SECRETS; PARTE UNO (GRACEY)


Le urla di Ashley sono così forti che percepisco già i primi sintomi di un terribile mal di testa, ed a nulla servono i palmi delle mie mani premuti con forza contro le orecchie.

"Fammi capire, perché credo che mi sia sfuggito qualche piccolo passaggio" grida ancora, ormai completamente fuori di sé dalla rabbia "non solo sei scomparsa tutto il giorno, non solo hai ignorato la mia chiamata ed hai spento il cellulare, ma sei andata a casa di quell'uomo, hai trascorso la serata in sua compagnia e lo hai baciato? Lo hai davvero baciato?"

"Ed io ti ripeto, per l'ennesima volta, che sono andata da lui perché era ciò che mi sentivo di fare in quel momento. Avevo bisogno di parlare con qualcuno"

"Ed hai pensato di andare da lui, anziché venire da me, che sono la tua migliore amica?"

"Non ragionavo con lucidità, cerca di capirmi"

"Ohh, questa è la prima frase sensata che ti sento dire da diverso tempo" commenta, allora, ridendo nervosamente; e la situazione generale peggiora ulteriormente quando si accorge che i vestiti che indosso, e che non ho ancora avuto occasione di cambiare, non mi appartengono "quella felpa e quei pantaloni sono suoi? Perché indossi i suoi vestiti? I tuoi dove sono? Perché ti sei spogliata?"

"Non è come pensi, non farti strane idee: pioveva, i miei erano completamente zuppi d'acqua e Theodore mi ha dato dei vestiti puliti e asciutti"

"Visto che hai la risposta sempre pronta, vuoi spiegarmi perché cazzo sei andata a casa sua?"

"Non so più in che modo dirtelo, cavolo!" esclamo, ormai esasperata dall'insistenza della mia coinquilina, soprattutto perché io per prima ancora non so dare una risposta a questa domanda; alzo gli occhi al soffitto e poi appoggio la fronte sul legno del bancone a penisola, rivivendo il bacio nella mia mente "quando sono uscita dallo Studio ho trascorso l'intero pomeriggio al parco, e quando ha iniziato a piovere mi sono alzata dalla panchina per tornare a casa, ma i miei piedi mi hanno fatto percorrere una strada completamente diversa. Io volevo tornare qui, te lo giuro, ma senza rendermene conto mi sono ritrovata davanti alla porta di casa sua. Abbiamo parlato per un po', poi c'è stato il blackout e Theodore ha fatto quel discorso riguardo all'essere speciali... Non è stata una cosa programmata, non sono andata da lui con l'intenzione di baciarlo, te lo giuro, ho perso la testa e ho agito d'impulso... E questa volta ho combinato un vero e proprio casino"

"Riguardo a due cose hai ragione: hai perso la testa ed hai combinato un vero e proprio casino. Mi auguro che d'ora in poi inizierai ad ascoltare i miei consigli".

Il cellulare m'impedisce di dare una risposta affermativa alla mia migliore amica; spalanco gli occhi perché si tratta proprio dell'ex compagno di mia madre: mi aspettavo una sua chiamata, ma non così presto, non adesso che devo ancora focalizzare appieno tutto quello che è successo.

Rivolgo una muta richiesta d'aiuto ad Ashley, perché sono completamente nel panico.

"Che cosa faccio? Rispondo?"

"Ignora la chiamata e butta il cellulare fuori da una finestra, così non potrà più rintracciarti"

"Stupida" borbotto, infastidita dal suo commento acido; prendo un profondo sospiro, avvicino l'apparecchio tecnologico al mio orecchio sinistro e schiaccio il tasto verde, rispondendo alla chiamata "pronto?".

Ogni mia paura scivola rapidamente via perché Theodore non accenna minimamente al bacio che gli ho rubato, anzi, la sua voce agitata mi rivolge una richiesta che mi lascia spiazzata.

"Gracey, potresti venire subito qui? Si tratta di un emergenza" mi chiede, e dai rumori che sento in sottofondo capisco che sta cercando qualcosa, probabilmente dei vestiti, dentro all'armadio o dentro alcuni cassetti.

"D'accordo" rispondo, confusa, ignorando le occhiatacce di Ashley "ma che cosa è successo? Benjamin sta male?"

