I


Novembre 1998

Si trovava ancora in quel corridoio al quarto piano. Camminava velocemente, anche se le gambe sembravano pesanti come pietra. Non riusciva a correre, ogni volta che provava sentiva delle fitte fortissime ai muscoli degli arti inferiori che non gli permettevano di aumentare il passo. Continuava a svoltare, destra, sinistra, destra, sinistra. Quel corridoio sembrava infinito. Osservando i quadri attaccati alla parete, ne riconobbe alcuni. Trovò strano il loro ripetersi, gli sembrava di averli già visti.

 Dopo poco, svoltando altre due volte, ebbe la conferma di ciò che sospettava. Si ritrovò esattamente di fronte agli stessi identici quadri ed ebbe la certezza di stare girando a vuoto. Esasperato, portò le mani alla testa, stringendo forte qualche ciocca di capelli rossi. Sospirando, cercò di calmarsi. Era inutile fare così. Doveva pensare lucidamente per riuscire ad andarsene da quello che, a quanto pare, sembrava un labirinto senza uscita.

Improvvisamente, sentì una forte esplosione che lo fece sussultare e rabbrividire allo stesso momento. Iniziò a correre, e stavolta fu felice che le gambe rispondessero ai suoi comandi. Svoltò a destra e si ritrovò di fronte ad una scena che, pensò, fosse stranamente familiare. Un ragazzo minuto dai capelli rossi stava urlando, chiedendo aiuto, e accanto a lui si trovava un cumulo di pietre enormi e macerie. Ecco cos'era quel rumore. «George! Ti prego vieni qua ad aiutarmi, dobbiamo tirare fuori Fred da lì sotto!»

Colto alla sprovvista da quelle parole, il ragazzo fece uno scatto e si precipitò con la bacchetta in mano ad aiutare il fratello maggiore. Iniziò a muoverla e sotto le macerie trovò il corpo senza vita di suo fratello gemello. Iniziò a piangere sommessamente, gettando la bacchetta di lato e buttandosi ai piedi del corpo. Lo prese tra le sue braccia, e si accorse di come fosse freddo e rigido. Non rispondeva alla sua stretta e si rese conto che la sua metà se ne era andata per sempre.

Mentre cercava di calmare i suoi singhiozzi strozzati, sentì la voce di Percy dietro di lui.

«Non è giusto, dovresti esserci tu al posto suo»

Quelle parole bloccarono improvvisamente il suo pianto, e girò di scatto la testa verso suo fratello, sconvolto.

«Cosa?»

«Percy ha ragione, dovresti esserci tu steso in terra, senza vita».

Si voltò, e vide suo fratello Bill avvicinarsi a Percy, le braccia incrociate sul petto e uno sguardo indecifrabile.

«Io... non capisco... perché state dicendo questo?». George sentì la voce spezzarsi in gola. Non poteva credere a quello che stava sentendo.

Si alzò in piedi, cercando di avvicinarsi a loro per avere un contatto. Una stretta di mano, un abbraccio, qualcosa. Ne avrebbe avuto un bisogno immenso,  in un momento del genere. Ma quando stava per toccare il braccio di Bill, lui si scansò.

«Tu non devi toccarmi. È tutta colpa tua. Non eri con lui. Non lo hai salvato».

«Ma... io... non credevo... c'era Percy con lui e io pensavo che... fosse al sicuro...». Le ultime parole uscirono dalla sua bocca in un sussurro.

«Tu non lo hai salvato. Il mio povero, piccolo bambino...» 

George sentì una voce familiare, calda, accogliente. Si girò e vide che dietro di lui era comparsa sua madre, seguita da suo padre e il resto della sua famiglia. Ron teneva stretta a sé una Ginny sconvolta e con il volto segnato dalle lacrime. Dietro a loro Charlie chiudeva la fila. Adesso la famiglia era al completo.

«Mamma...» disse George , tentando di avvicinarsi alla madre.

«No! Tu... non ti puoi avvicinare! È tutta colpa tua, tu non lo hai salvato, tu dovevi salvarlo!»

