IV

Disclaimer: menzione di morte


Fu l'odore di pancake a svegliarla, il mattino successivo. Si stiracchiò, ancora intontita dall'alcool della sera prima. Spostando le coperte, si alzò e si diresse verso il bagno che condivideva con le sue due coinquiline, Pam e Sammy. Le due ragazze l'aveva accolta nel loro appartamento, quando non sapeva più dove sbattere la testa. Fortunatamente avevano una stanza libera, che utilizzavano come ripostiglio, e non le avevano mai chiesto un affitto. Conoscevano bene la sua situazione finanziaria ed erano state semplicemente degli angeli custodi con lei. Non riusciva mai a ringraziarle abbastanza. 

Si conoscevano fin da piccole perché erano vicine di casa, ed erano rimaste in contatto anche quando, dopo la separazione dei genitori di Isabelle all'età di dodici anni, lei era stata costretta a trasferirsi con la madre. Un periodo da incubo, fino a quando a diciannove anni non era andata a vivere con Eric.

Uscì dal bagno e si diresse verso la cucina, dove Sammy stava togliendo dei pancake dalla pentola, per poi riporli su un piatto al centro del tavolo apparecchiato.

«Buongiorno, Sam.»

«Buongiorno dormigliona! Ti sei svegliata giusto in tempo per il fantastico brunch che ho preparato!» disse Sammy, sciogliendo il nodo del grembiule che aveva in vita e togliendolo, facendolo passare sopra la testa. Lo appoggiò sul ripiano della cucina e si accomodò al tavolo.

Iniziò a sistemare alcuni pancake nel suo piatto, prendendo la bottiglia di sciroppo d'acero e iniziando a versarlo sopra. «Che fai, non ti siedi?» le chiese guardandola con i suoi occhioni azzurri.

«Sai come sono al mattino... prima di riuscire a mangiare qualcosa devono passare almeno un paio di ore...» disse, tentando di giustificarsi. In realtà sentiva ancora lo stomaco in subbuglio, e il solo pensiero di mangiare qualcosa le faceva venire il voltastomaco. 

Accidenti a me, la prossima volta devo bere meno.

«Mmm... ok!» Sammy sembrava non essersi accorta di niente, e iniziò ad attaccare il piatto davanti a lei. Mentre lei mangiava, Isabelle si diresse alla macchinetta del caffè e inizio a prepararsi un espresso. Dopo aver assaggiato la miscela italiana, non era mai più tornata a quell'acqua sporca che gli inglesi proponevano. Prese una tazza dal mobile e dopo averlo versato, si sedette dall'altro lato rispetto alla sua amica. Sorseggiò il caffè in silenzio, fissando un punto sul muro davanti a lei.

«Allora... come stai? Ancora sconvolta da ieri sera?»

«Mi sento meglio, grazie Sam. E scusami ancora... non volevo rovinarti la serata...»

«Ma figurati! Quel tizio non baciava neanche tanto bene, mi hai salvato da una notte probabilmente molto poco soddisfacente» disse Sammy ridendo. «A Pam è andata sicuramente meglio, voglio dire, lui lo hai visto bene?» continuò, facendo l'occhiolino. Isabelle sorrise portandosi la tazza alla bocca.

«Più che altro, sono preoccupata per te, Bel. Sembravi davvero sconvolta di aver visto Eric» continuò Sammy dopo qualche secondo di silenzio.

«Mi ha sconvolto quando ha cercato di parlare di... quello» rispose lei, bevendo un altro sorso di caffè. 

«Bel, è normale essere... tristi. Addolorati, sconvolti... quello che hai passato non lo augurerei nemmeno al mio peggior nemico».

 Sammy la guardò con occhi comprensivi, e lei si sciolse dentro. Cercò però di mantenere una parvenza di tranquillità, e non rispose. Si limitò ad annuire, tentando di nascondere l'ombra scura che stava sentendo calare sul suo volto. Sammy però la conosceva troppo bene e se ne accorse.

«Bel...»

«Si sta facendo tardi... dovresti andare. Altrimenti Rob si arrabbierà» rispose, provando a cambiare discorso. Non pensava di poter reggere quel tipo di conversazione.

«Hai ragione. Tu mi raggiungi per il turno serale, giusto?»

Sammy lavorava da circa quattro anni in un bar a Soho. Quando lei si era presentata a casa loro, senza lavoro e senza un tetto sopra la testa, la ragazza aveva subito chiesto al suo titolare, Rob, un uomo sulla cinquantina, se avesse bisogno di un po' di aiuto extra nelle ore serali e lui aveva risposto di sì. Quindi oltre a non averla lasciata sotto un ponte, doveva un altro enorme favore alla sua amica del cuore per averle trovato un lavoro, anche se part-time e che Isabelle sentiva come un ripiego.

