XIX


Disclaimer: menzione di morte


«Quindi fammi capire. Lasci il lavoro e parti per un viaggio con completi sconosciuti?»

Isabelle sospirò, chiudendo gli occhi. Si trovava di fronte alla persona che amava e odiava di più al mondo. La persona che sapeva farla uscire fuori di senno ma con cui non riusciva mai a restare arrabbiata per più di mezz'ora.

«Mamma, non sono completi sconosciuti. Ti ricordo intanto che ci saranno anche Sammy e Pam e che partiamo insieme ai loro fidanzati e il fratello di uno di loro. Ormai li conosciamo da novembre, penso proprio di poterli considerare amici, non trovi? E poi non lascio il lavoro, prendo solo dieci giorni di ferie. Credo di meritarmeli, dopotutto».

Sua madre sbuffò. Si trovava girata di spalle, intenta a versare il caffè appena fatto in due tazze. Isabelle poté immaginare la sua espressione. Sdegno misto a disgusto. Tipico di lei.

«Eric cosa pensa di questo tuo... progetto?» chiese sua madre porgendole una delle due tazzine.

Isabelle si irrigidì. Ci risiamo, pensò. Sua madre aveva da sempre un debole per Eric, credeva che fosse l'uomo perfetto per lei. Quando le aveva comunicato che avevano definitivamente chiuso la loro storia, la ragazza si era dovuta sorbire due ore di ramanzina su quanto fosse stata stupida e ingrata a lasciare andare un ragazzo d'oro come lui. Avrebbe cambiato idea se le avesse raccontato dei suoi gesti tutt'altro che affettuosi? Probabilmente no. Avrebbe sicuramente trovato il modo di giustificarlo, addossando la colpa a lei.

«Questi non sono affari di Eric, mamma. E non azzardarti a raccontargli niente. Dico sul serio» rispose lei, con un'espressione dura sul volto. Sua madre si girò e inchiodò il suo sguardo su di lei.

Come accadeva da sempre, lo stesso sguardo di fuoco si accese in entrambe le donne. Così diverse, così simili, non riuscivano a trovare niente su cui andare d'accordo. Isabelle si prese un secondo per osservare la donna davanti a lei. Pelle olivastra, capelli neri che scendevano fino alle spalle, occhi marroni penetranti. Le rughe iniziavano a farsi vedere ai lati del suo volto, ma nonostante tutto era bella. Il suo corpo snello ma con le giuste curve completava l'opera. Per certi versi potevano sembrare sorelle, ma a differenziarle era il grande sorriso presente sul volto di Isabelle, mentre invece sua madre sorrideva poco, o meglio, non sorrideva mai.

«Va bene, non sarò certo io a dirti quanto questa tua scelta sia discutibile, per non dire veramente senza senso. Me lo saprai ridire, ne sono certa» le disse la donna con un tono glaciale.

Mentre Isabelle stava per replicare, sua madre si voltò andando fuori dalla cucina dove si trovavano sbattendo i piedi. Sentì chiudere con forza la porta della camera.

Scosse la testa, incredula. Sua madre era impossibile. Non riusciva proprio ad accettare la possibilità che potesse star meglio. Da quando aveva iniziato le sedute individuali, quelle di auto aiuto o da quando si era creata un nuovo gruppo di amici che la rendevano felice, la donna era riuscita solo a commentare in modo sprezzante ogni cosa, ogni sua scelta. Sembrava che non riuscisse a sopportare un suo miglioramento, se questo non includeva Eric o lei. E questo le risultava un po' difficile, visto come si erano comportanti entrambi nei suoi confronti.

Si alzò e si avviò verso l'uscita dell'appartamento. Fu tentata di provare a parlare di nuovo con sua madre ma alla fine desistette. Non aveva più le forze di provare a ragionare con lei. Le sembrava ormai una battaglia persa.

«Me ne sto andando» disse, ricevendo un ulteriore silenzio come risposta.

«Ciao mamma» disse aprendo la porta in modo arrabbiato. La sbatté dietro di sé, in modo che anche sua madre capisse il suo stato d'animo. Se era guerra quella che voleva, avrebbe trovato pane per i suoi denti. Non era più la ragazzina docile a cui aveva cercato di mettere i piedi in testa da sempre e prima o poi avrebbe dovuto capirlo.

