Epilogo.
[ 18 Gennaio 2017 – New York ]
Tornare a vivere a New York è stato facile e difficile al contempo. È come se non me ne fossi mai veramente andato via, eppure non riesco ancora ad abituarmi del tutto. Come quando torni da un lunghissimo viaggio e sei felice di essere a casa, ma senti che qualcosa non è ancora al suo posto giusto.
In questi giorni Hanna è con me. Si è fermata a New York per un po', libera da impegni lavorativi, dopo che siamo arrivati qui dopo il processo mi ha detto chiaramente che voleva passare del tempo con me.
È consapevole che riprenderò a lavorare a pieno regime entro pochi giorni, ma non discute. Lei non protesta mai, si adatta sempre. E forse questo, con me, non è proprio l'atteggiamento adatto perché finisce che me ne approfitto sempre.
Saremmo dovuti andare a pranzo fuori, invece siamo finiti a letto. Non me ne rendo conto nemmeno io il più delle volte, scatta qualcosa dentro di me. Basta che lei mi sorrida oppure mi tocchi in un determinato modo e la voglia di tirarle su la gonna, arricciarla ai fianchi e liberarla dall'intimo per prendermela ovunque siamo, diventa opprimente.
Forse sto riversando in lei tutte le mancanze che ho sentito di avere negli ultimi mesi, non so dirlo con certezza assoluta. È che lei è così accogliente, così sempre disponibile con me, solo per me, che spengo il cervello.
Anche ora, vorrei restare a letto piuttosto che alzarmi e raggiungere i nostri impegni, ma lei è più diligente di me in questo. Si sta rivestendo mentre io carburo lentamente, la mia camicia non è completamente abbottonata e la cravatta è ancora sul letto, mi sto ancora sistemando i polsini.
Lei invece si sta abbottonando la camicetta dopo averla sistemata. Noto che mi sta osservando e, per la prima volta da che ci conosciamo, capisco che sta seriamente titubando nel dirmi qualcosa.
«Che c'è?» Rompo io il silenzio.
Prende un respiro. Mi guarda e scuote piano il capo.
«Hanna?»
«Dimmi.»
«No, dimmi tu.» Corrugo un po' la fronte. «Che succede?»
Da scalza è molto piccola, ma non per questo meno elegante. Si porta le mani ai fianchi e sospira. «Devo parlarti.»
Quando una donna ti dice "devo parlarti", non importa tu cosa sia per lei: amico, fratello, figlio, padre, zio, nonno, marito, umpa lumpa. Sei un uomo morto che cammina. Né più né meno.
Faccio un cenno assertivo col capo. «Va bene, parliamo.» Di che cosa non posso saperlo. Ma ricordiamolo che io sono il maschio della coppia e non sempre brillo per intuizione.
Mi squadra da testa a piedi. «Le tue intenzioni, Thomas.»
Arcuo le sopracciglia e sbatto le palpebre un paio di volte. «Le mie intenzioni.»
«Sì. Che intenzioni hai. Che intenzioni abbiamo.» Indica me e poi sé stessa. «Necessito di saperlo.»
Muovo qualche passo ma mi ferma.
«No. A distanza. Perché poi non parliamo più.»
«Addirittura, Hanna. Lo sai che ti rispetto.»
«Eh, sì. Però a distanza.»
Alzo le mani. «Okay, a distanza.»
«Bene. Ora rispondi.» Il cipiglio del Giudice ce l'ha tutto, bisogna dirlo.
«Non lo so, Hanna. Non ci siamo mai detti nulla, l'abbiamo sempre vissuta così.»
«Perché tu non eri pronto. Dopo Louise. Lo so, non sono stupida, Thom.» Non è arrabbiata, ma molto determinata. «Ma ora ne ho bisogno.»
«Hanna che succede?» Mi sto preoccupando. «Ti ho forse ferita e non me ne sono accorto?» Plausibile. Succede più volte di quanto mi piaccia ammettere. Non sono uno bravo in certe cose.
«No, no no.» Sventola la mano. «Te lo avrei detto.»
«E allora?»
Mi fissa, sembra dispiaciuta. «Voglio un figlio, Thomas.»
Se non fossi quello che sono, mi sarebbe cascata la mascella per terra. Vuole un figlio.
E mò so cazzi.
«Non devi dire niente.» Agita un po' le mani. «Ma io voglio un figlio, Thom. Ho trentatré anni. Sono un giudice federale. Se aspetto ancora, non diventerò mai madre. Ho fatto delle visite.»
Corrugo la fronte. «Quando?»
«Qualche giorno fa.» Si umetta le labbra. «Ho poco tempo, Thom. Se aspetto ancora la mia fertilità sarà pressoché nulla. E io...» Prende un respiro. «Ho sempre voluto quello che ho adesso. Diventare giudice, essere libera, felice. Ma non sono felice, Thom. Voglio diventare madre. E tu me lo devi dire se sto perdendo solo tempo.»
Devo aver fatto una faccia strana, perché avvampa di botto e si avvicina veloce, le mani alla bocca.