«No, stasera ho chiesto a Rob di poter prendere la serata libera. Domani mattina presto devo andare all'incontro con la consulente di coppia, sai... con Eric» disse Isabelle.

Sammy sembro sorpresa. «Ah, non me lo avevi detto, non pensavo che tu avessi accettato alla fine...»

«Si, sono già due sedute, domani sarebbe la terza e... sinceramente non so se sta portando qualche risultato visto ieri sera ma... Eric continua a chiedermi di andare e sai che mi è difficile dire di no a lui... soprattutto per questo. Ha sofferto tanto anche lui e ne ha bisogno... anche se a volte mi sembra di essere l'unica a stare male.»

«Questo ti fa molto onore Bel» le rispose Sammy, guardandola con occhi orgogliosi. Si infilò poi il giaccone pesante, con sotto già pronta la divisa del lavoro, e si avvicinò per darle un bacio sulla testa. «Adesso scappo, ci vediamo stasera allora! Ciao!» disse, aprendo la porta e sbattendola alle sue spalle. Così Isabelle rimase sola, con i suoi pensieri, e con il piatto di pancake di fronte a lei.

Dopo essere andata in camera sua a cambiarsi e cercare di rendersi quantomeno decente, Isabelle si sentiva molto meglio e decise di dare una possibilità ai buonissimi pancake che la aspettavano in cucina. Si sistemò al suo solito posto e iniziò a versare un po' di sciroppo d'acero su un paio di fette. Mentre masticava in silenzio pensando a come organizzare la sua giornata quasi vuota, sentì un rumore provenire dalla sala. Voltò la testa verso la direzione del rumore e cercò di aprire le orecchie per capire cosa fosse. Iniziò a pensare di esserselo immaginato, quando lo sentì di nuovo. A Isabelle sembrava il rumore di qualcosa che veniva lanciato a terra e... rimbalzava, forse? Incuriosita, si alzò dalla sedia e a passi lenti si diresse verso la fonte dello strano rumore. Quando entrò nella stanza, il respiro le si mozzò in gola. Sbatté le palpebre un paio di volte e cercò di darsi un paio di pizzicotti per assicurarsi di non star sognando. Perché di fronte a lei, proprio accanto al divano si trovava seduta una bambina piccola, con la carnagione olivastra e due lunghe trecce di capelli neri che le scendevano fino alle spalle. Indossava un vestitino a balze rosa e delle scarpine bianche, con calzini abbinati, dello stesso colore del vestitino. La bambina stava facendo rimbalzare una piccola pallina rosa, lanciandola di fronte a sé e riprendendola con le sue piccole manine paffute, accompagnando il tutto con una risata cristallina. Isabelle iniziò ad indietreggiare, spaventata e sconvolta, con gli occhi spalancati e le pupille dilatatissime.

Non è possibile, sto sognando. Questo è un sogno, e io adesso mi devo svegliare. Perché questo non è reale.

Perché la bambina che stava osservando era sua figlia.

Isabelle sentiva ogni centimetro del suo corpo tremare. Il respiro iniziò a diventare sempre più corto, fino a che non iniziò a iperventilare. Indietreggiando ancora si ritrovò con le spalle al muro e lasciò cadere la tazza di caffè che fino a quel momento non si era accorta di aver portato con sé. Il rumore del vetro che si infrangeva per terra fece fermare la bambina dal suo gioco con la pallina e le fece alzare lo sguardo verso di lei. Il cuore di Isabelle si fermò per un secondo quando i suoi occhi incontrarono quelli color nocciola della bambina. Occhi profondi come il mare ma dolci come il miele. La bambina fece un grande sorriso e disse semplicemente:  «Mamma!»

E per Isabelle fu improvvisamente tutto nero.

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Fu svegliata dal suono insistente del campanello. Aprì piano gli occhi e si ritrovò ad osservare il soffitto.

Doveva essere svenuta e aver sbattuto per terra, perchè sentiva un grande dolore alla parte posteriore della testa. Si alzò lentamente, con la stanza che le girava intorno vorticosamente. Guardò verso il divano ma la bambina era sparita. Devo essermelo immaginato, per forza.

Il campanello smise di suonare e la persona fuori dall'appartamento iniziò a battere i pugni contro la porta.

«Isabelle, ci sei?». Ancora colpi. «Isabelle!»

Mettendosi di lato, si fece forza sulle braccia e si alzò, un po' traballante. A passi incerti iniziò ad avvicinarsi alla porta.

«Isabelle, vuoi aprire? Tanto lo so che ci sei!»

Con le mani che le tremavano ancora, aprì la porta e si ritrovò di fronte Pam. Aveva ancora addosso i vestiti della sera prima. I suoi capelli erano tutti scarruffati e aveva il trucco sbavato sugli occhi e alla bocca.