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Da quel giorno al parco, George e Isabelle erano riusciti a vedersi poche volte. Lei lavorava sia il pomeriggio che la sera, cercando di soddisfare le continue richieste di Rob, il proprietario del locale. Lui stava ogni giorno fino a tardi al negozio di scherzi. Anche quando organizzavano delle uscite di gruppo, spesso e volentieri Isabelle si trovava in turno e nonostante gli altri andassero al locale per bere qualcosa e stare insieme, lei si ritrovava sommersa dalla folla al bancone fino a tardi e aveva poco tempo da dedicare ai suoi amici.

Riuscivano a incontrarsi al gruppo alla chiesa di St Andrew, ma non avevano molto tempo da passare insieme nel modo in cui avrebbero desiderato. Inoltre, il gioco si stava facendo sempre più serio e gli argomenti che venivano trattati durante le sedute spesso lasciavano spiazzati entrambi. L'unica cosa che avrebbero voluto fare sarebbe stato andare a casa e tirare le coperte fin sopra la testa, per provare a dimenticare tutto il dolore.

I mesi trascorsero quindi velocemente. Arrivò l'estate e la sua calura infernale, anche in una città come Londra. Presto fu l'inizio di agosto e con esso si avvicinava la partenza per il loro viaggio.

«Buonasera a tutti, e benvenuti all'ultimo incontro prima della pausa estiva. Come vi sentite oggi?» chiese Laura, la mediatrice del gruppo.

«Bene! Mi sento solo come se fossi nel microonde con il timer impostato su "tre mesi"» rispose George usando uno dei dépliant del gruppo come ventaglio, scatenando le risate di tutti gli altri componenti. Si sentiva meglio ultimamente. Si sentiva di star tornando, piano piano, ad essere sé stesso. Il caro e vecchio George, con i suoi scherzi e le sue battute. Inoltre, le sue recenti scoperte sul mondo babbano e i suoi oggetti, compreso il microonde, gli rendevano facile il lavoro.

«Hai ragione George, questo caldo è davvero insopportabile. Ad ogni modo, facciamo il nostro classico giro e poi partiamo» gli rispose lei, sorridendo.

Passato qualche minuto e dopo che tutti ebbero comunicato il loro stato d'animo, la donna continuò a parlare. «Come sapete, questa è l'ultima seduta prima di salutarci per qualche settimana. Il gruppo riprenderà la seconda settimana di settembre. In questi mesi avete fatto un lavoro magnifico». Con gli occhi lucidi osservò lentamente ognuno di loro. «Sono molto fiera di voi. Avete affrontato i vostri demoni e il vostro dolore e ne siete usciti tutti vittoriosi. Proprio per questo, però, oggi vi chiedo un ultimo sforzo».

A quelle parole George e Isabelle, che erano seduti vicino, si guardarono. Un lampo di terrore attraversò i loro occhi. Quelle parole non avevano mai portato a niente di facile, anzi spesso e volentieri avevano portato lacrime e sofferenza.

«Vi chiedo, ancora una volta, di lavorare in coppia. Potete come sempre scegliere il vostro partner. E il compito che vi chiedo non è semplice. Vorrei che raccontaste in che modo se ne è andata la persona che avete perso. Credo che arrivati a questo punto sia necessario affrontare questo argomento così delicato e così doloroso in modo diverso per ognuno di voi. Ma sono anche convinta che riuscirete a rimanere in piedi, nonostante tutto».

Quando la donna finì di parlare, tutti i partecipanti rimasero in silenzio, con il fiato sospeso. Non era per niente semplice. Isabelle aveva il respiro accelerato. George si contorceva le mani, preso dall'ansia e Beth, seduta accanto a lui, aveva lo sguardo fisso nel vuoto.

I partecipanti iniziarono a dividersi e, nuovamente, i tre ragazzi si ritrovarono insieme. Beth iniziò a spostare la sedia per raggiungere Laura quando la mediatrice si avvicinò e le disse: «Beth, voglio provare una cosa. So che ho detto che il lavoro solitamente viene fatto in coppia ma perché non provi con George e Isabelle? Credo che ti potrebbe essere utile. Sarebbero in due a sostenerti» le disse, osservandola con uno sguardo materno. Beth annuì e ritornò al suo posto.

«Ci siamo ragazzi, finalmente possiamo lavorare insieme» esclamò la ragazzina con un sorriso tirato sul volto.

