II
George comparve in una strada particolarmente trafficata di Londra. Si era smaterializzato su un lato del marciapiede che contornava la lunga strada di fronte a lui. Poteva infatti vedere la carrellata di taxi, pullman, macchine e ciclisti, che cercavano invano di superare un ingorgo stradale.
Non riusciva davvero a contemplare il modo di vivere dei babbani, sempre affannati per arrivare in orario al lavoro, sempre bloccati nel traffico. Per lui, per i suoi familiari e i suoi simili tutto sembrava così semplice. Bastava un tocco della propria bacchetta e potevano ottenere tutto in pochi secondi. Si sentiva molto fortunato, e per niente invidioso di quello che invece toccava ogni giorno a loro.
Si voltò verso la costruzione in mattoni rossi alla sua sinistra. Si diresse verso il grande portone di legno e, premette il campanello, che non aveva il nome impresso, ma che ricordava bene essere quello giusto. Attese qualche secondo, e non ricevendo alcuna risposta premette di nuovo, questa volta più a lungo. Si stava iniziando a spazientire. Quando stava per usare la sua bacchetta per aprire il portone, sentì il tipico gracchiare dell'interfono: «Chi è?»
Una voce assonnata arrivò dall'altro capo. Roteando gli occhi al cielo, George disse un semplice «Io», poi aspettò. Immediatamente sentì lo scatto del portone. Spinse l'anta sinistra ed entrò nel grande atrio con pavimento di marmo del palazzo. Fece le tre rampe di scale che lo separavano dal raggiungere l'appartamento che cercava, e mentre metteva il piede sull'ultimo scalino di fronte alla porta, questa si aprì.
«Sentiamo, quale sarebbe la tua scusa per piombare qui a quest'ora? Merlino, sono le 5 del mattino George!»
«Buongiorno anche a te, Lee».
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Si era accomodato su uno degli sgabelli di legno della cucina, con le braccia incrociate appoggiate al ripiano della penisola. Guardava di fronte a sé la tazza di thè, ormai fredda, che il suo amico gli aveva gentilmente offerto.
«Puoi raccontarmi cosa succede? Sei qui da mezz'ora e avrai detto sì e no quattro parole». Lee lo stava fissando dall'altro lato della stanza, in piedi, con la schiena appoggiata al ripiano dei fornelli.
George inspirò profondamente prima di parlare: «Ho fatto di nuovo quell'incubo» disse piano.
Lo sguardo del suo amico si addolcì, ma non trasmetteva pietà come quello dei suoi genitori e dei suoi fratelli. In quello sguardo vedeva tenerezza, e comprensione. Anche se in modo differente, anche Lee soffriva per la perdita di Fred.
«E scommetto che hai anche litigato con i tuoi, o con uno dei ragazzi, mi sbaglio?»
George fece di no con la testa: «Sono sceso in cucina dopo essermi fatto una doccia gelata e avevo voglia di bere qualcosa... così, mentre ero seduto lì a farmi i fatti miei, mia madre è scesa e ha iniziato a guardarmi con quella faccia. Ti giuro Lee, se vedo ancora una volta uno di loro che mi guarda così, impazzisco».
«Posso capire cosa provi... però, George, devi anche cercare di metterti nei loro panni. Stanno tentando di comunicare con te e ultimamente non sei stato proprio responsivo nei loro confronti» disse guardandolo dritto negli occhi. George non poté fare a meno di abbassare lo sguardo. Lee aveva perfettamente ragione. Lo sapeva bene.
«Inoltre, anche loro soffrono per Fred e vederti così non aiuta, non trovi?» Cavolo, il suo amico sapeva sempre cosa dire. Inoltre Lee era l'unico con cui riusciva a parlare di suo fratello senza sentirsi sgretolare dentro.
«Non so davvero cosa mi succede. Questi incubi non mi lasciano dormire, e non so perché mi comporto così con loro. Sono così confuso...»
Era felice di essersi smaterializzato lì, nell'appartamento di Londra del suo amico di lunga data. Sapeva di poter trovare un rifugio sicuro, ogni qualvolta ne avesse avuto bisogno. Lee, dopo la fine della guerra aveva deciso di allontanarsi momentaneamente dal mondo magico. Aveva rifiutato un incarico al ministero e aveva optato per la vita babbana, per quello che lui stesso aveva definito un breve periodo di tempo. In realtà George sapeva quanto Lee adorasse la Londra babbana e il gruppo di amici che si era creato negli ultimi mesi.