"Adesso non posso parlare, quando verrai qui ti spiegherò tutto. Per favore, Gracey, si tratta davvero di un'emergenza"

"D'accordo, d'accordo, ho capito. Arrivo subito" mi affretto a dire, per tranquillizzarlo, prima di chiudere la chiamata per non fargli perdere altro tempo prezioso; osservo per qualche istante il cellulare e, dopo averlo riposto in una tasca dei pantaloni, riassumo velocemente il contenuto della telefonata alla mia coinquilina "devo andare subito da lui, ha detto che si tratta di un'emergenza"

"Ohh, no! Non se ne parla nemmeno! Tu non vai da nessuna parte, tantomeno a casa di quell'uomo" s'impunta lei, appoggiando le mani sui fianchi: la stessa, identica, posizione che assume mia madre ogni volta che deve sgridare me o mio fratello "non gli devi niente, soprattutto adesso che si sta comportando in modo orribile nei tuoi confronti! Ma non capisci che ti sta usando perché sa che hai un debole per lui? Sta approfittando della tua gentilezza, ma tu sei troppo ingenua per accorgertene"

"Ti posso assicurare che non era una recita quella di poco fa, era davvero agitato, e non avrebbe mai fatto quella telefonata se non ci fosse una vera emergenza"

"Io continuo a non cambiare idea, ed a pensare che questa faccenda finirà molto, molto, molto male".

La minaccia della mia migliore amica e coinquilina è l'ultima cosa che sento prima di chiudere la porta d'ingresso del nostro appartamento, e non le presto particolare attenzione: ormai ho perso il conto di tutte le volte che me l'ha ripetuta, e per me sono diventate parole vuote, quasi prime di senso; e poi, in questo momento, le mie priorità sono tutte racchiuse nella telefonata ansiosa di Theodore.

Raggiungo la sua villetta correndo, ignorando la fitta dolorosa al fianco destro, e spalanco la porta d'ingresso senza preoccuparmi di bussare o di suonare il campanello; salgo le scale che portano al piano superiore dell'abitazione e trovo l'ex compagno di mia madre in camera sua, impegnato a mettere dei vestiti dentro uno zaino.

Sposto lo sguardo dagli indumenti a lui e capisco subito che cosa sta accadendo.

"Stai partendo?"

"È successo un casino" mormora Theodore, superandomi velocemente.

Lo vedo entrare in bagno, prendere la pistola che custodisce dentro il cassetto di un mobile e nasconderla sotto la giacca in pelle che indossa, dentro un'apposita tasca, prima di tornare in camera e sistemare gli ultimi oggetti dentro lo zaino, il tutto davanti ai miei occhi sgranati.

"Perché hai appena preso la pistola? Che cosa è successo? Di quale casino stai parlando?"

"Io... Devo assentarmi da Chicago per qualche giorno, forse perfino per una settimana. Non so ancora per quanto tempo starò via, ma devo partire subito, ho il volo tra poche ore, e non posso lasciare Ben insieme ad una baby-sitter. Ecco perché ti ho chiesto di venire subito qui, Gracey, sei l'unica persona a cui posso chiedere questo favore: ho bisogno che ti occupi di mio figlio durante la mia assenza. Scusami per il poco preavviso, ma come ti ho già detto si tratta di un'emergenza"

"E dove devi andare?"

"Lontano"

"Lontano? Che cosa significa che devi andare lontano? Quanto lontano da qui?"

"Molto. Nello Yemen"

"Nello Yemen?" ripeto, con voce acuta, ritrovandomi quasi ad urlare "non puoi andare là. C'è la guerra civile... C'è l'ISIL... Per quale motivo devi andare nello Yemen?"

"Credimi, Gracey, non sono affatto ansioso di andare in uno Stato assediato dai terroristi, ma non ho altra scelta. Si tratta di una faccenda molto più grande di me e di te. Una faccenda in cui, mio malgrado, sono completamente coinvolto ed a cui non posso sottrarmi. E poi, non posso permetterle di andare là da sola".

Nella foga di rispondere alle mie domande e di preparare il suo bagaglio, l'ex compagno di mia madre si lascia scappare dei particolari in più, e lo dimostra il modo in cui si morde la punta della lingua; ma il danno ormai è fatto, e lo incalzo nuovamente con altre domande.

"Di chi stai parlando? Chi è questa donna? La madre di Ben?"