«Beth, stai tranquilla. Ci siamo noi qua con te. E se vedi che non te la senti di continuare, basta che lo dici e ti fermi. Sai che non c'è nessun obbligo...» le disse dolcemente Isabelle, sporgendosi per accarezzarle delicatamente le mani che la ragazza stava tenendo in grembo.

«Potete cominciare voi, ragazzi? Non me la sento di sciogliere il ghiaccio subito...» disse Beth con lo sguardo basso.

«Ma certo, piccola, comincio io va bene? Però fammi un bel sorriso adesso, sì?» rispose George guardandola negli occhi pieno di speranza.

Beth rimase in silenzio ma fece un sorriso enorme. Aveva da sempre un debole per George, era uno dei pochi che con niente riusciva a farla ridere.

«Ok, allora... da dove cominciare?» disse il ragazzo, tornando a muovere le mani una contro l'altra in modo frenetico. Isabelle lo osservò negli occhi cercando di trasmettergli tranquillità, cercando di non farlo sentire solo. Questo sembrò dargli l'imput per iniziare a raccontare.

«Per me non è per niente facile ma... credo che sia arrivato il momento. Ok...» fece un respiro profondo. «Mio fratello Fred è... morto il 2 maggio del 1998. Si trovava in...» sembrò pensarci un attimo. Voleva tirare fuori la sua esperienza, il suo dolore. Ma doveva anche riuscire a calibrare bene le parole. Non poteva abbassare la guardia in una stanza piena zeppa di babbani. «Un edificio. Una parte di parete è crollata e lui e nostro fratello maggiore Percy si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. D'istinto ha spinto di lato Percy e purtroppo... ha perso la vita. Io e i miei fratelli siamo accorsi subito, abbiamo spostato i massi e le macerie e lo abbiamo visto là sotto. Abbiamo tentato di rianimarlo, di salvarlo ma... ormai era tutto inutile. L'unica cosa che in un certo senso mi consola è aver visto una lieve traccia di sorriso sul suo volto mentre se ne andava».

George, che aveva tenuto lo sguardo abbassato per tutto il racconto, alzò la testa incrociando prima gli occhi di Isabelle e poi di Beth. Entrambe avevano un'espressione corrucciata e addolorata sul volto, gli occhi lucidi e rossi.

«Non è stato semplice sollevarlo e portarlo all'esterno. Ma ho voluto farlo io. Non volevo che nessuno toccasse il suo corpo, se non io. Dovevo essere io ad accompagnarlo, a sostenerlo nel suo ultimo viaggio». Sentiva il dolore che scorreva nelle sue vene, pompando dritto fino al cuore. Al centro del petto un buco che piano piano si stava allargando. Un enorme vuoto che presto causò la fuoriuscita di alcune lacrime dai suoi occhi. Ma George era felice di quelle sensazioni. Era felice finalmente di poterle provare, di poterle esternare. Il suo percorso di guarigione stava procedendo, era fiero di sé stesso. Non avrebbe mai dimenticato, ma avrebbe provato a rendere la sua vita degna di essere vissuta. In onore di Fred.

«Adesso basta con questi musi lunghi, ragazze! Va bene che siete sempre belle anche così ma... quando sorridete lo siete ancora di più!» disse George, mentre si sporgeva verso Isabelle con un sorriso sul volto, cercando di asciugare con il pollice alcune lacrime che stavano scendendo sulle sue guance. Era incredibile come cercasse di consolare gli altri, nonostante il suo dolore fosse immenso.

«Avanti, chi è la prossima?» continuò lui.

«Vado io» disse con coraggio Beth. «Come già sapete, mia mamma è morta di tumore un anno fa. Quello che però non ho mai raccontato è che ero con lei quando se ne è andata...»

«Forza Beth, puoi farcela. Siamo con te» le disse Isabelle, cercando di incoraggiarla.

«Ok. Allora, come dicevo, ero con lei in ospedale quando se ne è andata. Di mio padre, nemmeno l'ombra. Probabilmente era con quella sguald- no ok, non devo usare questo termine. Era con quella poco di buono. Insomma... io ero lì, in quella stanza di ospedale, mentre le tenevo la mano. Respirava male, spesso rantolava e non riuscivo più quasi a riconoscerla, con tutti i macchinari attaccati e con la benda in testa a coprire la calvizie. Mi sentivo disperata. Non sapevo più a cosa aggrapparmi, mi sentivo tanto sola... ma lei, anche in quel momento, ha saputo ridarmi una speranza. Le stavo tenendo la mano mentre guardavo fuori dalla finestra, immersa nei miei pensieri. Pensavo che dormisse, e invece mi stava osservando di sottecchi. Ha mosso l'altra mano, quella che non le stavo tenendo stretta, e io ho cercato di dissuaderla. Non doveva fare sforzi eccessivi. Ma lei ha insistito e mi ha accarezzato il volto con una tale delicatezza... a volte ancora lo sogno la notte...» disse portandosi istintivamente una mano sulla guancia, come a voler risentire quella sensazione.

