29-𝓜𝓮𝓶𝓸𝓻𝓲𝓮 𝓹𝓮𝓻𝓭𝓾𝓽𝓮
Ogni volta che tu mi penserai, io sarò con te, con il cuore, anche se avrà cessato di battere, mio piccolo uragano!
Mio padre!
Non poteva essere vero. Lui non era mai stato l'amante di quella donna immonda che aveva tentato di farmi commettere un grosso peccato con due uomini.
Lei aveva fatto ogni tipo di sortilegio perché io mi concedessi a due sconosciuti e lui, il mio amato padre, non poteva essere la stessa persona che aveva perso la testa per quella donna, tradendo la sua famiglia e la mia adorata madre. Non era possibile.
È stato mio padre a distruggerla dopo la mia nascita?
È per questo che Rahel non riusciva a prendersi cura di un fagotto in fasce?
Più ci pensavo e più tutto tornava. Mia madre sapeva, conosceva la storia, aveva passato tanto, troppo tempo ad auto distruggersi per poterlo perdonare. Era riuscita a mettere noi al primo posto, senza farci sospettare di nulla, durante gli anni successivi.
Sembravano la coppia dalla quale prendere esempio. Un amore indissolubile, il loro. Era tutta una stronzata.
Con le lacrime agli occhi e lame affilate nel cuore, decisi di cercare l'unico che avrebbe potuto distrarmi, fino a quando non avrei capito cosa fare e come farlo.
Uscii dalla stanza, dopo essermi vestita, cercai di raggiungere il giardino nel più completo silenzio. Stavo dimenticando qualcosa, ma la mia testa era altrove. Non riuscivo a pensare ad altro.
Mio padre era un traditore!
Una volta prese le scale mi resi conto che, nel salone centrale, al piano di sotto, qualcuno parlava sottovoce.
Se pensavano di tenermi nascosto altro, stavano sbagliando persona e modi, soprattutto.
Mi feci piccola nel sottoscala, strinsi le spalle e trattenni il respiro, per un attimo.
«Signor Killian, perdonatemi, a me sembra il momento. Prima o poi verrà a saperlo.»
Sapevo che stavano parlando di me, avevo fatto bene a fermarmi per origliare.
«Ester, avrei dovuto dirlo subito, ormai è troppo tardi.» La voce di Killian si alzò di qualche tono. «Qualunque cosa io possa dire o fare, non mi perdonerà tanto facilmente.»
«Ascoltatemi, per una buona volta.» Ester sembrava trattenersi, esasperata dalla testardaggine di quell'uomo. «Voi amate profondamente quella ragazza, vi amate, entrambi. Volete arrivare all'altare tenendola all'oscuro di segreti così oscuri?»
Al suono di quelle parole, il mondo mi crollò addosso. Mi sentii stringere il cuore e salire un forte senso di nausea.
Killian è innamorato e deve sposarsi?
No, non stavano parlando di me, affatto.
Quel pensiero mi ribollì in testa, provocandomi uno stato di stordimento, ancora più profondo, che mi portò a non fare la minima attenzione, mentre uscivo da sotto quella scala, il più in fretta possibile.
Non sapevo se si fossero accorti o meno della mia presenza, non mi importava, come non fregava nulla alle mie lacrime di rimanere incastrate negli occhi. Scesero ingenue, senza preoccuparsi di farmi lo stesso male che stavo ricevendo da giorni.
Avevo bisogno di mia madre. Sentivo sempre di più la necessità di vedere le mie sorelle, di toccarle, sapere che stavano bene e di sfogarmi fino a tarda notte davanti a quel cucinino in disuso, mentre bevevamo quel disgustoso, ma profumato tè al frangipane che sapeva di acqua sporca al sentore di fiori.
Chiusa nei miei pensieri non mi accorsi di essere arrivata alle stalle. Fu Orio, con il suo nitrito, a destarmi. Mi avvicinai a lui che sembrava felice di vedermi, lo accarezzai sul suo lungo muso nero e lui si prese tutte le coccole.
«Dov'è Lantus, testa calda.» Sorrisi, poggiando il viso sul suo manto liscio. Ero consapevole che non poteva rispondermi, ma nitrì, mentre spostava più volte il muso di lato come a indicarmi dove fosse il lupo.
Guardai in quella direzione e Lantus era lì, a poltrire. Certo che come lupo da guardia non si poteva fare affidamento.
«Lantus!» lo chiamai.
Mosse le orecchie per spostare la voce che disturbava il suo sonno.
«Lantus, dai, non mi saluti?»