George non riuscì più a trattenere le lacrime. Si sentiva sul punto di impazzire.

«Ha ragione, sei solo una delusione, George. Peccato che questa sorte sia toccata a lui. Si meritava di vivere... al contrario di te.» Quelle parole uscirono taglienti dalla bocca di suo padre. Sortirono l'effetto sperato, perché il ragazzo sentì come se cento lame affilate lo avessero trafitto senza pietà.

«Io... io...» George era affranto, si sentiva terribilmente in colpa. Sentiva dentro di sé che dava pienamente ragione alla sua famiglia. Doveva esserci lui sotto quei massi. Non Fred.

«Giusta osservazione papà. Inoltre, è davvero un peccato che a morire sia stato il gemello più bello tra i due».

 George avrebbe riconosciuto quella voce tra mille altre voci. Si girò di scatto, e vide che in terra non era più steso il corpo di suo fratello. Fred era in piedi, e lo osservava con uno sguardo diabolico. Era ancora pallido, emaciato, sporco di detriti. Sembrava uno zombie.

«Come... come è possibile?» 

George iniziò ad indietreggiare, spaventato per ciò che stava vedendo di fronte a sé. No, non era spaventato, era terrorizzato.

Mentre cercava di andarsene vide che la sua intera famiglia lo stava seguendo. Si accorse solo troppo tardi, quando tentò di voltarsi per correre via, che lo avevano accerchiato. Si stavano avvicinando lentamente a lui, con sguardi carichi di odio, muovendo le bocche all'unisono. Dapprima fu solo un mormorio indistinto, che il ragazzo non riuscì a comprendere. Poi le voci iniziarono ad alzarsi e George riuscì a capire quale mantra stessero ripetendo. 

«Dovevi esserci tu... è colpa tua...»

 Il ragazzo non sapeva più come fare per scappare da quella situazione e l'unica cosa che gli venne in mente fu di accucciarsi a terra, con le mani sulle orecchie, o meglio sull'orecchio, per non sentire quelle frasi che stavano facendo rivoltare il suo stomaco, la sua anima. L'ultima cosa che riuscì a vedere fu suo fratello gemello ,inginocchiato di fronte a lui. George alzò lo sguardo e notò sul volto identico al suo, solo più pallido, un verme che usciva dalla bocca e che passeggiava serenamente sulla sua guancia.

George aprì gli occhi e si tirò su dal letto di scatto, con un respiro affannato e le palpitazioni a mille. Sembrava che il cuore stesse per esplodergli dal petto. Rivoli di sudore scendevano copiosamente dalla sua fronte e dalla schiena, bagnando completamente la maglia della divisa di Quidditch che oramai usava solo come pigiama. Il ragazzo impiegò ancora qualche secondo per riprendersi, e rendersi conto che era solo un sogno. Un incubo, in realtà, che era diventato suo fedele compagno. 

George sognava la stessa cosa da circa sei mesi, da quel fatidico giorno in cui aveva perso ogni scopo per andare avanti nella vita. Riusciva a trovare un po' di sollievo soltanto quando si riparava nell'oblio dell'alcool o di sostanze stupefacenti, che reperiva da qualche tempo da un fornitore babbano, o come venivano chiamati da loro, "spacciatori".

Girò la testa, ancora un po' scosso dal contenuto del sogno, per vedere che ore erano. Il piccolo orologio di legno appoggiato sul comodino accanto al letto segnava le 4.30 di mattina. Perfetto, pensò sospirando profondamente. Un'altra notte di sonno andata a farsi benedire. 