«Quanto ci hai messo a venire ad aprire? Cavolo, avrò suonato per dieci minuti! Mi sono scordata le chiavi ieri sera, quindi non sapevo come fare ad entrare ma poi ho pensato che tanto a lavoro andavi più tardi e che probabilmente non stavi facendo niente quindi...»

Mentre la ragazza continuava il suo monologo, Isabelle iniziò a massaggiarsi le tempie con le dita. Dio, la testa le stava letteralmente scoppiando. Ci mancava solo Pam con la sua parlantina a complicarle la giornata.

«Mi stai ascoltando?» Isabelle si girò verso la sua amica bionda e si accorse che la stava guardando con gli occhi spalancati ed un'espressione di fastidio sul volto.

«Certo, Pam». Non è vero, bugiarda, pensò tra sé e sé.

La sua amica sembrò soddisfatta della risposta e continuò il suo discorso «Beh, okay. Insomma, ti stavo dicendo che sono stata tutta la notte a casa di Lee e oh santo cielo non puoi capire che nottata abbiamo passato, cioè voglio dire lui è veramente incredibile e ha un appartamento così carino e poi...»

Isabelle smise nuovamente di ascoltarla. Stava cercando di dare una spiegazione plausibile a ciò che le era appena accaduto. Come era possibile che avesse visto ciò che aveva visto? Era impossibile, perché...

«Oh, non puoi capire come ci sa fare a letto! È davvero incredibile! Non avevo mai provato qualcosa del genere, nemmeno quando stavo con Oliver, cioè sembra davvero qualcosa di magico!» Isabelle fu scossa dai suoi pensieri. Oh mio dio, non lo ha detto davvero, pensò, maledicendo il momento in cui aveva deciso di aprire. Forse sarebbe stato meglio continuare a fingersi svenuta e aspettare che Pam chiamasse i pompieri per sfondare la porta. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quella tortura.

Isabelle le fece un sorriso forzato e cercò di dileguarsi nella sua stanza. «Pam mi fa davvero molto piacere che tu e quel ragazzo abbiate passato una bella serata, ma ora davvero devo andare a prepararmi perché vedi, ho un impegno fuori e io-»

«Si certo, so bene che non è vero quindi risparmiami le scuse. Ultimamente se non si parla di cose tue, non si può avere la tua attenzione. Non preoccuparti, ho anche io di meglio da fare, infatti ora mi do una sistemata e poi esco di nuovo con Lee. Perché ha un nome, sai?» disse Pam, con lo sguardo ferito e con un tono acido.

Mentre Isabelle cercava le parole giuste da dire, Pam se ne andò verso la sua camera pestando i piedi e sbattendosi la porta alle spalle.

Fantastico, ci mancava solo di farla incazzare.

Decise di andare a farsi una passeggiata per schiarirsi le idee. Si mise la tuta che usava di solito per fare jogging e si diresse a passi veloci verso Hyde Park, sperando di poter staccare la mente dalla insolita esperienza che aveva vissuto. Dopo averci pensato per un po', piano piano il pensiero iniziò a dissolversi, e ad Isabelle sembrò soltanto di averlo sognato.

Dopo una doccia rilassante, si sentiva come nuova. Non aveva voglia di cenare e si fece semplicemente un thé. Si mise sul divano e si addormentò guardando un film. La mattina dopo, si svegliò ancora lì, nel salotto, con una coperta addosso che doveva averle messo Sammy una volta rientrata da lavoro.

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«Lo vede, Dottoressa, non riesce nemmeno a guardarmi mentre le parlo!»

Isabelle teneva lo sguardo basso, fisso sulle mani che stava contorcendo. Si trovava sul divanetto dello studio della Dottoressa Fain, e accanto a lei era seduto Eric.

«Isabelle, cosa pensi di quello che ha appena detto Eric?»  La Dottoressa, seduta su una poltrona, si rivolse direttamente a lei. Isabelle alzò lo sguardo e lo incrociò con quello della donna.

«Sinceramente, non stavo ascoltando.»

«Lo vede?» sbottò Eric, rosso in viso dalla collera. I suoi capelli neri erano un po' più lunghi del solito, e si stavano iniziando ad arricciare alla base del collo. «È sempre così! Impossibile comunicare con lei. Si chiude in sé stessa e io rimango qua, come un coglione, ad affrontare tutto da solo.»

«Eric, adesso cerca di calmarti. Perché non ripeti ad Isabelle cosa stavi dicendo?» 