Si voltò di scatto, nel momento in cui capì che quella stessa voce che lo infastidiva era reale, invece.
Alzandosi ebbe quasi un cedimento, ma mi corrse incontro, con la coda che tirava schiaffi al vento in ogni direzione.
«Aledis, sei qui! Sei tornata da me, finalmente.»
La stazza di quel lupo che diventava sempre più grande a ogni falcata, mi sovrastò nel momento in cui me lo trovai faccia a faccia.
La sua enorme lingua mi travolse, mi fece una doccia di saliva che avrei dovuto lavare di lì a breve.
«Lantus, smettila, mi stai inzuppando anche i capelli!» Non riuscivo a smettere di ridere per il solletico e per la felicità che provavamo nel rivederci.
«Come stai? Che ti hanno fatto? Sei viva, tu sei viva!» Prese ad annusarmi e girare intorno alla mia figura per controllare ogni più piccolo frammento di pelle scoperta. «Non hai graffi, mi sembra. Non ne hai, vero?» chiese preoccupato, senza provare a guardarmi in volto.
«Ehi, ehi, lupacchiotto,» Lo strinsi forte dal muso, con entrambe le mani, per arrestare la sua ansia «sto bene, calmati. Non sono ferita.» Tentai di tranquillizzarlo.
«Stai bene? Aledis, mi sembra che durante il nostro ultimo contatto tu stessi scappando. Come fai a dire che stai bene?» Fece uno scatto all'indietro per liberarsi dalla mia presa. «Fammi controllare meglio.»
Avevo sempre preteso la verità e, per quanto la sua agitazione riusciva ad arrivarmi nel cuore e farmi seguire i battiti del suo, dovevo essere sincera.
«Lantus, non sono le ferite esterne a fare male. Di quelle non ne ho.» dissi tutto a un fiato. «È qui...» Accarezzai la sua zampa, prima di portarmela sul petto. «È proprio qui dentro che sanguino.»
«Devo dire a Killian di portarti subito da un guaritore per arrestare l'emorragia!»
Non aveva capito che la ferita più profonda era quella dell'anima. Quella stessa ferita che mi faceva sentire sporca e inutile. Non aveva la minima intenzione di richiudersi, ma si allargava ogni secondo passato a pensare a ciò che avevo subìto e a tutte le menzogne di mio padre, anche se non riuscivo a provare odio nei suoi confronti, solo tanto rancore.
Non posso più dirgli quanto mi ha fatto male e quanto i suoi gesti mi abbiano delusa. Non potrò avere il modo di sgridarlo, come lui faceva con me quando combinavo qualche marachella.
«Al, chi non potrai sgridare?»
Alcune volte mi capitava di dimenticare che Lantus poteva leggermi nei pensieri più profondi.
«Mio padre!» Non avrei potuto nasconderlo ancora. Mi stesi sul prato e osservai le mie peonie, per tentare di riprendere il respiro che stavo perdendo. «Ecco, vedi, lui è morto e io pensavo avessimo una famiglia perfetta, ricca d'amore.» Una lacrima mi rigò il viso e Lantus si accovacciò accanto a me per raccoglierla con una delicata leccata. «Vivevo nel mio mondo fatato, e invece... lui ci stava tradendo.»
«Vedi, uragano...» Al suono di quel nomignolo il mio cuore perse un battito, ma sorrisi, mi aveva chiamata altre volte in quel modo, «spesso succede che la vita non è proprio come immaginavamo. Non ne conosciamo tutte le sfaccettature, ma questo, non deve portarci a giudicare le azioni degli altri, senza conoscerne tutta la storia. Ci sono delle cose che devono restare nascoste in fondo al nostro cuore, perché potrebbero risultare armi pericolose e uccidere le persone che amiamo.»
«Quindi, mi stai dicendo, che la verità non è sempre un bene?» chiesi, stupita dalla sua affermazione.
«Dipende, Aledis. Penso solo che tu non possa permetterti di giudicare. Le persone, e non parlo solo degli esseri umani, hanno il diritto di sbagliare, ma anche di redimersi.» Era vero, io non sapevo niente di quel burbero di mio padre e di ciò che aveveva passato. «E se anche sbagliano, quell'errore, non li rende cattivi, ma gli regala una sorta di umanità che non fa altro che renderli speciali, chi più, chi meno.»
«E se non fossero poi così speciali, lupacchiotto?» domandai, mentre lo accarezzavo sul testone.
«Io sono dell'idea che sia la somma dei nostri sbagli e come siamo pronti a rimediare a loro che ci rende speciali, in fondo.»
