XI
Le contrazioni erano iniziate quella notte, intorno alle tre. Isabelle si era svegliata a causa del dolore allucinante che sentiva alla parte bassa del ventre. Erano pulsazioni intermittenti, lancinanti, che le facevano mancare il respiro. Iniziò a inspirare profondamente e ripetutamente, come le avevano insegnato al corso preparto. Chiamò Eric a voce alta, tra un respiro e l'altro, e lui si tirò su di scatto, vigile. Negli ultimi giorni era costantemente in agitazione, dormiva poco e male e ad ogni piccola smorfia di fastidio o dolore che vedeva comparire sul volto della ragazza, si allarmava.
«Cosa c'è?»
«Eric, ci siamo! Dobbiamo andare in..»
«Ospedale! Subito!» Il ragazzo si alzò di scatto, si cambiò velocemente il pigiama indossando un paio di jeans e una maglia a maniche lunghe. Girò intorno al letto, avvicinandosi al lato di Isabelle, e la sostenne mentre lei cercava di alzarsi. La aiutò a vestirsi, passandole sopra la testa la grande vestaglia azzurra che le aveva prestato la madre.
«Eric, sei pallido. Ti senti bene?» gli disse, vedendolo bianco come un fantasma.
Lui annuì. Si accorse che stava sudando copiosamente, ma adesso non c'era posto per panico ed agitazione. Era arrivato il momento che aspettavano da nove mesi, il coronamento del suo sogno con la ragazza che amava più di ogni altra cosa al mondo.
Una volta che Isabelle fu pronta, il ragazzo prese la grande borsa nell'armadio, contenente tutto il necessario per la degenza in ospedale.
Uscito dall'appartamento, aiutò Isabelle ad entrare nell'ascensore. Una volta fuori dal palazzo, si sbracciò per fermare l'unico taxi che sembrava passare per miracolo di fronte casa loro. Aiutò la ragazza a sistemarsi sul sedile posteriore e diede indicazioni per l'ospedale più vicino.
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Il sudore le scendeva copiosamente lungo la fronte. Bagnava le ciocche di capelli che le contornavano il viso, sfuggendo dalla maldestra coda che Eric le aveva fatto qualche ora prima, mentre era in preda ai dolori delle contrazioni. Da circa quindici minuti stava spingendo, dopo che un'ostetrica si era avvicinata a lei e aveva convenuto che fosse abbastanza dilatata. Erano passate otto ore, otto lunghe ore di travaglio in cui aveva pianto, urlato, si era stretta ad Eric tentando di cercare conforto dal dolore indescrivibile che stava provando. Otto lunghe ore che finalmente erano arrivate a termine.
«Forza Isabelle, adesso spingi più che puoi!» le disse l'ostetrica, di fronte a lei.
Stringendo forte la mano di Eric, al suo fianco, si costrinse a spingere ancora di più, cacciando fuori un urlo straziante.
«Vedo la testa! Ancora una volta!»
Isabelle prese fiato e dette quella che le sembrò la spinta più forte data fino a quel momento. Ebbe come la sensazione di esserci squarciata. Vide il volto dell'ostetrica illuminarsi, prendendo con delicatezza tra le braccia sua figlia appena nata. La bambina piangeva a pieni polmoni. È un buon segno, pensò lei. L'ostetrica la avvolse in una coperta e si avvicinò alla neomamma e al neopapà. Isabelle sentiva il suo cuore gonfiarsi e scoppiare di gioia. Ce l'aveva fatta, aveva dato alla luce la sua bambina.
Prese in braccio per la prima volta sua figlia e alla ragazza sembrò che il mondo si fosse fermato. Si perse nei grandi occhi color nocciola della creatura che stava tra le sue braccia. Era la cosa più bella che avesse mai visto in vita sua. Sentiva accanto a sé Eric, che cercava di trattenere le lacrime, mentre accarezzava delicatamente i capelli neri della piccola. Isabelle si girò verso di lui lentamente, guardandolo negli occhi con una dolcezza infinita.