«Siamo state per un po', così, in silenzio, l'unico rumore erano i bip dei macchinari. E poi, mi ha spiazzato. Guardandomi intensamente negli occhi mi ha detto che aveva fatto un sogno, la sera prima. Mi ha detto che aveva sognato il nostro ricongiungimento, un giorno molto lontano. Ha detto che mi aveva visto grande, bella, vestita con un tailleur, piena di soddisfazioni lavorative e familiari. Ha detto che nel sogno ci abbracciavamo forte e ci promettevano di non lasciarci mai più. E poi ha detto queste esatte parole: «Sono sicura che non era un sogno, piccola mia. Un giorno, quando sarà il momento, potremo stare di nuovo insieme e sarà bellissimo. Cerca di essere forte, per te e per il tuo papà...» Fece un'espressione disgustata. «Anche in quel momento, quell'angelo di donna ha pensato a lui, che non era nemmeno al suo capezzale. Comunque, dopo qualche ora, ha smesso di respirare e io le ho tenuto sempre la mano. Volevo farlo anche quando sono arrivati i medici per dichiarare il decesso ma non me lo hanno permesso, e io ero completamente sola... una ragazzina di quindici anni da sola ad affrontare la morte della madre».

Una volta finito di raccontare, la ragazza aveva copiose lacrime che scendevano senza sosta dai suoi occhi. Sul volto, un'espressione di dolore, visibile dalle sopracciglia corrucciate e dalla smorfia della sua bocca. Anche George e Isabelle stavano piangendo. Il dolore condiviso era stato enorme.

Ma anche per Beth, il lavoro terapeutico di gruppo aveva portato buonissimi risultati. Si asciugò le lacrime, felice per non essersi sgretolata nel tirare fuori la sua esperienza. Poteva essere un punto di partenza per stare finalmente meglio. Ed era felice di avere intorno a sé persone che le volevano bene e la sostenevano, come in quel momento.

«Bene, credo che allora tocchi a me...» sussurrò Isabelle, abbassando lo sguardo.

«Forza, Bel. Ce la puoi fare, sono qua» le rispose George, prendendole la mano. Lei alzò lo sguardo e incrociò gli ipnotici occhi color nocciola del ragazzo. Per un secondo rimase incantata. Fu Beth che la riportò alla realtà, schiarendosi la gola.

«Come posso cominciare... beh... posso dire innanzitutto che Stella è sempre stata una bambina vivace. Fin troppo vivace. Ma io ed Eric non ci eravamo mai preoccupati di questo. Comunque, quel giorno Eric doveva lavorare. Lei doveva stare tutto il giorno con me, in attesa che lui tornasse a casa. Ma nel corso della giornata divenne impaziente, faceva molti capricci. Mi chiedeva dove fosse il suo papà e perché non fosse ancora tornato a casa. Ad un certo punto ha iniziato a chiedere di andare a trovarlo. Ricordo ancora quando provava a dire "lavoro" ma non riusciva perché era troppo piccola, si mangiava ancora un pochino le parole...» I suoi occhi si iniziarono ad inumidire e aumentò la presa sulla mano di George, che non aveva mai lasciato. «Io ho provato a resistere un po', ma è sempre stato più forte di me. Quella bambina aveva e ha ancora tutto il mio cuore in mano... così ho deciso di portarla in ufficio da Eric. Non era troppo distante da casa e avremmo potuto fare una passeggiata. Così ci siamo incamminate, lei seduta sul passeggino. Ricordo che era particolarmente felice, continuava a ripetere «Papà! Papà!». Era emozionata di vedere il suo eroe. Eravamo quasi arrivate davanti all'ufficio, dovevamo solo attraversare la strada quando mi sono lasciata distrarre dalla vetrina di un negozio. Che cosa stupida, vero? Tutto quello che avrei dovuto fare sarebbe stato solo continuare a sorvegliare la mia bambina, invece di guardare uno stupido paio di stivali in saldo che nemmeno mi interessavano».