"No, è Sara" borbotta, uscendo dalla stanza.

Esco a mia volta dalla camera da letto, sbattendo con forza la porta, e lo seguo nel salotto, senza dargli un attimo di tregua, perché le riposte che mi ha dato non mi bastano.

In realtà non hanno fatto altro che confondermi ulteriormente.

"Sara? La madre di Mike? Per quale motivo devi andare con lei nello Yemen?" mi blocco all'improvviso, quando lui è ormai vicino alla porta che conduce al garage, ripensando ad un sospetto che Benjamin ha condiviso con me non molto tempo prima "tu e lei vi conoscevate già, vero? C'è stato qualcosa tra voi due in passato, ma tu non vuoi parlarmene, ho indovinato?".

Lo sento sospirare, rassegnato, si allontana dalla porta del garage e mi raggiunge, appoggiandomi entrambe le mani sulle guance e guardandomi negli occhi, riflettendosi nei miei lucidi di lacrime, provocate non dalla tristezza, ma bensì dalla rabbia per tutti i segreti che continua ad avere con me.

"Ti posso assicurare che l'intera faccenda è molto più complicata di così, Gracey, e ci sono tantissimi punti oscuri che io per primo non riesco ancora a capire. Ed io spero di trovare le risposte che mi mancano con questo viaggio. Si, io e Sara ci conosciamo da anni, ma tra noi due non c'è mai stato qualcosa. Ti prometto che al mio ritorno ti spiegherò ogni singola cosa, ma adesso devo andare o rischio di perdere il volo, Gracey, e la posta in gioco è davvero altissima... Va bene?".

Annuisco con il capo e, senza dire una sola parola, lo lascio partire.

Qualche minuto più tardi, quando vedo la Mustang nera imboccare la strada e allontanarsi, scoppio in un pianto disperato, perché l'ultima volta che è uscito con la pistola è tornato con un foro di proiettile nella spalla destra.

E ora che deve recarsi in uno Stato sconvolto dalla guerra civile, ho veramente paura, e tremo al solo pensiero di non vederlo tornare indietro.



Non è mai semplice reprimere le proprie emozioni, soprattutto quando si tratta di casi come questo, ma sono costretta a farlo ed a ricacciare indietro anche le lacrime per non trasmettere la mia stessa preoccupazione a Benjamin; e quando lo vedo uscire da scuola e scendere i scalini, lo saluto con il miglior sorriso che riesco a fare.

Lui, però, non ricambia ed i suoi occhi azzurri si socchiudono, in un'espressione sospettosa, perché ha già fiutato qualcosa.

"Mi devo preoccupare?" mi domanda, infatti, stringendo le manine attorno alle cinghie dello zaino "ogni volta che mi vieni a prendere a scuola significa che è successo qualcosa a Theodore. È in ospedale? Ha avuto un incidente? Qualcun altro gli ha sparato?"

"No, Ben, non è successo nulla di tutto questo. Quando saremo a casa ti spiegherò tutto" mormoro con dolcezza; e mantengo la promessa dopo avergli preparato un bicchiere di succo d'arancia ed un panino al burro d'arachidi come merenda "tuo padre è dovuto partire a causa di un'emergenza e dovrà stare via per qualche giorno. Durante la sua assenza mi occuperò io di te, non ti devi preoccupare di nulla"

"Tutto qui?" mi chiede, attaccando il panino con un primo morso "non ha detto altro?"

"No, Benjamin" rispondo, preferendo omettere la parte in cui Theodore mi ha confermato di conoscere Sara da diversi anni "ma come ti ho detto non c'è nulla di cui preoccuparsi: tuo padre starà via qualche giorno, e sono sicura che al suo ritorno avrà un piccolo regalo per te"

"Non m'importa del regalo!" esclama, dando sfogo al suo lato più testardo "come posso non preoccuparmi se mi dici che è dovuto partire per un'emergenza e non ha voluto darti delle spiegazioni? L'ultima volta che è uscito per un appuntamento è tornato con una ferita sanguinante!"

"Non agitarti, lo sai che non fa bene alla tua salute. Non vorrai costringermi a chiamare tuo padre dall'ospedale per dirgli che hai avuto un attacco di asma, vero? Lo sai che si preoccuperebbe moltissimo"

"Lo so, è già successo una volta" mormora il ragazzino; soffia fuori l'aria dalle labbra socchiuse, lottando inutilmente contro un ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte, e solo dopo qualche secondo di lotta con le mani riesce a lisciarlo all'indietro.