«Vuoi tenerla in braccio?»
Il ragazzo annuì. Prese la bambina dalla stretta di Isabelle e delicatamente, quasi come stesse maneggiando della porcellana, la strinse a sé. Sembrava perso anche lui nel suo sguardo, nel suo volto, nelle sue piccole manine che si agitavano, cercando un contatto. Eric avvicinò la sua mano per accarezzare la guancia della bambina e lei strinse il suo indice. «Wow, che forza!» disse lui ridendo. Isabelle pensò, guardando la sua nuova famiglia, che non poteva essere più felice di così. Le sembrava di non riuscire a contenere tutta la gioia che stava provando.
«Allora, come la chiamiamo?» chiese Eric.
I due avevano avuto un po' di discussioni sul nome. Eric voleva darle quello di sua madre, Margaret, ma ad Isabelle non piaceva molto.
«Non hai ancora cambiato idea su Stella, vero?» chiese lei, speranzosa.
Eric guardò prima la bambina, poi lei e poi di nuovo la bambina. «Fino a qualche minuto fa non sarei stato d'accordo ma... adesso che la vedo, ha proprio la faccia da Stella» disse ridendo.
«Senti cosa ho pensato. Che ne dici di... Stella Margaret Bane?» disse Isabelle, con un sorriso sul volto. Appena aveva preso in braccio la bambina, era stata assolutamente certa del nome, ma voleva che anche il padre di sua figlia fosse felice.
Il volto di Eric si illuminò. «Penso che sia perfetto» disse avvicinandosi alla testa di sua figlia e dandole un delicato bacio sulla fronte.
«Tesoro, svegliati».
Isabelle si girò nel letto, mugolando. Tirò ancora di più su le coperte, coprendo la testa.
«Isabelle, andiamo. Devi svegliarti, è quasi mezzogiorno».
Sammy prese le coperte e le tirò via.
«Ti prego, Sam... lasciami dormire ancora un po'» disse la ragazza, con una voce flebile.
«Non credo che sia una buona-»
Pam spalancò la porta della camera. «Forza forza! Il sole splende alto nel cielo!» urlò, entrando rumorosamente.
«Puoi fare piano per favore? Stavo cercando di farla alzare» le disse Sammy.
«Adesso non è il momento della tua solita dolcezza, sorella. In questi casi ci vogliono le maniere forti». Si rivolse ad Isabelle, ancora stesa nel letto con gli occhi semichiusi. «Andiamo, tesoro. Adesso basta piangersi addosso. Ci tiriamo su, ti fai un bel bagno perché, scusa se te lo dico, ma puzzi davvero» disse ridendo: «poi una bella colazione, anzi vedendo l'ora un bel pranzo, e dopo ci organizziamo la giornata. Non ho certo preso un permesso in radio per stare qui in questo appartamento buio ad autocommiserarci!»
Prese la ragazza per un braccio e la aiutò ad alzarsi, delicatamente. Isabelle gemette di dolore nel fare il movimento. Si tenne stretta la pancia, ancora indolenzita dalla sera prima. Le due sorelle dai capelli biondi si lanciarono un'occhiata nel vedere quel gesto. Erano ancora incazzate a morte con quello che erano arrivate a definire, giungendo ad un accordo unanime, un codardo senza palle.
Si diressero verso il bagno, dove Pam aiutò Isabelle a svestirsi e a struccarsi. Aprì il getto della doccia e la aiutò ad entrare.
«Riesci a fare da sola?»
Isabelle annuì, ma con poca convinzione.
«Forse è meglio se ti aiuto a lavare almeno i capelli. Che ne dici?» Pam la guardò con un'espressione dolce, ma preoccupata. Vedere così la sua amica la distruggeva.
«Sì, ti prego». Non riuscì a dire altro.
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Dopo circa quaranta minuti, erano tutte sedute intorno al tavolo. Sammy aveva preparato un piatto di zuppa di verdure che Isabelle toccò a malapena. Stava con lo sguardo fisso davanti a sé, perso nel vuoto.