Scostò le coperte del letto, e appoggiò i piedi sul pavimento freddo. Cercò di ottenere un po' di sollievo dal contatto del legno con la sua pelle, e fu piacevole, se pur momentaneo. Si alzò in piedi e si diresse verso il bagno accanto alla sua stanza. Aveva bisogno di una rinfrescata. Facendo scorrere l'acqua gelida dal rubinetto, se la buttò in faccia con le mani. Rabbrividì ma fu sollevato nell'accorgersi che piano piano stava riprendendo contatto con la realtà. Sentì però che non bastava e decise di farsi una doccia, anche questa gelata. Si tolse la maglia e i pantaloni del pigiama, buttandoli in terra di lato al lavandino in modo disordinato ed entrò in doccia, facendo scorrere l'acqua su tutta la superfice del suo corpo. Fu felice della sensazione di freschezza provata. L'acqua aveva impregnato anche i capelli, che negli ultimi mesi erano cresciuti parecchio. Forse sarebbe il caso di tagliarli un po', pensò mentre, stendendoli ai lati del suo viso, si accorse che ormai arrivavano quasi al mento. 

Negli ultimi mesi si era lasciato completamente andare, non riusciva più a comprendere infatti che senso avessero tutte quelle sciocchezze: tagliare i capelli, farsi la barba, cambiarsi ogni mattina con vestiti puliti. Passava infatti spesso e volentieri le sue giornate in stanza, in pigiama o con il maglione di Fred indosso, a guardare il soffitto oppure, quando la giornata era buona, ad osservare il mondo fuori dalla finestra, mondo che stava andando avanti senza di lui. Era un relitto alla deriva.

Spense l'acqua e, prendendo un asciugamano dal mobile, se lo avvolse intorno alla vita. Uscì dalla doccia e si ritrovò di fronte allo specchio. Il vapore acqueo lo aveva appannato completamente, e d'impulso, passò il palmo della sua mano sulla superfice. Passò solo qualche secondo in cui George involontariamente si specchiò e sentì un tonfo sordo al cuore. Distolse lo sguardo immediatamente. Il dolore era troppo forte, lancinante. Si sentiva ancora spezzato in due.

George non riusciva più a guardarsi allo specchio perché vedeva ancora lui.

Dopo aver messo una tuta pulita, decise di scendere le scale e andare in cucina a bere qualcosa. 

Forse c'è ancora quella bottiglia di liquore invecchiato in dispensa. 

Negli ultimi mesi aveva trovato nell'alcool un amico fidato, un alleato, che pareva aiutarlo nei momenti peggiori. Lo stordiva e lo aiutava a non pensare a niente, a non sentire niente. Entrò nell'ampia sala e si diresse in cucina. Decise di non accendere nessuna luce per non svegliare nessuno, o meglio, perché forse non voleva incontrare nessuno. Non pensava di poter sopportare ancora gli sguardi di pietà e compassione che gli rivolgevano tutti in famiglia da quel maledetto giorno.

Si diresse verso la dispensa e fu prima sorpreso e poi felice di trovare ciò che cercava. La bottiglia di liquore era proprio lì, piena a metà. La prese con una mano e con l'altra estrasse un bicchiere basso di vetro, anche quello facente parte della collezione di oggetti babbani di suo padre. Badò bene di prenderlo con cura e appoggiarlo con altrettanta premura sul tavolo per non romperlo o scheggiarlo. Merlino solo sapeva quanto suo padre tenesse a quelle sciocchezze babbane

 Quasi più di me.

Si versò circa quattro dita di liquore e si sedette al tavolo, iniziando a sorseggiare. Appena il liquido scuro toccò la sua bocca e scese lungo la sua gola, il ragazzo si sentì riavere. Finalmente un po' di pace.

Erano passati all'incirca quindici minuti quando vide una figura scendere dalle scale e, con voce bassa, sentì pronunciare "Lumos". Improvvisamente una bacchetta sprigionò una lieve luce blu, e George notò che la figura appena entrata nel loro salone era sua madre. 

Si avvicinò in silenzio a lui e chiese: «Tesoro, posso farti una tazza di thè?» Molly non si era accorta che il figlio aveva davanti a sé un bicchiere di alcool. George fece cenno di sì con la testa, più per non farsi scoprire dalla madre, piuttosto che per reale voglia di una bevanda calda. Quando la madre si allontanò verso i fornelli per mettere a scaldare l'acqua, il ragazzo bevve tutto d'un fiato il liquore scuro nel bicchiere. Non voleva che la madre si rendesse conto che si rifugiava in quel modo dal dolore incessante che provava ogni santissimo giorno.