«No, scusa. Cioè.» Mi prende le mani. «Io Thom, ti amerei con tutta me stessa. Lo sai. Ti amerei come meriti. Ti amerei come nessun'altra. Ma...» Guarda le mie mani avvolte dalle sue. «Non sono certa che tu possa amarmi, oggi o domani.» Prende un respiro. «E quindi non posso sprecare il mio tempo, perché ne ho poco. Tu sei sempre stato la mia costante e credimi, avere un figlio con te sarebbe...» Alza le spalle e ha gli occhi un po' lucidi. «Ma lo vorrei con te, non da te. Al contempo, io non voglio che tu stai con me solo perché ciò che desideri non puoi averlo.»
La guardo con un po' di rimprovero. «Non le dire queste cose.»
«E tu non offendere la mia intelligenza. Lo sappiamo.»
Mja.
Mja è rimasta fra noi due come un'ombra silente, qualcosa di cui non parliamo perché sappiamo esattamente la sua portata qual è.
«Hanna.» Mi guarda e ha lo sguardo di chi non si aspetta nulla ma, al contempo, vorrebbe tutto. «Io non sono pronto.» E mi maledico per questo, perché vorrei essere pronto. Sul serio, lo vorrei.
«Vorrei essere l'uomo che ti meriti. Vorrei essere quello che ti rende madre. Che ti rende felice.» Ma non ti amo, Hanna. È questo il punto, quello che fa più male.
Non ti amo come tu ami me.
Mi prende il viso fra le mani e si solleva sulla punta dei piedi e mi da un bacio a fior di labbra. «Grazie, Thom.» Ha gli occhi pieni di lacrime che premono per uscire. «Grazie, perché ci sei sempre stato e continui ad esserci sempre. Grazie per tutti questi anni. Grazie perché tu mi hai fatto capire come vorrei essere amata.» Due lacrime le rigano il viso e io, di istinto, gliele carezzo piano, asciugandole.
«Non piangere.» Ti prego, no.
«Non sto male.» La guardo come a dire "seria?". «Davvero. È che tu pensi di non saper amare, ma come te non mi ha mai amata e rispettata nessuno.» Abbozza un sorriso, ma è uno di quelli mesti.
«Guarda che io non vado da nessuna parte.»
«Oh, lo so.»
Le prendo il viso fra le mani, glielo carezzo e mi sento così una merda in questo momento. Vorrei solo baciarla, stringermela contro e fingere che non mi abbia detto niente.
Ma lo ha fatto ed è questo il cazzo di casino ora.
La sento sospirare e tirare su col naso, avvolgendomi i polsi con le sue mani delicate. «Mi restano tre giorni, qui.» Mi fissa. «Facciamo che siano i migliori che abbiamo passato insieme, ti va?»
Oh, Hanna. Cristo, perché cazzo sei così perfetta? Perché? Io non ti merito, sul serio.
Annuisco, appoggiando la fronte contro la sua. Le carezzo il viso, lo faccio con la stessa cura che si riserva al cristallo più delicato e bello.
«Tre giorni.»
«Esatto.» Mi guarda. «E poi torneremo ad essere i migliori amici di sempre.»
Annuisco.
Tre giorni.
So già che pagherò un prezzo altissimo per questo sì che ho detto.
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[ 23 Gennaio 2017, Ufficio AHR Ass. – New York ]
La vita è strana, ma strana sul serio.
Qualche mese fa ero nella stessa posizione, ma in un'altra città. Un ufficio nuovo e immacolato, che profumava di nuovo e possibilità, ma pure di responsabilità. Avevo tanto, eppure non ero soddisfatto.
Oggi sono nel mio nuovo ufficio, è perfetto. Non scherzo, è perfetto sul serio.
Tutto è disposto secondo il mio ordine maniacale, la vista su Madison Square Park è impagabile. Io, Garrett, Meredith e Alexander abbiamo preso gli uffici più grandi, quelli del quarto ed ultimo piano che abbiamo comprato. Ce ne sono ancora due vuoti, uno probabilmente lo useremo come sala riunioni o simili, l'altro invece è destinato alla nostra socia junior. Abbiamo messo a segno il colpaccio: Madelaine Scarlett Moore. Nostra compagna di Yale, curriculum impressionante, figlia del Senatore Democratico del Massachusetts Moore. Cosa possiamo chiedere di meglio?
Non sono felice, però.
Non appieno, almeno.
I giorni con Hanna sono passati velocemente, troppo velocemente. È come se dovessi affrontare l'ennesima perdita nel giro di poche settimane. Prima Mja, ora lei. E ancor prima Louise.
Perché le persone che amo prima o poi se ne vanno? Non riesco a darmi una risposta.
Ho capito, però, che nella nostra vita non possiamo avere tutto. Dobbiamo scegliere in cosa essere vincenti e in cosa no. Una volta che abbiamo scelto, è nostro dovere eccellere.
Una cosa, una sola fottuta cosa. Ecco cosa dobbiamo fare. Scegliere.
Sembra facile, no? Eh, no. Non lo è.
Perché le scelte hanno un prezzo, alcune minimo, altre immenso.
Per avere tutto questo, ho rinunciato alla possibilità di essere felice. Ho rinunciato a quel barlume di vita normale che Hanna mi stava offrendo.
Ho scelto di eccellere, di non accontentarmi.
Io sono eccellente e, per questo, pago un prezzo esorbitante.
Lo pago ogni giorno. Lo pago nonostante tutto, nonostante tutti.
Perché sono Thomas Anderson e sono quello che aggiusta tutto nella vita degli altri.
Ecco cosa mi resta: me stesso. E questo non cambierà mai.
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