Chi avrebbe mai pensato che Lantus potesse darmi dei consigli così profondi? Lui che non pensava ad altro che a mangiare, a dormire e a farsi fare i grattini. E invece... era più saggio di quanto credessi.
«Sei tu quello speciale, Lantus, lo sai?»
Sollevò il muso dal prato e io mi sentii piena di ogni forma di affetto. Quel dolore che provavo nel petto sembrava essersi affievolito.
«Sì, lo so!» rispose compiaciuto. «Ora potresti grattarmi le chiappette?»
Era a dir poco adorabile quanto snervante.
«Sai dov'è Raith?» chiesi, mentre realizzavo il suo desiderio.
«No, ma se mi grattassi sotto al collo te ne sarei grato.» Lo disse, abbassando il tono della voce, come volesse nascondersi da orecchie indiscrete.
Mi sembrò strano, visto che lo sentivo solo io dentro la mia testa, forse.
Accarezzando, sotto quel folto pelo, sentii che aveva un collare.
«E questo? Da quando ce l'hai?» evitai di dirlo a voce alta per seguire il suo modo di fare.
«Da quando sei arrivata tu.» rispose calmo, guardandosi intorno. «Accarezza proprio sotto il muso, Al»
Non appena lo feci, capii che voleva che io trovassi qualcosa.
«È una chiave? Per cosa?»
«È la chiave che apre la porta di ciò che ti serve per avere la tua risposta, forse»
Finalmente ricordai cosa dovevo fare.
La stanza degli arsenali!
Dovevo trovare la boccetta che Clelia mi aveva detto di cercare.
Staccai la chiave e mi alzai di scatto, passando dal magnifico giardino di peonie che parve accarezzarmi, senza premurarmi di ringraziare Lantus per il suo gesto. Un gesto che avrebbe potuto costargli molto caro.
Una volta entrata in casa e salite le scale, non mi preoccupai di controllare che non ci fosse nessuno e mi avviai diretta verso quella stanza.
«Dove vai?» mi fermò la voce di Killian che rimbombò nel corridoio.
«Nella mia stanza, Signore.» risposi senza voltarmi.
Sentii il rumore dei suoi passi sempre più vicini, fino a quando non mi agganciò per i fianchi, con una presa salda.
«Credo che dovremmo parlare, Cappuccetto.» soffiò, avvicinandosi al mio orecchio.
«E io, invece, credo che non abbiamo nulla da dirci, Killian.»
Ero arrabbiata, sul serio.
L'immagine delle sue spalle che andavano via, sbattendomi la porta in faccia dopo avermi detto di mio padre, era ancora troppo vivida per riuscire ad avere una comunicazione con lui.
«Ti ho fatto male, lo so.» ammise «Non avrei dovuto comportarmi in quel modo. Dovevo stare con te, dopo quello che ti ho rivelato.» Quel suo tono caldo mi stava facendo distrarre dal mio intento, ma non potevo neanche dimenticare quello che avevo sentito mentre origliavo la sua conversazione con Ester.
«Tu ti devi sposare, cazzo!» mi voltai, strinsi la chiave in mano per non fargliela vedere e, con l'altra, lo spinsi per cercare di allontanarlo.
«Ma che dici?» finse di non capire.
«Cosa dico, Signore?» urlai, mentre gli puntavo il dito davanti la faccia. «Tu sei un bugiardo. Non mi hai detto che sei innamorato, per questo mi hai rifiutata tutte quelle volte.» Ero così nervosa che avrei voluto togliere quella chiave e ficcargliela in un occhio. «Mi sono sentita così umiliata, quando bastava dire che c'era un'altra donna nella tua vita, non mi sarei permessa di sfiorarti.»
«Forse è meglio che prima ti calmi, Cappuccetto, e dopo potremmo anche parlare.» disse, mantenendo una calma irreale. «In queste condizioni appiccherei un incendio.»
Se ne andò, un'altra volta, non sapeva fare altro che voltarmi le spalle e andare via da me, da noi.
Non appena si chiuse nella sua stanza, mi girai verso quella dannata porta che avrebbe dovuto offrirmi una verità, forse la mia, non ne ero certa, ma qualcosa continuava a dirmi che, lì dentro, Killian nascondeva più di una sola bugia.
Infilai la chiave nella fessura, con le mani che tremavano. Non mi importava di essere scoperta, ma ero terrorizzata da cosa potesse contenere quella stanza.
Quando aprii la porta, capii subito che anche la storia degli arsenali era tutta una stronzata.