«Allora, Bel. Puoi raccontarci per bene cosa è successo?» le chiese Sammy posando delicatamente una mano sulla sua.
Isabelle alzò lo sguardo verso di loro, osservando prima l'una e poi l'altra negli occhi. Annuì lentamente.
«Ieri sera... ieri sera dopo l'incontro, George mi ha chiesto di andare a bere qualcosa insieme, per parlare un po'. Era curioso sul motivo per cui mi trovassi lì e... anche io volevo scoprire di più su di lui. Abbiamo passato all'incirca un ora insieme e poi mi ha riaccompagnato qua. Tutto bene fino a quando...» si fermò, mentre le lacrime iniziavano a farsi strada. Era ancora sconvolta.
«Izzie, non preoccuparti. Puoi dirci tutto, lo sai» disse Pam.
«O-ok... Comunque, sono rientrata. Eric era sul divano e ha iniziato a parlare di quanto mi volesse ancora, mi ha baciato e ... io in quel bacio non ho sentito niente. Non ho provato più niente. Ed è lì che ho preso coraggio e gli ho detto la verità. Dovevo farlo, non potevo più fingere..» disse sospirando. «Ha iniziato ad inveirmi contro, dicendo che c'era qualcun altro nella mia vita che mi stava abbindolando perché secondo lui sono fragile».
Sammy sbuffò, contrariata: «Con tutto quello che hai passato... come fa a dire una cosa del genere? Sei completamente lontana dalla definizione di fragile». Pam annuì all'affermazione della sorella.
Isabelle continuò: «Mi ha spinto prima a terra, poi mi ha tirato un calcio in pancia...» si strinse le braccia intorno alla vita, come a volersi proteggere, come a voler evitare di risentire quell'orribile sensazione. «Mi ha preso per i capelli, mi ha dato due schiaffi... ho pensato che avrebbe continuato fino a farmi perdere i sensi, ero davvero spaventata. Aveva uno sguardo negli occhi... era demoniaco. Sembrava che qualcuno si fosse impossessato di lui. Non riuscivo a riconoscerlo...» disse, scoppiando in un singhiozzo.
«Oh piccola mia...» sussurrò Sammy, alzandosi e girando intorno al tavolo per avvicinarsi a lei. La abbracciò, mentre lei continuava a piangere.
«Se me lo trovo tra le mani, giuro che lo ammazzo. Prima, gli taglio i gioielli di famiglia e poi glieli faccio ingoiare. E poi, lo faccio fuori. Oh, sì!» disse Pam, con uno sguardo arrabbiato.
«Calmati, Pam. Dobbiamo pensare razionalmente. Non sarebbe il caso di ... denunciarlo alle autorità? È stata un'aggressione in piena regola e-»
«No!» urlò Isabelle, tra i singhiozzi. «Vi prego ragazze. Non fate niente, peggiorereste le cose... Era sconvolto e ubriaco, ma non ha mai alzato un dito su di me, vi prego... sono sicura che non lo farà più».
Le due sorelle si scambiarono uno sguardo dubbioso.
«Vi prego ragazze...» Isabelle aveva smesso di piangere, ma il suo tono di voce era flebile e debole.
«Va bene, Bel» disse Sammy.
«Adesso basta piangersi addosso, dobbiamo uscire! Stare chiusa in questo tugurio non ti farà stare meglio. Preparatevi, forza!» Pam si era già avviata verso il salotto per indossare il cappotto.
Riluttante, anche Isabelle si alzò. Non aveva nessuna voglia di andare fuori ma non voleva rimanere sola con i suoi pensieri, quel giorno. Inoltre, non voleva soffermarsi troppo a rimuginare sulla visione che aveva nuovamente avuto la sera prima. La mise, come al solito, in uno dei cassetti più profondi della sua mente.
Indossò il giaccone pesante e uscì, scortata dai suoi due angeli custodi.
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«Un caffè nero, amaro grazie.»
«Per me un thè al limone» disse Pam guardando il cameriere e sbattendo le ciglia.