Seguendo la sua passione per la cronaca sportiva, aveva risposto ad un annuncio su un giornale locale per il posto di speaker radiofonico in un programma sportivo che andava in onda tutti i pomeriggi per qualche ora. Non fu difficile per lui ottenere il posto, vista la sua abilità nel commentare le partite di Quidditch e il suo tono di voce profondo ma accogliente.
«Ascolta, facciamo così. Adesso ti preparo il divano letto e cerchiamo di dormire almeno qualche ora, o perlomeno ci proviamo, ok? Se ti va poi, possiamo riparlarne domani. Posso anche accompagnarti a casa e parlare io con Molly e Arthur» disse Lee. «Magari riesco a tranquillizzarli e potrei convincerli a starti meno addosso».
«Ti ringrazio amico, ma non ce n'è bisogno. Penso che mi basterà solo qualche ora di sonno...» disse il ragazzo sbadigliando. Subito dopo un sorriso tirato comparve sul suo volto. Anche Lee sorrise, e senza aggiungere altro, andò nella sua camera. George lo sentì trafficare nell'armadio e dopo qualche minuto tornò con delle lenzuola, delle coperte e un cuscino.
Iniziò ad aprire il divano letto in maniera tradizionale, senza l'ausilio della bacchetta, e questo stupì George. Quando iniziò a sistemare le lenzuola sul divano la sua curiosità ebbe il sopravvento. «Lee, hai proprio deciso di non usare più la magia?»
Il suo amico si girò sorridendo. «Ultimamente ho avuto modo di riflettere e ho capito che mi piace assaporare ogni momento della vita babbana. Mi piace davvero». Il sorriso sulle labbra di Lee era così sincero che George non volle ribattere. Dopo essersi fatto prestare una maglia e un pantalone per dormire, si stese sul divano e fu grato finalmente di poter riposare un po'. Salutò l'amico che tornò in camera sua, chiudendosi la porta alle spalle e prima che George se ne rendesse conto, era già scivolato in un sonno profondo, e questa volta, sereno.
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Quando aprì gli occhi, si accorse che il sole che filtrava dalle tapparelle chiuse era ormai alto nel cielo. Non riusciva a rendersi conto di che ore fossero, ma ipotizzò che fosse ormai passata l'ora di pranzo, dato il brontolio che sentì provenire dal suo stomaco. Stava morendo di fame.
Si stiracchiò, allungando le lunghe braccia sopra la testa, e si alzò piano dal divano. Si diresse verso il bagno, e dopo essersi lavato la faccia, tornò a piedi nudi verso la cucina. Lee non si vedeva da nessuna parte, la porta della sua camera era spalancata e il letto era rifatto in modo preciso. Nonostante l'aspetto leggermente trasandato, Lee era sempre stato una persona meticolosa, al contrario di lui e suo fratello già dai tempi del dormitorio che condividevano.
«Buongiorno principessa! Hai dormito bene?»
Assorto nei suoi pensieri, non si era accorto del portone di casa che si apriva. Lee si trovava di fronte a lui, con sottobraccio delle buste della spesa e ai suoi piedi delle casse di birra. Si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò al ripiano della cucina, appoggiando le buste che sembravano pesanti. Solo vedere il suo amico fare quella fatica lo rendeva ancora più stanco di quanto non fosse già. Infatti, nonostante le ore di sonno in parte recuperate, si sentiva sfiancato e debole, oltre a sentire un grande mal di schiena.
«Allora, vediamo un po'! Ho comprato solo cose buone per il mio caro ospite! Forse non sarò uno chef professionista, o non saprò cucinare deliziosi pranzetti come tua madre, ma ti prometto che farò del mio meglio!» disse il suo amico strizzandogli l'occhio e dandogli un buffetto sulla guancia. Ridendo, George cercò di spostargli la mano e si avvicinò alle buste per vedere cosa contenevano. Era davvero affamato. Lee iniziò a tirare fuori dal sacchetto pacchi di pasta, qualche barattolo di sugo pronto, un cesto di insalata e degli hamburger inscatolati.
Dopo circa venti minuti, i due ragazzi sedevano uno di fronte all'altro ai due lati della penisola. Davanti a loro, due piatti fondi ormai vuoti, che erano stati spostati di lato per attaccare la seconda pietanza. Gli hamburger erano venuti un po' bruciacchiati, ma tutto sommato potevano ritenersi soddisfatti.
