17. Allora chiediti il perché.
Preparare un processo non è mai una cosa semplice. Per di più non lo è farlo quando la vittima che sporge denuncia è la donna per cui hai quasi completamente perso la testa.
Quasi. Perché sono sempre Thomas Anderson e perché le cose sappiamo benissimo come sono andate.
Sto ospitando Hanna nella mia penthouse. Questione di discrezione e anche praticità, ci siamo detti. Ci conosciamo da così tanti anni che credo sia impossibile avere un qualche pudore oramai. Hanna è l'unica donna dopo Louise che è riuscita a ritagliarsi uno spazio dentro alla mia vita, alla mia dannata routine marziale e al gelo perenne apparente con cui mi piace vestirmi.
Per quello poi succedono cose tipo questa. Lei che mi gira per casa, alle sei e trenta spaccate di orologio di una mattinata un po' nebbiosa, avvolta dalla sua vestaglia in raso azzurro pallido che mi deconcentra in maniera disturbante.
Le ho già lanciato due o tre occhiate di troppo, sbagliando l'altezza del nodo della mia cravatta nell'esatto momento in cui si è seduta e la vestaglia si è aperta, svelando le sue gambe nude.
Da quando Hanna ha gambe così lunghe? Sembrano due autostrade.
Merda. Farò tardi se continuo a perdere tempo così.
«Lascia.» sento il suo odore dolce in un mix di floreale e fruttato un po' spento, come un residuo flebile onnipresente sulla sua pelle. Le sue mani mi carezzano la giacca e il colletto della camicia. «Ti puoi sedere? Sei troppo alto.»
È completamente struccata, si è svegliata da poco ed è ancora calda, quel caldo tipico delle coperte accoglienti ed avvolgenti. Mi vado a sedere su uno degli sgabelli dell'isola della cucina con le gambe un po' divaricate e lei si insinua nello spazio che si è venuto a creare, sciogliendo quel disastro che è la mia cravatta. Solleva il colletto e disciplina la stoffa pregiata prima di farcela scivolare contro, in una danza delicata di mani e gesti abili.
Io la guardo un po' mentre è concentrata nel cercare le lunghezze adatte. Sembra così assorta, è tutto così familiare che è quasi disturbante. È tutto così fottutamente rilassante, bello, che non sento di meritarmelo. L'impulso a scappare lontano ce l'ho, per un istante risuona nel mio cervello di maschio mediamente coglione ed impreparato.
«Lo sai che fai un sacco di rumore?»
«Mh?» ma in che senso che non ho manco parlato.
«Quando pensi.» annoda la cravatta, facendo fare un primo giro alla stoffa. «Sei un sacco rumoroso, Thom.» angola un sorriso intimo, di quel tipo che ti urlano che sono solo per te. Solo ed esclusivamente per te.
Lei è solo per me. Wow. A questa cosa non sono preparato.
«Sì?» le carezzo i fianchi con le mani.
«Mh mh.» annuisce anche, abbassando il colletto e sistemandolo contro la cravatta adesso annodata alla perfezione.
«E che rumore faccio?»
Scivola con le dita contro la pelle del mio collo lasciata scoperta dalla camicia, sistema la cravatta e poi mi prende il viso con entrambe le mani e lo guida verso di sé, baciandomi piano, pianissimo. «Il rumore di chi pensa troppo.»
«Troppo comodo, Beaumont.» me la attiro un po' contro, facendole fare quel misto di risata e sospiro che sembra fatto apposta per sciogliere anche i cuori marci come il mio.
«Troppo impiccione, Anderson.» scivola con le braccia contro le mie spalle. «Qualunque cosa sia, la risolvi. Tu risolvi sempre tutto.»
«E se non fossi capace, stavolta?»
«Vorrà dire che ti servirà solo più tempo.»
«Non dovresti fidarti così tanto di me.»
Mi fissa un po' pensierosa. «Perché tu sei quello brutto e cattivo sempre?» sorride come una novella Monna Lisa, tenendo per sé chissà che segreto o pensiero.
«Smettila.»
«Cosa.»
«Credici a quello che dico.»
Sospira. «Sai la differenza fra me e gli altri, Thom?» retorica, perché non me lo dà il tempo di rispondere. «Io non ti temo, ti rispetto. Non pretendo di cambiarti, vai bene così come sei.» mi carezza il viso e sospira pianissimo, dandomi qualche bacio dove capita. «Andiamo bene così come siamo. Qualunque cosa deciderai.»