«Io invece opto per una cioccolata calda!» disse Sammy sorridendogli.
Mentre il ragazzo si allontanava, Pam fece un lungo fischio. «Stai zitta!» esclamò sua sorella con una gomitata nel fianco.
«Che c'è? Non posso fare apprezzamenti ai ragazzi carini quando li vedo?»
«In teoria saresti fidanzata, quindi sarebbe meglio di no. Lee sarebbe felice di questa cosa?»
«Samantha Davis, sei una delle persone più noiose che conosco. Ti comunico che a Lee certe cose non danno fastidio, anzi, spesso quando siamo in giro siamo entrambi a notare un bel ragazzo, oppure una bella ragazza. Non succede niente al rapporto, sai?» rispose Pam, facendo la linguaccia alla sorella maggiore.
Isabelle le osservò divertita. Era sempre stato così, tra loro. Un continuo battibecco, da che aveva memoria. Ma le invidiava. Era figlia unica, ed era dovuta crescere con quell'incubo di sua madre, all'ombra di un padre totalmente assente e disinteressato di lei e di qualsiasi cosa la riguardasse.
Era felice di averle ascoltate. Adesso, seduta in un bar del centro, si sentiva leggermente meglio. Non le era ancora passata l'incredulità per quanto le era capitato la sera prima, ma adesso riusciva a pensare in maniera leggermente più lucida.
Perché Eric si era comportato in quel modo? Non aveva mai alzato un dito su di lei. Lo considerava da sempre uno dei ragazzi più dolci che avesse mai conosciuto, ed era anche questo che l'aveva fatta innamorare di lui. Un magone le si formò in gola al pensiero. Adesso basta, goditi la giornata con le tue amiche.
«Izzie, mi ha mandato un messaggino Lee. Stamani quando ha saputo che non stavi bene si è preoccupato, vuole sapere se più tardi può passare a casa per vedere come stai» disse Pam, sorseggiando il suo thè al limone che il cameriere aveva portato nel frattempo.
«Mmm, si, ok...» disse lei, incerta. Non aveva ancora quel grado di confidenza tale con il ragazzo della sua amica, ma non se la sentiva di rifiutare. Oggi lei l'aveva aiutata, e le era grata. Era il minimo che potesse fare.
«Ehm, ci sarebbe... un'altra cosa». La ragazza si grattò la testa, pensierosa: «Sarebbe una cosa tanto grave se stamani, quando stavo parlando di te e di ciò che era successo, ci fosse stato anche George presente, e avesse sentito tutto...?»
«Stai scherzando, Pamela. Dimmi che scherzi...» disse Sammy, guardandola con occhi infuocati.
«Ehi, non prendertela con me! Era lì quando mi hai chiamato e ho cercato di abbassare il più possibile la voce ma lui mi ha sentito lo stesso-»
«Oh sì, certo, me lo posso immaginare! Avrai di sicuro urlato come al banco del pesce!»
«Ascolta, rompiscatole...»
«Ragazze, fatela finita, ci stanno guardando tutti. Pam, stai tranquilla» disse Isabelle. «Mi dispiace che abbia sentito, più che altro perché si sarà preoccupato... sembra molto dolce...» disse con la voce rassegnata.
Ecco fatto, lo conosco da un giorno e già ho fatto una figura di merda con i miei mille problemi. Perfetto.
Le due sorelle si scambiarono un'occhiata preoccupata, poi Pam continuò a parlare: «Lee vuole sapere se più tardi può passare insieme a lui. Ma solo se te la senti, tesoro. Non ti obbliga nessuno».
Isabelle annuì. Non sapeva ancora bene il motivo, ma il pensiero di poter rivedere il ragazzo che le aveva fatto sentire ciò che non provava da molto tempo, le procurava uno strano piacere allo stomaco. Nonostante tutto, voleva incontrarlo.