«Allora, che programmi hai per oggi?» chiese Lee.
«Non saprei... non avevo in mente niente, sinceramente. L'unica cosa a cui ho pensato ieri sera, anzi mi correggo, stamani, era di venire qua. Non ho pensato a cosa fare dopo... so solo che per ora non ho voglia di tornare a casa» disse un po' malinconico.
«Assolutamente no! Non puoi tornare a casa! È sabato, non lavoro, e per di più non ci vediamo da una vita! Devi restare con me!» disse l'amico strizzando l'occhio sinistro.
George sorrise. Lee era sempre stato un trascinatore, l'anima delle feste.
«Senti cosa ho pensato. Appena finiamo ce ne andiamo a fare un giro in centro, vediamo qualche attrazione, facciamo un giro per negozi se ci va, e poi ci prepariamo per una serata veramente pazzesca, che ne dici?» Il volto di Lee si era illuminato mentre parlava con lui.
«Cosa c'è stasera?» chiese George, incuriosito.
«Pam, la ragazza che lavora in radio insieme a me, ha ricevuto un invito da un'amica di una sua amica per il compleanno di un altro loro amico... insomma, una mega serata che non ci possiamo perdere! Tra l'altro, fanno il tavolo in questo nuovo locale in cui è praticamente impossibile entrare a meno che tu non abbia agganci, e il caso vuole che io ce li abbia» disse il ragazzo mentre si rimetteva dritto con la schiena. «Però se non te la senti ti prego di dirmelo, non voglio assolutamente forzarti...» disse, ritornando per un momento serio.
«Credo che sia una buona idea. Penso che mi potrebbe fare bene...» rispose, abbassando lo sguardo. Aveva bisogno di distrarsi e credeva che lasciarsi inebriare per una sera dall'alcool, dalla musica, dalla gente fosse il modo migliore.
L'unico che conosceva, l'unico che gli forniva un po' di sollievo.
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Dopo qualche ora, entrambi erano pronti. George osservò Lee uscire dalla sua stanza, e trovò che vestito con un paio di jeans e una camicia verde stesse davvero bene. Aveva indossato delle scarpe nere e aveva sistemato i suoi inconfondibili dreadlock neri.
«E tu vieni così?»
«Perché? Cos'ho che non va?»
Squadrandolo dalla testa ai piedi, Lee fece una risata. «Andiamo Georgie, so che non puoi competere con il mio senso della moda, ma quella camicia abbottonata fino al collo fa tanto anni '30... dobbiamo fare un corso accelerato di stile!».
George lo guardò spaesato, non capendo il riferimento. Lee si avvicinò a lui e iniziò a sbottonare i primi due bottoni della camicia bianca che aveva deciso di indossare, sopra un paio di pantaloni neri con grandi tasche posteriori.
Poi Lee si diresse verso l'armadio della sua camera e ritornò con un cappotto nero lungo fino al ginocchio. George lo provò e notò che gli andava corto alle maniche e che gli arrivava un po' sopra il ginocchio. Prese la bacchetta e con un gesto veloce lo sistemò. Lee lo osservò, ridendo sotto i baffi. Adesso era perfetto, pronto per uscire.
«Un po' di coraggio liquido, amico?»
Il ragazzo si girò e vide che Lee aveva appoggiato una bottiglia di Whisky sul tavolo. Avvicinandosi, si rese conto che non era whisky incendiario, ma alcool babbano.
«Andiamo, davvero non hai qualcosa di più forte?» chiese lui.
«Fidati, George, questo è davvero buono. E poi, dovrei avere anche...» disse mentre trafficava nel mobiletto sotto il ripiano della cucina: «Ah, eccola! Signor Weasley, le presento Beluga, la cara vecchia vodka, proveniente direttamente dalla Russia!» disse Lee sorridendo, mentre reggeva in mano una bottiglia dal colore blu elettrico. Senza fare complimenti, prese due bicchieri dal mobile e inizio a versare il liquido trasparente. Ne prese uno e porse l'altro al suo amico.
George mise il naso vicino al bicchiere e sentì arrivare una zaffata potente di alcool.
Questo sì che è forte.
Senza pensarci troppo, buttò giù tutto d'un fiato il liquido e sentì bruciare la gola. Quando rimise giù il bicchiere, si rese conto che anche il suo amico aveva già finito e stava già facendo un altro giro.