Espiro lentamente, deposito la testa contro il suo petto e resto così, in silenzio, con lei vicino.
Perché non sei tornata prima? Perché non ci siamo trovati così prima? Perché devo essere io quello sbagliato per te e tu quella giusta per me?
-----------
Mi sembra di essere chiuso in questa sala riunioni da un'eternità. Abbiamo ripetuto le domande di accusa e difesa più e più volte, Mja sembra essere migliorata. Quanto meno non ha minacciato di levarsi una scarpa per lanciarmela in faccia, non ancora.
«Come sono andata questa volta?»
«Meglio. Sei ancora titubante quando presso.»
Mja arriccia il naso, insoddisfatta. «Non va bene.»
«Succede quando non sei abituata ad essere contraddetta.» segno qualcosa fra i miei fogli, appunti che mi serviranno per la mia arringa.
«Come scusa!?»
Alzo lo sguardo e la fisso. «Appunto.»
Lei sbuffa e sta per dire qualcosa quando bussano alla porta.
«Avanti.»
La figura di Hanna compare sull'uscio della porta, ha un sorriso cordiale e mi cerca subito con lo sguardo. Si trattiene, però, dal dire qualunque cosa nel momento in cui registra la presenza di Mja nella stanza.
«Oh, pardon.» entra di un passo all'interno della sala, accostando dietro di sé la porta. «Non intendevo disturbare, mi spiace.» mi guarda. «Passo dopo, Thom.»
Le faccio un cenno della mano. «Entra pure. Hanna conosci Mja?» indico Mja. «Mja Hamilton, lei è Hanna Beaumont, è un giudice federale che lavora per la corte distrettuale federale di Washington D.C.» indico Hanna ora «È qui in veste temporanea.» Hanna rientrerà a Washington non appena le mie dimissioni saranno effettive. A quel punto potrò curare altri affari che ho in sospeso nella Capitale e che riguardano anche suo padre. «Hanna, Mja Hamilton.»
Hanna osserva Mja per poi farle un sorriso cordiale. «Conosco Alexander, tuo fratello. Piacere di conoscerti.»
«Ah, sì?» Mja la fissa un po' con sospetto, posso sentire le rotelline degli ingranaggi che ha in testa girare e fare i collegamenti. «Piacere mio.» si stringono la mano e Hanna torna a guardarmi.
«Passo dopo, pensavo avessi finito.»
«È urgente?»
Lei tentenna appena, adocchiando Mja. «No, tranquillo.»
Mi raddrizzo sulla sedia, fissandola. Hanna è quel tipo di donna impermeabile, non lascia trasparire niente e quando dico niente, sono serio. Eppure con lo sguardo riusciamo a dirci quel che basta.
«Okay, ti accompagno fuori.» mi alzo prima che lei possa obiettare, affiancandola.
In maniera naturale per me, le poso una mano sulla schiena, ad altezza reni e le apro la porta, in modo che esca per prima.
«È stato bello incontrarti, Mja. Salutami Alexander quando lo senti, per favore.»
«Non mancherò, Giudice.» un cenno assertivo del capo, Mja ci sta scannerizzando che manco una tac farebbe uguale.
Accosto la porta e fisso Hanna.
«Scusami.» sembra a disagio.
«E per cosa?»
Indica la porta. «Pensavo avessi finito sul serio. Juliette non mi ha avvertita, altrimenti io...»
Porto una mano al suo viso e scivolo verso la sua nuca, avvicinandomi e flettendomi verso di lei per baciarla e farla stare zitta. Ci sguazzo nel fatto che posso fare un po' come mi pare, tanto i miei giorni lì dentro sono contati. E poi non c'è nessuno se non quella porta lasciata appena accostata.
«Hai finito?» la mia voce è un sussurro che vorrebbe rassicurarla. Lei invece rabbrividisce appena.
«Lo vedi che sei senza disciplina?» mi rimbecca, dandomi uno schiaffetto contro il braccio.
Rido piano. «Ma smettila. Sei nello studio di Sanders?»
«Seh.» schiocca la lingua contro il palato. «Thom, quell'uomo puzza di bara.»
