, che non aveva mai abbandonato il suo capezzale.
Le aveva sussurrato parole dolci e confortanti, cercato di fare qualche battuta per riuscire a distrarla, e gli sembrava di esserci riuscito. Ma dopo che le infermiere se ne erano andate, lei si era ammutolita, con lo sguardo perso nel vuoto.
Rimase in quella posizione, con la mano sulla testa di quella piccola guerriera, per un tempo che gli parve indefinito. Nel mentre, un idea si fece strada nella sua mente.
A cosa serviva la magia se non poteva utilizzarla per aiutare chi ne aveva bisogno? Se non poteva usarla per eliminare un po' della sofferenza provata da quella ragazzina, che considerava come una sorella?
Alla fine, prese una decisione. Quella che sentiva più giusta, solo ed esclusivamente per Beth.
Mise la testa fuori dalla porta e vide che nel corridoio non c'era nessuno. Rientrò e si chiuse la porta alle spalle e poi estrasse dalla tasca dei suoi pantaloni la sua bacchetta. La passò tra le sue grandi mani, soppesandola e riflettendo sull'incantesimo migliore da usare.
Appoggiò la bacchetta sulla pelle delicata di Beth, più precisamente sul polso destro e pronunciò: «Pervènio».
Ripeté l'operazione anche dall'altro lato e poi, velocemente, ripose la bacchetta.
Non era sicuro che l'incantesimo fosse andato a buon fine. Era uno di quelli che insegnavano al settimo anno e, nonostante glielo avesse fatto conoscere sua madre visto il suo abbandono degli studi, non aveva avuto grandi occasioni di praticarlo. In più, era impossibile da dire a causa delle grandi fasciature bianche che circondavano i due polsi esili.
«Ma che hai fatto, George?»
Si girò e vide Isabelle di fronte alla porta. Lo guardava con occhi penetranti.
«N-niente Bel, no-non ti preoccupare» rispose balbettando. Si sentì colto sul fatto e iniziò a grattarsi la nuca con fare imbarazzato, come suo solito.
«Ma non hai detto che era vietato fare magie nel mondo babbano?» disse lei in un sussurro, per non farsi sentire.
Alzò le spalle. Era vero. Era vietato, ma in quel momento non gli interessava. Aveva a cuore l'incolumità della sua piccola amica, il resto non aveva importanza.
«Non preoccuparti, ho tutto sotto controllo. Ma quanto ci hai messo? Sei stata via ore...» disse mentre si avvicinava a darle un bacio sulle labbra.
Lei sospirò. «Mia madre mi ha tratto in inganno. Mi ha chiamato a casa sua e poi c'era Eric ad aspettarmi. Me lo dovevo immaginare...»
Sentì il sangue ribollire nelle vene al nome di quello stronzo, che aveva osato mettere le mani addosso a Isabelle. «Eric? Cosa ti ha detto? Non ti avrà mica fatto del male? Se è così dimmelo, perché questa volta non mi limiterò a spaccargli la faccia ma-»
«Ehi ehi, tigre! Calmati!» rispose lei, ridendo. «Non mi ha fatto niente. Abbiamo solo chiacchierato e finalmente ci siamo chiariti. È finita, completamente, e lo ha accettato anche lui. E poi... gli ho parlato di te»vdisse diventando leggermente rossa in viso.
George sentì il sorriso formarsi sul suo volto e il cuore scoppiare di felicità.
Le spiegò poi brevemente cosa era successo a Beth e il motivo per cui aveva usato la magia. Lei fu completamente d'accordo con la sua scelta.
«Povera Beth... mi dispiace che le sia toccata questa famiglia. Nessuno si meriterebbe un trattamento del genere... nemmeno io» disse abbassando gli occhi a terra.
George prese coraggio e le fece una proposta che frullava nella sua testa da qualche ora. Sapeva da mesi della situazione al limite del tragico della famiglia della ragazza. Sapeva quanto aveva dovuto soffrire nella sua vita. Ed era arrivato il momento di porre fine a tutto questo.
Voleva che si sentisse finalmente accolta in un nucleo familiare amorevole.
Voleva che fosse felice, e voleva essere il motore di quella felicità.
«Isabelle, voglio farti conoscere la mia famiglia.»
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