Mentre parlava, Isabelle abbassò la testa, sostenendola con le mani e appoggiando i gomiti sulle gambe. «Non mi ero accorta di non aver strinto bene le cinghie di sicurezza del passeggino. E quella piccola peste cercava sempre di togliersele. Voleva essere libera, era una piccola farfalla...»

La ragazza iniziò a piangere, singhiozzando rumorosamente. George si avvicinò e si mise in ginocchio di fronte a lei. Le prese il mento e lo sollevò, incrociando il suo sguardo.

«Bel, non devi continuare se non te la senti. Sappiamo quanto può essere difficile »disse con uno sguardo serio.

La ragazza scosse il capo mentre continuava a piangere. Voleva andare avanti, Sentiva il bisogno di farlo, anche se le faceva male.

Si asciugò le lacrime con un fazzolettino che Beth le porse e continuò a raccontare. George rimase in ginocchio, di fronte a lei, tenendole entrambe le mani. Voleva darle forza.

«Ho sentito il rumore dei freni che stridevano e poi un botto assordante. Non riuscirò mai a scordarlo. Da quando ho girato la testa e ho visto quella scena, ho dei ricordi un po' confusi. Credo di aver iniziato a correre mentre urlavo disperata... poi ricordo di essermi accucciata e averla presa tra le mie braccia... Ho visto Eric che si avvicinava velocemente ma poi è diventato tutto buio...»

Ricominciò a piangere, ma stavolta George si alzò e la avvolse in un abbraccio stretto. Poteva sentire il suo dolore. Un dolore che sembrava così simile al suo. Anche Beth si alzò e abbracciò i suoi due compagni di avventura. Insieme, formavano un quadro magnifico.

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«Avete fatto un ottimo lavoro, ragazzi. Siete stati tutti bravissimi. Ero sicura che sareste riusciti in questo compito» disse Laura, osservando i presenti. La maggior parte di loro aveva gli occhi arrossati dal pianto o si tamponava con dei fazzoletti. Isabelle era una di quelle, mentre era ancora abbracciata a George.

«Come sapete, questo è il nostro ultimo incontro prima di una lunga pausa estiva, quindi vorrei lasciarvi andare con un'altra piccola cosa da fare. Un compito a casa, se vogliamo. Immagino che la maggior parte di voi partirà quest'estate. Ecco, vi chiederei, indipendentemente dalla città o dal luogo che visiterete, di scegliere un posto speciale all'interno di ognuna delle vostre mete e di lasciarvi una piccola nota. E se non partite, scegliete un posto speciale qui a Londra! Nella nota vorrei che scriveste un pensiero sulla persona che avete perso. Può essere sotto forma di gioco, di filastrocca, di lettera, come preferite. Ma deve essere indirizzata a quella specifica persona, e dovrete lasciarla in quel posto speciale. Può essere una panchina, un monumento, qualsiasi cosa!» disse lei, ridendo. «E adesso vi lascio andare. Buona serata!»

Dopo un breve giro di saluti, Isabelle, Beth e George uscirono fuori dalla chiesa di St Andrew. Nonostante fosse sera, si sentiva una forte afa.

«Wow, che serata impegnativa» disse George, stiracchiandosi.

Le due ragazze annuirono, forse troppo stanche anche per parlare.

«Se vi proponessi una birretta? Che ne pensate?» continuò George, circondando le spalle di entrambe con le braccia.

«Dico che è un'ottima idea. Per una sera ho bisogno di alcool» rispose Isabelle. «Chiamo gli altri!» disse, iniziando a comporre il numero sulla piccola tastierina del telefono.

«Anche io ne avrei bisogno!» disse Beth.

«Al massimo puoi prendere un succo di frutta, sei ancora una bambina!» rispose George, facendole il solletico sotto le braccia. Lei rispose ridendo e dandogli una piccola spinta.

Si incamminarono così, con il cuore pesante e la testa leggera. Non sapevano ancora niente di cosa gli riservasse il futuro, ma una cosa era certa. Per quanto dolore avessero passato, sapevano di poter contare l'uno sull'altra.

Erano tre anime spezzate che cercavano di raccogliere i loro pezzi. E piano piano, insieme, ci stavano riuscendo.

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