Dopo circa quattro shottini di vodka, i ragazzi decisero di incamminarsi. Lee preferì spostarsi alla maniera tradizionale, in quanto aveva paura che l'alcool che avevano assunto potesse farli spaccare cercando di smaterializzarsi. Presero la metropolitana e nel giro di venti minuti si trovarono di fronte al locale di cui Lee gli aveva parlato. Era una costruzione bassa, di colore grigio scuro, con piccole finestre ai lati da cui si potevano vedere le luci stroboscopiche. Da fuori inoltre potevano sentire il rumore ovattato della musica che pompava nelle casse.
George si sentiva leggermente a disagio, era una delle prime volte che si avventurava in un locale nel mondo babbano. L'unica altra volta in cui aveva provato era stato con Fred, e si era divertito un mondo. Ma adesso Fred non era con lui e George si sentiva completamente spaesato.
Avvicinandosi alla lunga fila in attesa di fronte al locale, Lee agitò la mano in segno di saluto verso un gruppo di persone. Una ragazza alta, con i capelli biondi fino alla vita e grandi occhi verdi iniziò a lanciare gridolini eccitati alla vista dell'amico.
«Lee, sei venuto allora!» La ragazza si avvicinò al suo amico e lo strinse in un abbraccio caloroso. Poi si allontanò e iniziò a spostare lo sguardo verso di lui. «E questo bel ragazzo chi è?» disse con uno sguardo malizioso.
«Pam, sono veramente onorato di presentarti uno dei miei migliori amici, ma che dico amico, fratello. Pam, lui è George. George, lei è Pam». George sorrise imbarazzato, ma allungò la mano verso la ragazza per stringerla. Dopo qualche secondo in cui lei lo scrutò seria, il suo volto si aprì in un bellissimo sorriso e si avvicinò per abbracciarlo. «Gli amici di Lee sono anche amici miei! Dai, venite! Gli altri sono in fila, stiamo per entrare!»
Si avvicinarono al gruppetto che stava in fila. Lee iniziò a presentarlo e lui ebbe da subito difficoltà a ricordare i nomi di tutti. Non era mai stato bravo in queste cose, di solito era Fred che ricordava di più, che riusciva ad associare i nomi ai volti, e lo salvava da tante situazioni imbarazzanti. George sentì un leggero fastidio al petto. Ancora una volta, si sentiva un inetto senza il fratello al suo fianco.
«Pam, chi stiamo aspettando ancora?» disse un ragazzo moro con gli occhiali dalla montatura spessa. Da quello che George aveva capito, era il festeggiato.
«Ehm si, Mark hai ragione... mancano ancora mia sorella e la sua amica, anche se non so se verranno... Provo a chiamarle, aspetta!»
Tirò fuori dalla borsa a tracolla un piccolo aggeggio nero, con uno schermo illuminato di verde e dei tastini sotto. George riuscì a scorgere la scritta "Blackberry" sopra l'oggetto. La ragazza digitò velocemente alcuni tasti e lo mise all'orecchio. Dopo qualche secondo, disse : «Pronto? Sammy, ma dove sei? Stiamo per entrare, mancate solo voi! Sì, siamo qua davanti, dai muovetevi!» esclamò lei, rimettendolo nella borsa.
«Sono appena uscite dalla metro, arrivano! Ah eccole, le vedo! Sammy, Izzie, siamo qua!»
Mentre la ragazza si sbracciava , George si girò e scorse due figure femminili che si approcciavano a loro. Quando furono vicine abbastanza da poter mettere a fuoco, le osservò. Una era leggermente più bassa di Pam, ma con la stessa tonalità di capelli biondi. Aveva però degli occhi celesti e un fisico più asciutto. Notò da subito la somiglianza fra le due.
Ma fu l'altra ragazza a colpire la sua attenzione. Era alta, forse leggermente meno di lui, slanciata, ed aveva dei capelli neri come il carbone che le arrivavano sotto le spalle. Indossava un vestito con delle paillettes oro, delle calze nere e degli anfibi ai piedi. George pensò che fosse davvero affascinante.
La cosa che però lo colpì fu lo sguardo assente che intravide nei suoi occhi verdi scuro. Era uno sguardo che riconosceva, era lo sguardo che vedeva ogni volta che faceva l'errore di specchiarsi.
«Forza ragazzi, entriamo prima che cambino idea e ci lascino fuori!» disse il festeggiato, Mark.
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