La tregua, però, dura appena un battito di ciglia perché il ciuffo, inesorabilmente, ricade di nuovo sulla fronte.

L'intera scena è così buffa da farmi scoppiare a ridere e dimenticare momentaneamente la mia ansia per Theodore; ci penso io, con un gesto dolce, a sistemargli i capelli e ne approfitto per inventare una piccola bugia al fine di rassicurare Benjamin.

"Credo di sapere dove sia andato tuo padre: poco tempo fa mi ha parlato di una persona a lui molto cara che si trova in una clinica privata, perché purtroppo è molto malata. Sono sicura che ha ricevuto una telefonata proprio dalla clinica, e questo spiegherebbe la sua agitazione e la sua partenza frettolosa. E soprattutto spiegherebbe perché non ha voluto dirmi quasi nulla, visto che per lui si tratta di una questione molto delicata, Benjamin"

"E questa persona chi è?"

"Tua nonna"

"Ohh!" esclama, senza aggiungere altro, ingurgitando quello che resta della sua merenda e del succo d'arancia.

Non so se sono riuscita a convincerlo appieno, ma per tutto il resto del giorno non mi domanda più nulla riguardo a suo padre, ed il giorno seguente, dal momento che non deve andare a scuola, decido di organizzargli una piccola sorpresa per distrarre sia me che lui: lo porto prima al cinema e poi in un fast-food per pranzare.

"Allora? Sei contento della sorpresa che ti ho fatto?" domando, accomodandomi davanti a lui.

"Sì" risponde subito Benjamin, senza la minima esitazione, ma il mio sollievo dura appena il tempo del primo morso al panino perché torna subito all'attacco "Theodore ha chiamato o ha mandato qualche messaggio?"

"No, non l'ho mai sentito"

"E tu non hai provato a chiamarlo?"

"No, Ben, non ho provato a chiamarlo, e prima che tu possa chiedermelo: no, non ho provato neppure a mandargli un messaggio. Ti ho già spiegato che si trova in una situazione molto delicata, ed io non voglio importunarlo. Sono sicura che quando ne avrà la possibilità, sarà lui stesso a chiamarci"

"Dove si trova la clinica?"

"Molto lontano da qui"

"Quanto lontano?"

"In Alabama" rispondo, d'istinto, ricordandomi che Theodore è nato e cresciuto lì "sono molte ore di viaggio, probabilmente è arrivato da poco ed ora sta riposando. Vedrai che questa sera o domani mattina ci farà avere sue notizie. Ti stai preoccupando inutilmente e questo non fa bene alla tua salute, perché non pensi semplicemente a divertirti? Ti è piaciuto il film?"

"Sì, mi è piaciuto" mormora il ragazzino, giocando distrattamente con una patatina prima d'immergerla nel ketchup e mangiarla, ripetendo da capo l'intera operazione con un'altra "lo so che cosa stai facendo, anche se ho sette anni non sono uno stupido. Se non vuoi dirmi dove è andato Theodore, almeno vuoi rendermi partecipe di quello che sta accadendo tra voi due?"

"Riguardo a cosa dovrei renderti partecipe? Non sta accadendo nulla tra noi due" chiedo, bevendo un sorso di coca-cola; Benjamin solleva gli occhi dal sacchetto di patatine fritte e mi rivolge uno sguardo risentito, che accentua la sua somiglianza con il padre.

"Ti ho già detto che non sono uno stupido, non trattarmi come tale! So che è successo qualcosa il giorno del servizio fotografico, perché Theodore è tornato troppo presto per aver trascorso una cena a lume di candela insieme a te, ed aveva un'espressione assente. E poi aveva con sé una busta di cibo da fast-food e sono convinto che fosse un tentativo di corruzione... Proprio come stai facendo tu in questo momento"

"Spiegami per quale motivo dovrei corrompere un ragazzino di sette anni"

"Non vuoi parlare di questo argomento, forse perché qualcosa non sta andando come speravi tu. Ma così facendo stai dimenticando un particolare importantissimo: io sono il tuo unico alleato e la persona più vicina a lui. Sono l'unico che ti può aiutare veramente ad ottenere qualcosa, ecco perché è una mossa stupida continuare a tenermi all'oscuro di quello che sta accadendo" mi spiega, tranquillamente, continuando l'attacco alle patatine fritte "voi adulti pensate sempre che noi bambini siamo degli stupidi con i paraocchi ed i paraorecchi, e invece è tutto l'opposto. Mike, per esempio, si è subito accorto che c'è qualcosa che non va tra sua madre e Jacob. Secondo lui il loro matrimonio è in crisi"

"E, secondo te, tuo padre c'entra in questa crisi?"