La madre fu di ritorno dopo pochi minuti, reggendo tra le mani due tazze fumanti di thè al gelsomino. George riconobbe il profumo ed ebbe una stretta al cuore. Era un profumo inconfondibile, il profumo delle colazioni tutti insieme la domenica mattina quando ancora non erano partiti per Hogwarts, ed era anche un po' l'odore che associava alla sua infanzia con il fratello. La madre gli porse la tazza fumante e lui la prese con entrambe le mani, iniziando a soffiarci sopra lievemente per farla freddare.

Passò qualche minuto in cui entrambi non proferirono parola, impegnati a soffiare per evitare di scottarsi nel bere. Dopo un primo sorso, fu Molly a parlare.

«Cosa ci fai sveglio a quest'ora? Non riuscivi a dormire?» disse con un tono di voce calmo, dolce.

Il ragazzo annuì. «Ancora quel sogno?» lo incalzò lei. Negli ultimi mesi era molto difficile tirare fuori qualche parola dalla bocca del ragazzo.

George sbiancò. Non aveva mai parlato a nessuno del sogno, o meglio dell'incubo che lo perseguitava da mesi. Guardò la madre con uno sguardo confuso e leggermente ferito, aspettando che lei parlasse per spiegare.

«Ti sentiamo parlare nel sonno, Georgie. Non sempre, certo, ma molto spesso parli, anzi... a volte urli nel sonno ripetendo delle parole. Quindi abbiamo pensato che fossero incubi... è così, non è vero?»

Il ragazzo si irrigiditì immediatamente. La sua famiglia lo aveva sentito. Tutti sapevano cosa stava passando ma a nessuno era passato per la testa di provare a parlargli, di provare a tranquillizzarlo. A lui sarebbe anche andato bene che qualcuno si offrisse di dormire insieme a lui. Aveva un disperato bisogno del conforto della sua famiglia, di un contatto emotivo e fisico, anche se la maggior parte delle volte dimostrava il contrario. Ma a nessuno sembrava importare.

«Non so di cosa stai parlando, mamma», rispose freddamente George.

«Tesoro... voglio solo che tu sappia che nessuno pensa che sia colpa tua. Nessuno lo pensa», ribadì lei con voce ferma.

Per George fu impossibile controllare la sua calma. Non riusciva a sostenere quelle frasi, quei comportamenti e soprattutto quegli sguardi di pietà, come quello che stava leggendo adesso sul volto di sua madre. Si alzò in piedi di scatto, trascinando indietro la sedia su cui era seduto.

«Ti ho detto che non so di cosa stai parlando! Io non sogno assolutamente niente, anzi dormo benissimo, non so cosa stai blaterando! E poi di cosa dovrebbe essere colpa mia?»

Il ragazzo era diventato rosso in viso, e sentiva vampate di calore salirgli dal petto verso i capelli.

«Georgie...» Molly si alzò, cercando di toccare con la mano il braccio del figlio, che si scansò prontamente. 

«No! No... non toccarmi!» urlò esasperato. «Tu non devi toccarmi. Ti ho detto che sto benissimo, che non sogno niente anzi faccio delle dormite veramente rilassanti. Ci siamo intesi?»

 George sentì il petto andare su e giù in maniera incontrollata, stava facendo molta fatica per cercare di ripristinare un respiro regolare. Guardò la madre negli occhi e vide, nella penombra, che erano velati di lacrime.

Voltandosi per tornare in camera sua, George si avvicinò alle scale. Intravide nell'oscurità i volti familiari di Ron, Ginny, Percy e il padre che lo stavano osservando. Guardandoli attentamente, riconobbe in ognuno di loro lo sguardo che aveva imparato a temere, a odiare. Riconobbe nei loro sguardi la pietà. E lui non la poteva sopportare.

«Adesso è troppo. Me ne vado».

Prese la sua bacchetta dalla tasca dei pantaloni e, prima che qualcuno di loro potesse dire qualcosa, si smaterializzò.

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