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Contrariamente alle sue aspettative, il rientro ai Tiri Vispi Weasley non era stato così traumatico. Ovvio, si era sentito un po' spaesato appena varcate le grandi porte di ingresso. Vedere tutto ciò che in così pochi anni era riuscito a costruire insieme al fratello e grazie al contributo di Harry lo rendeva pieno di gioia, ma anche di amarezza. Il negozio stava andando alla grande e purtroppo Fred non avrebbe potuto vederlo, non avrebbe potuto gioire delle soddisfazioni che l'attività portava.
«George, noi torniamo alla Tana, vieni con noi?» gli chiese Ron, di fronte al camino, posto nella sala dell'appartamento sopra al negozio. La giornata era stata molto proficua e si ritenevano tutti e tre soddisfatti.
«No, Ron, devo passare da Lee, devo... ritirare una cosa». Non voleva fare riferimento ad Isabelle, se i suoi fratelli avessero saputo della ragazza, lo avrebbero tempestato di domande.
«Ciao Georgie, ci vediamo dopo». Percy lo salutò con un gesto della mano e insieme al fratello più piccolo scomparì nella Metropolvere, dopo aver pronunciato la loro destinazione.
Si guardò intorno, osservando le pareti della piccola casa in cui aveva abitato per qualche tempo insieme a Fred. Non c'era più traccia dei danni che aveva procurato quella sera di qualche giorno prima. Suo padre si era fatto carico di venire a sistemare il tutto, dopo che la mattina seguente Ron e Percy, uscendo dal camino, si erano ritrovati di fronte ad uno spettacolo orrendo. Piatti, bicchieri e sedie rotti, tracce di esplosioni sui muri e una miriade di vetri sparsi per terra.
Si avvicinò di nuovo alla camera che era appartenuta a suo fratello. Entrando, osservò il grande letto posto al centro della stanza, le tende rosse alle finestre e la moltitudine di foto e striscioni attaccate alle pareti. La sciarpa verde e bianca della squadra irlandese, indossata alla Coppa del Mondo di Quidditch di qualche anno prima, la sciarpa rossa e oro di Grifondoro, un poster in movimento di Viktor Krum firmato.
Più avanti, si ritrovò a passare le dita sulle foto appese, anch'esse animate: lui e Fred al loro undicesimo compleanno mentre spegnevano le candeline, loro e Lee di fronte al campo da Quidditch, mentre indossavano i colori della squadra. Infine, Fred e Angelina al ballo del Ceppo. Eleganti, sorridenti, felici.
Sentì un nodo in gola. Era troppo, aveva raggiunto il suo limite. Prima di distruggere di nuovo tutto, sarebbe dovuto uscire da lì.
Si smaterializzò in salotto, con destinazione l'appartamento di Lee. Aveva bisogno di notizie di Isabelle, doveva sapere come stava.
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Dopo essere arrivato all'appartamento del suo amico, lui gli aveva consegnato un piccolo aggeggio blu scuro, simile a quello che aveva Isabelle. Nella parte superiore dell'oggetto campeggiava la scritta "Nokia", a piccoli caratteri bianchi.
«E questo che sarebbe?»
«Quello che mi hai chiesto. Un cellulare. Ti ho impostato già la suoneria e salvato qualche numero, adesso però sta a te imparare ad usarlo!» disse Lee ridendo.
George sospirò. Non ce l'avrebbe mai fatta. La tecnologia babbana non faceva per lui.
«Adesso dobbiamo andare, le ragazze ci stanno aspettando a casa loro. Pronto?»
George annuì serio.
Si smaterializzarono di fronte alla porta dell'appartamento. Ricordi della sera prima ritornarono, come flash di luce, nella sua memoria. Isabelle che sorrideva, le sue labbra morbide sulla sua pelle.
Lee bussò e attese. Dopo pochi secondi, Pam aprì.
«Siete arrivati! Venite, accomodatevi».
George osservò l'ambiente intorno a lui. Lo spazio era piccolo, ma dotato di tutto l'essenziale. L'arredamento era spartano ma tutto sommato piacevole alla vista.
«Isabelle è in camera, la vado a chiamare» disse Pam. Nel frattempo, Lee salutò con due baci sulle guance Sammy, che si trovava seduta sul divano intenta a leggere una rivista.