"Non lo so, non credo, ma se così fosse significherebbe che davvero lui e Sara si conoscono davvero da molto tempo. Però non credo che sarebbero una bella coppia, sono troppo diversi. Lei è troppo forte per lui, capisci che cosa intendo?"

"Sì, Benjamin, capisco fin troppo perfettamente ed è proprio questo a lasciarmi spiazzata" commento, sbattendo più volte le palpebre, incredula.

Non posso credere che un bambino di sette anni, con la bocca sporca di ketchup, mi stia impartendo delle lezioni riguardo alla vita ed all'amore.

"Perché non siete usciti fuori a cena? Che cosa è successo?"

"Non è successo assolutamente nulla, Ben. Ero stanca, volevo tornare a casa per riposare e Theodore si è gentilmente offerto di accompagnarmi"

"Allora vuoi raccontarmi che cosa è successo l'altra notte, quando siete rimasti a parlare sul divano?"

"Anche in quell'occasione non è successo assolutamente nulla. Abbiamo semplicemente parlato"

"Bugiarda" mi accusa Ben, sempre più risentito, perché si aspettava una risposta diversa da parte mia; ma non posso confessargli di aver detto a Theodore di essere innamorata di lui e di averlo baciato in un impeto che non sono riuscita a reprimere: anche se ha un'intelligenza ed una perspicacia fuori dalla media, si tratta comunque di un ragazzino che non ha neppure otto anni.

"Visto che sei così interessato alle questioni di cuore che riguardano noi grandi, scommetto che c'è qualche ragazzina a scuola che ha attirato la tua attenzione" commento, cercando di spostare l'attenzione altrove, ma Benjamin si limita a scuotere la testa, rifiutandosi di rispondere alla mia domanda, chiudendosi in un mutismo autoimposto che dura fino all'ora di cena.

Sono proprio i momenti come questo a preoccuparmi di più, perché ogni volta che Ben tace significa che nella sua piccola mente sta architettando una contromossa tanto tremenda quanto efficace.

"Io vado a letto" mormora, allontanando da sé il piatto ancora mezzo pieno "sono stanco"

"D'accordo, ma prima devi prendere la tua medicina" dico con un sospiro, preferendo non insistere perché so già che non riuscirei a convincerlo a mangiare un solo boccone in più; lo guardo prendere con diligenza una pastiglia bianca, mandandola giù con un sorso di acqua, e poi gli do il permesso di ritirarsi nella sua cameretta.

Benjamin esce dalla cucina, ma prima di sparire dal mio campo visivo si appoggia allo stipite della porta e mi rivolge spontaneamente la parola.

"Sai, non sei costretta a dormire sul divano. Se vuoi puoi usare la camera di Theodore, sono sicuro che lui non avrebbe nulla in contrario"

"Ti ringrazio, Ben, ma sono sicura che il divano andrà benissimo anche per questa notte" rispondo con un sorriso, augurandogli la buonanotte.

Mi occupo di sparecchiare la tavola e di lavare i piatti prima di sdraiarmi tra i morbidi cuscini del sofà, rifugiandomi sotto la stessa coperta che l'ex compagno di mia madre mi aveva offerto galantemente la notte in cui mi sono presentata alla porta d'ingresso con i vestiti completamente zuppi di pioggia; per qualche minuto scorro in modo distratto i vari canali che ci sono in TV, senza trovare nulla d'interessante, e quando finalmente trovo qualcosa che cattura la mia attenzione (e che consiste in un documentario sulla barriera corallina) non riesco a seguire le immagini e la narrazione, perché continuo a pensare a lui.

Ormai occupa interamente i miei pensieri.