Lo sguardo della donna si spostò dal ragazzo verso di lei, in attesa. La dottoressa Fain le piaceva, era una donna di mezza età, alta, con una corporatura massiccia, con lunghi capelli rossi sempre legati in uno chignon basso, e grandi occhiali dalla montatura marrone che nascondevano un paio di occhi azzurri. Per quanto odiasse quelle sedute, era piacevole potersi confrontare con lei.

«Ok» riprese Eric, sospirando. «Isabelle, stavo dicendo che mi è capitato di riguardare delle vecchie foto di noi insieme» disse, mettendo enfasi sul noi. «E ho pensato molto e... mi manchi. La casa non è più la stessa da quando te ne sei andata. Non è più la stessa da quando non siamo più una... famiglia».

Isabelle si irrigidì a quella parola. Famiglia. Che strano sentirla pronunciare. Non erano più una famiglia da diversi mesi, da quando la vita e il destino si erano portati via l'unica cosa che per lei aveva avuto davvero un significato, un senso.

Eric continuò: «Anche se lei non c'è più... possiamo affrontare tutto insieme. Possiamo superare anche questa, rimanendo uniti e perché no... magari il nostro amore potrebbe darci un altro frutto meraviglioso. Potremmo essere di nuovo felici».

Isabelle, che aveva mantenuto lo sguardo fisso davanti a sé, a quelle parole girò di scatto la testa verso Eric e lo fissò dritto negli occhi. Si sentiva andare a fuoco dentro, e prima che potesse pensarci due volte, la sua mano partì, lasciando un segno rosso sulla guancia di Eric, che rimase a bocca aperta.

«Tu... come puoi anche solo dire una cosa del genere? Come puoi anche solo pensarci? Un altro frutto meraviglioso?» Si sentiva ribollire il sangue nelle vene. «È passato solo un anno dalla morte di tua figlia e tu stai già pensando a concepirne un altro?»

Mentre parlava, si rese conto che le lacrime avevano iniziato a scorrerle lungo le guance. «Io non ci posso credere, Eric. Sono senza parole. Ti sei mai chiesto perché me ne sono andata? Ecco la tua risposta. Sono scappata da te perché ti comporti come se lei non fosse mai esistita. Ora si può passare alla fase successiva per te? Vuoi fare un altro figlio per scordarti di ciò che non hai più?». Si asciugò le lacrime con la manica della felpa. «Lei è morta, Eric, morta. E non passa secondo in cui non pensi a lei o non mi senta morire dentro. Ogni secondo, ogni respiro che faccio. Ogni particella di ossigeno che sento entrare in me la trovo sprecata, pensando che lei non c'è più, non è più qui con me, ad abbracciarmi, ad accarezzarmi il viso con le sue manine paffute, a chiamarmi mamma... A volte mi sembra ancora di sentirla vicino a me, e mi sembra quasi di vederla...» 

Scoppiò in un singhiozzo strozzato. Non poteva più continuare. Le sue ferite si stavano riaprendo una dopo l'altra.

Si alzò di scatto. Doveva andarsene da lì. Eric, che era rimasto a fissarla senza parole, si girò verso la dottoressa.

«Isabelle, cerca di calmarti. Siediti, e cerchiamo di parlare di ciò che è successo» le disse la dottoressa Fain, che le stava rivolgendo uno sguardo preoccupato. Isabelle rimase ferma per un secondo ad osservarla, ed Eric decise di muoversi dallo stato di immobilità in cui sembrava essere entrato. 

«Credi che io la abbia già dimenticata? Credi che io stia bene?» disse con la voce spezzata e i suoi occhi marroni lucidi. «Ogni giorno entro nella sua cameretta e guardo i suoi giocattoli, le foto che abbiamo appeso al muro, prendo i suoi vestitini dall'armadio e li annuso nella speranza che il suo odore non sia andato via. Soffro ogni giorno Isabelle. Ero e sono il suo papà, e soffro immensamente ogni giorno per ciò che ci è capitato, per ciò che le è capitato. Ma questo non significa che mi sia dimenticato di te. Questo non significa che io voglia scordarmi di lei, significa solo che vorrei andare avanti, onorando la sua memoria in qualche modo. Credo che non ci sia modo migliore per ricordare chi non è più... con noi». Quando lui finì di parlare, entrambi avevano le lacrime che scendevano senza sosta. Anche la dottoressa prese un fazzoletto e iniziò a tamponarsi gli occhi. «Lei non c'è più... ma io sono sempre qua, Bel» concluse Eric.

Per Isabelle fu troppo. Non poteva sostenere un secondo di più quella tensione. Dopo uno strozzato "arrivederci" alla Dottoressa, prese il cappotto, uscì dalla stanza, dal palazzo, e una volta in strada iniziò a correre senza guardarsi indietro, con lacrime che le solcavano le guance e la bocca. Le poteva assaporare, amare come il dolore che sentiva in fondo al petto.

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