«Puzza di bara.»
«Giuro.» scuote il capo. «Temo mi muoia davanti. Ma quanti anni ha? Centoquindici?» retorica.
«Non è così vecchio. Ne avrà sessantacinque a far tanto.»
Sembra scioccata. «Come se li porta male.»
«In effetti.» la guardo, non resisto all'impulso di carezzarle il viso. «Ci vediamo dopo? Passo a prenderti io.»
«Mi salvi da Sanders?» speranzosa.
«Chiaramente.»
«Bene, allora ti offrirò la cena Anderson!» ha riacquistato il sorriso. «Ero venuta a dirti che mio padre ha chiamato. Per quel favore che ti serviva.»
«Ha trovato il posto?»
«Sì. Lo ha bloccato finché non ci vediamo a Washington. Ovviamente sei invitato a cena, mamma non vede l'ora di rivederti. Ora ti lascio prima che anche i muri si animino e inizino a spettegolare.» smuove le mani e mi fissa. «Tu odi questa cravatta, pure stamattina era storta.» me la sistema con un paio di tocchi, indispettita.
«È un regalo di Jacob.»
«Ora si spiega tutto.» mi fa un occhiolino prima di voltarsi ed andarsene.
La seguo per qualche istante, almeno finché non svolta in corridoio e sparisce dalla mia vista. Mi liscio la cravatta ancora una volta, ritornando nella sala riunioni e chiudendo bene la porta questa volta.
Lo sguardo i Mja è un misto fra accusa, dispiacere e curiosità e, da questo, deduco che abbia sentito tutto.
«Non mi interessa con chi esci.» non appena la guardo, sente il bisogno di dirmelo.
«Si vede.» che no – aggiungo mentalmente.
«Infatti.» asciutta, mi fissa bellicosa e si stringe le braccia incrociate contro il busto. «Non è affar mio.» ripete.
A chi lo stai dicendo, Mja? A me, o a te stessa? Perché non si capisce.
Torno seduto, riprendo la penna e ostento una tranquillità che, una volta tanto, ho per davvero. «Sei tu che ne stai ancora parlando.»
Mi fulmina con lo sguardo e la vedo che si sta mordendo la lingua, nemmeno volesse dirmi chissà cosa.
La lascio perdere, mi concentro su quello che ho da scrivere piuttosto. Non ho le forze mentali per affrontare le paranoie e film mentali di quella che, ricordiamoci, è la compagna di mio fratello. Ama lui, sta con lui, vive con lui. Da me cosa vuoi, Mja?
Nemmeno avesse sentito il mio discorso interiore, sento il suo sguardo addosso.
«Sei felice?»
«Nemmeno questo dovrebbe interessarti, Mja.» lo dico senza alzare lo sguardo dal foglio dove sto scrivendo alcune parole chiave che mi serviranno per imbastire l'arringa.
Lei sta zitta, ma la sento che mi fissa. Eccome se mi sta fissando.
«Ma io voglio saperlo.» è tornata alla carica. «Sei diverso.»
Diverso? Io? Solo perché non sono incazzato, una volta tanto, sono diverso.
«Mja.» la richiamo, sperando che basti a placarla.
«Voglio saperlo.» mi ripete, ostinata.
Poso la penna sul blocco, alzo lo sguardo ed adagio le spalle allo schienale della poltroncina, espirando pesantemente.
«E allora chiediti il perché.» perché vuoi sapere di me. Cosa ti cambia? Finora non ti è importato nulla. Perché ora è così indispensabile. Perché adesso che hai visto Hanna, poi.
«Io sto chiedendo a te, perché fai domande a me?»
«Perché ti servono.»
«Anche a me le tue risposte servono.»
«E questo è un bel problema.» mi guarda, interrogativa. «Perché non intendo rispondere.»
Sbuffa un respiro esasperato. «Sei impossibile.»
«Può essere.»
Mi fissa. «Voglio solo sapere se stai bene.»
Adesso, Mja. Adesso te lo chiedi?
Mi indico. «Sto benissimo. Non si vede?»
Annuisce piano. «Sì, si vede.»
Perché ci sia una punta di amarezza in quella risposta, è una risposta quasi ovvia per me.
Ecco Mja, ora sai che significa sentirsi in ritardo, benvenuta nel mio mondo.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top