Rivolgo un'occhiata in direzione delle scale, mordendomi il labbro inferiore, indecisa se cercare da sola delle risposte alle mie domande o se concentrarmi finalmente sul documentario ed attendere che sia Theodore in persona a darmele; alla fine è la curiosità a prevalere e, dopo aver spento la TV, mi alzo dal divano, salgo al piano superiore con passo felpato e controllo che Benjamin sia profondamente addormentato prima di chiudermi nella camera da letto di suo padre.

Mi guardo attorno, strofinando i palmi delle mani contro la stoffa dei jeans, alla ricerca di qualcosa che possa aiutarmi, e decido di iniziare con il bagno, visto che è il luogo in cui tiene custodita la pistola, ma frugando tra i vari cassetti non riesco a trovare nulla che mi aiuti a fare chiarezza, e lo stesso vale dopo aver effettuato un'accurata ispezione dell'armadio: niente, non trovo assolutamente niente, neanche l'ombra di un piccolo indizio.

La fortuna inizia a girare dalla mia parte quando mi concentro sul comodino posizionato alla destra del letto matrimoniale: nell'ultimo cassetto, infatti, trovo tre buste gialle che contengono altrettanti fogli.

Nel primo c'è la foto, in bianco e nero, di un uomo sconosciuto mentre nel secondo e nel terzo dei semplici indirizzi.

Mi accorgo di un quarto foglio di carta infondo al cassetto e questa volta non ci sono impresse né strane fotografie né indirizzi; ci sono bensì due righe, scritte con inchiostro nero, rivolte direttamente a Theodore, che fanno cenno ad un fantomatico favore da restituire al momento opportuno.

Appoggio lo strano messaggio sopra al materasso e mi concentro sugli altri tre, in modo particolare sui due recapiti: mi rendo subito conto che il primo corrisponde alla villetta a due piani dove mi trovo ora, mentre l'altro è situato in una via che conosco, perché ero solita percorrerla quando mi recavo al ristorante, ed è proprio questa coincidenza a creare una nuova domanda nella mia testa.

Chi abita a quell'indirizzo? Sara, forse? O qualcun altro di cui l'ex compagno di mia madre mi ha sempre tenuta all'oscuro?

Continuo a rimuginare su questi pensieri finché il mio sguardo, per puro caso, non cade sul laptop appoggiato sull'altro comodino, situato alla sinistra del letto; mi avvicino all'apparecchio tecnologico e, mordendomi nuovamente il labbro inferiore, ne accarezzo la superficie liscia, combattendo ancora contro il rimorso di invadere la privacy di una persona.

Ma anche questa volta la curiosità vince sulla mia ritrosia, e mi siedo sul letto, con il laptop appoggiato sulle ginocchia, con la speranza di ottenere finalmente qualcosa di concreto; e come prima mossa, infatti, vado a controllare la cronologia di internet, augurandomi che Theodore non l'abbia completamente cancellata, perché in quel caso potrei fare ben poco.

Fortunatamente davanti ai miei occhi compaiono tutte le pagine che ha visitato nelle ultime settimane, ed ignorando accuratamente quelle che appartengo a siti di 'appuntamenti romantici', mi concentro sulle ultime, che riguardano un certo Kaniel Outis.

E quando clicco il primo link mi ritrovo a trattenere il fiato, perché l'uomo che appare nello schermo è lo stesso ritratto nella strana foto in bianco e nero; prendo subito in mano il foglio per confrontare le due immagini, per fugare ogni possibile dubbio, e la mia incredulità aumenta quando, leggendo l'articolo di giornale, scopro che Outis è un terrorista internazionale, ricercato dall'Interpol, su cui pende più di un mandato di cattura.

Mi copro la bocca con la mano destra, continuando a spostare gli occhi dallo schermo al foglio.

Per quale motivo Theodore dovrebbe essere in contatto con un terrorista internazionale? Che cosa può mai volere quest'uomo da lui?

Subito ripenso ai sette anni che ha trascorso in carcere ed a tutte le volte in cui Ashley mi ha detto che c'è qualcosa in lui che non la convince, ma poi scuoto la testa, scacciando il pensiero che vuole insinuarsi nella mia mente: mi rifiuto categoricamente di credere che una persona come Theodore possa essere coinvolto in qualche atto terroristico, anche se ancora non riesco a trovare una spiegazione alla sua improvvisa partenza per lo Yemen.

E poi c'è un altro particolare a rendere quest'opzione impossibile e assurda: Theodore è partito in compagnia di Sara, la madre di Mike, e le donne come lei, eleganti e raffinate, non nascondo una seconda vita da criminali in contatto con terroristi internazionali.