«Piacere, non ci siamo presentati. Io sono Samantha, ma tutti mi chiamano Sammy» gli disse lei, porgendogli la mano. George la strinse con forza. «É davvero un piacere, Sammy. Io sono George.»
«Oh sì, lo so chi sei» rispose lei con sguardo malizioso. George arrossì.
«Ciao, ragazzi...» Entrambi si girarono verso la direzione da cui proveniva la voce. Isabelle li stava osservando, di fronte alla porta. Aveva indosso una tuta semplice. Aveva cercato di nascondere il taglio sul labbro con un po' di trucco, ma con pochi risultati.
George notò subito il suo volto pallido e la ferita sulla bocca. Si avvicinò a lei delicatamente.
«Cos'è successo, Bel? Ieri sera quando me ne sono andato non c'era nessuno...»
D'istinto, le posò una mano sul volto. Lei fu sorpresa da quel tocco, ma non si scansò. La sua mano era calda contro la sua guancia fredda. Delineò con il pollice il contorno del suo labbro inferiore, soffermandosi infine lievemente sulla ferita e facendola sussultare al contatto. Si guardarono negli occhi per quello che parve un'eternità.
«Qualcuno c'era, invece» disse Pam, ricevendo sguardi di disapprovazione dalla sorella. «Che c'è? È un segreto di stato? Penso che sia giusto che lo sappia anche lui, no? Voglio dire, guardali» continuò lei.
Isabelle sospirò, prima di parlare: «A farmi questo è stato il ragazzo con cui mi hai visto in discoteca quella sera. Il suo nome è Eric ed era il mio fidanzato. Ma adesso non lo è più». Alzò la maglia della felpa. «E non è tutto. Mi ha fatto anche questo». Ormai non voleva più nascondersi. Era stanca.
Il ragazzo osservò il grande livido sulla sua pelle olivastra, e sentì montare una rabbia senza precedenti. L'unica altra volta in cui si era sentito così era stato con Malfoy, quando con Harry gliele avevano date di santa ragione, ma le avevano anche prese, ed erano stati cacciati dalla squadra di Quidditch insieme a Fred. Ma a pensarci meglio, questo non era nemmeno paragonabile.
Si fece scuro in volto. Lee si accorse subito del cambio repentino di umore del suo amico. Nonostante fosse la persona più dolce e gentile del mondo, poteva diventare molto pericoloso se venivano coinvolte le persone che aveva a cuore.
«George, non fare cazzate. Calmati».
Gli stava uscendo il fumo dalle orecchie. «Dimmi dove trovo questo pezzo di merda» disse rivolgendosi ad Isabelle, che sgranò gli occhi.
«L'indirizzo è Downhill Street, civico 45.»
«PAM! Ma sei impazzita?» Sammy la guardò sconvolta.
George si girò e a grandi falcate andò verso la porta. Doveva sistemare quel figlio di puttana a tutti i costi. Non poteva passarla liscia. Aveva un rispetto per le donne ben radicato, e nonostante non si fosse comportato proprio bene con Angelina ultimamente, non avrebbe mai alzato un solo dito su di lei. O su Isabelle. O su qualunque altra donna.
Lee lo raggiunse, poco prima che potesse uscire dall'appartamento. Gli strinse il braccio, facendolo voltare. «George, falla finita. Questo non serve, né a te, né a lei. Guardala».
Si girò, e vide che Isabelle era sbiancata. Stava appoggiata allo stipite della porta, con la bocca semi aperta e lo sguardo vuoto.
Lui parve pensarci un po' su. Poi, decise di evitare. Avrebbe trovato un altro momento per farla pagare a quel verme. Adesso, Isabelle aveva bisogno di tutti loro. E lui si rese conto di aver bisogno di lei.
Si avvicinò e con impeto la strinse in un abbraccio. Lei avvolse le braccia intorno alla sua vita e appoggiò la testa sul suo petto. Rimasero così, in silenzio, a godere del calore dei loro corpi aderenti.
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