Quella camera era una vera e propria biblioteca. Non avevo idea di quanti libri potesse contenere, non si potevano neanche contare. Girai su me stessa per guardare ogni più piccola meraviglia di quel posto. Avrei voluto prenderli e iniziare a leggere di giorno, di notte, a tutte le ore, per evadere dalla sofferenza che mi opprimeva.
Tutto era in legno. Scaffali alti con ripiani ben ordinati e libri allineati alla perfezione, una di quelle quasi maniacali dove non vi era neanche un granello di polvere, né sui mobili, nè sui testi letterari. Due comode poltrone marroni, con accanto un piccolo tavolo dove vi era poggiato un lumino, parevano chiamarmi per poter tastare con mano quanto potessero essere comode.
Non persi tempo, però.
Mi concentrai sul mio scopo.
Dovevo trovare quella maledetta boccetta e capire perché Clelia aveva avuto tanta premura nel dirmi di cercarla.
Iniziai a rovistare nell'unico mobile provvisto di molti cassetti. Era tutto pieno di cianfrusaglie di poco conto, ma poteva essersi sbagliata quella donna.
Stufa di controllare, sprofondai su quella confortevole poltrona e chiusi gli occhi. Quando li riaprii, notai che in alto, proprio accanto a una pila di libri posizionati uno sopra l'altro, c'era un piccolo porta gioie in tinta con i colori del legno della stanza.
Non sapevo come arrivarci, quando vidi una scala nascosta dietro la porta. Era una di quelle scale che scorrevano, con dei marchingegni strani, per tutta la parete dei libri. La portai davanti a quello scaffare e salì, con non poca agitazione, gli scalini.
Mi tremavano anche le gambe.
Afferrai quel contenitore e non appena riuscii a toccare il pavimento, lo aprii.
La boccetta dal liquido blu era lì dentro, per davvero.
Era bellissima, quasi irreale. Quella soluzione era luminosa, ma non accecava. L'afferrai, come fosse un oggetto prezioso e iniziai a osservarla. La sua forma tonda dal collo allungato, mi ricordava le ampolle degli incantesimi delle streghe, quelle che vedevo disegnate sui libri.
Strizzai gli occhi in due fessure e mi incantai a guardarne il contenuto. Il liquido iniziò a muoversi, come le onde di un mare calmo che accarezzavano la sabbia e, poco a poco, delle immagini presero vita.
Mi estraniai dalla realtà e venni catapultata nel piccolo mondo che conteneva quell'ampolla.
Era Airsa e la sua meravigliosa foresta, di notte. Quella stessa foresta che mi aveva regalato gioie e dolori, soprattutto cibo, però. C'era un cerbiatto, un piccolo cerbiatto indifeso. Era come se stessi vivendo attraverso gli occhi di un'altra persona. La stessa che aveva un arco in mano, la stessa che sentiva una fame che trafiggeva il respiro. A un tratto, un mostro fece la sua apparizione e sentii la paura crescere per trovare la sua strada e arrivare a toccare tutti i punti del mio corpo, del corpo della persona che guardava la scena. Una paura che riconoscevo, che sembrava anche la mia. Quel mostro era un Killiuk, era Raith. Il mio Raith. Si fissarono negli occhi, quei due. Il mostro scappò portandosi via il cerbiatto.
Stavo osservando una scena che mi sembrava di aver vissuto, ma non mi apparteneva.
Quella boccetta mi stava mostrando dei ricordi di un estraneo.
La luna era alta nel cielo, vicino all'immensa montagna di Airsa c'era un lupo. Non uno qualsiasi, ma Lantus e aveva appena assassinato un cervo adulto. E poi, un uomo alle spalle di quella persona.
«Ti ho trovata... umana? Cosa stai facendo?»
Era la voce di Killian.
«Mi hai fatto saltare la cena, sei contento ora?»
La risposta, invece, proveniva dalla mia di voce.
Quello che avrei dovuto fare, d'un tratto, divenne chiaro.
Mi riscossi da quell'incanto e fu come svegliarsi da un sogno. Aprii la boccetta e ne traccanai il contenuto.
Altre immagini, altri suoni, altre voci passarono nella mia mente. Un gioco infinito di luci che mi portò a crollare sul pavimento. La boccetta si ruppe e con lei anche il mio cuore già lesionato.
Finalmente, ricordavo tutto!
💥 Buonasera, piccoli cuzZoli. Siamo arrivati al momento della prima grande verità, su Killian e ciò che nasconde.
Ricorderete l'esperienza di Aledis nel primo capitolo. Lei, a quanto pare, non la ricordava affatto, ma tutto verrà spiegato meglio nel prossimo capitolo. Volete sapere anche voi?
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