Sento che c'è qualcosa di molto più complicato racchiuso nell'intera faccenda, ma al momento, con i pochissimi ed indecifrabili indizi che ho dalla mia parte, mi è impossibile venire a capo di questo enigma.



Quando apro gli occhi mi rendo subito conto che il sole è ormai alto nel cielo e che mi sono addormentata sul letto di Theodore, circondata dalle buste gialle e dai loro misteriosi contenuti; sussulto non appena guardo il quadrante dell'orologio che porto al polso sinistro e mi lascio scappare un'imprecazione ad alta voce: è terribilmente tardi e Benjamin non ha ancora né fatto colazione né preso la pastiglia per l'asma.

Scendo dal letto senza preoccuparmi dei fogli che cadono sul pavimento e spalanco letteralmente la porta della camera da letto del ragazzino, mi avvicino al letto per svegliarlo, ma quando sollevo le coperte non trovo Ben ancora profondamente addormentato, bensì due cuscini sistemati in modo da simulare un rigonfiamento convincente; impreco nuovamente, sentendo l'ansia crescere in modo esponenziale, e mi precipito al pianoterra per cercarlo, ripetendo ad alta voce il suo nome, controllando ogni centimetro di ogni stanza, perfino nei posti più improbabili come dentro le credenze o dentro al frigorifero, senza però riuscire a trovarlo o ad ottenere una risposta da parte sua.

E proprio quando ormai già mi vedo dentro la stazione di polizia per denunciare la sua scomparsa, sento la porta d'ingresso aprirsi e vedo comparire il diretto interessato con addosso ancora il pigiama, avvolto in una coperta che sfiora la moquette; lo raggiungo subito, m'inginocchio sul pavimento e gli appoggio le mani sulle braccia, scuotendo leggermente, ordinandogli di non fare mai più una cosa simile e di dirmi perché si trovava in giardino.

"Perché ho trascorso la notte nella casa sull'albero" risponde, tirando su con il naso, e solo ora mi accorgo che ha il corpo scosso da tremiti e le guance rosse e calde; gli appoggio una mano sulla fronte e piego le labbra in una smorfia contrariata, perché la pelle è bollente.

"Ben, hai la fronte che scotta, si può sapere per quale motivo hai trascorso l'intera notte nella casa sull'albero?" domando, cercando di mettere da parte la rabbia e la preoccupazione, utilizzando un tono dolce; Benjamin si stringe nelle spalle, nel classico atteggiamento di chi si trova costretto a confessare una marachella, ed un terribile dubbio inizia a serpeggiare nella mia mente "Benjamin James Bagwell, hai trascorso l'intera notte all'aperto con la speranza di ammalarti per far tornare tuo padre a Chicago?".

La risposta alla mia domanda non arriva sottoforma di un monosillabo affermativo, ma di un mezzo sorriso furbetto, e sono costretta a chiudere gli occhi per qualche secondo e prendere un profondo respiro per non cedere all'impulso di dare uno schiaffo a Benjamin e di urlargli contro che grazie al suo brillante e diabolico piano la sua salute fisica può avere delle gravi ripercussioni: dopotutto si tratta di un bambino di sette anni che desidera solo riavere a suo fianco il padre che ora si trova all'estero, in uno Stato dove le vittime e gli attentati solo all'ordine del giorno.

Un bambino fin troppo sveglio, intelligente e furbo, ma pur sempre un bambino.

Lo accompagno nella sua camera da letto e proprio qui sorge il primo problema, perché vuole stare nella stanza di Theodore, e dopo una breve e accesa discussione sono costretta a cedere alla sua richiesta, e mi occupo di far sparire velocemente le buste, i fogli ed il laptop prima di dare il permesso a Benjamin di sdraiarsi e di rimboccargli le coperte; lui, naturalmente, osserva l'intera scena in silenzio e le domande non tardano ad arrivare.

"Che cosa hai messo dentro quel cassetto?"

"Adesso questo non ha importanza, pensa a riposare ed a riprenderti" mormoro distrattamente, spostandomi nel bagno per cercare un termometro; quando riesco finalmente a trovarlo ed a misurargli la temperatura corporea faccio nuovamente una smorfia, assumendo poi un tono di voce serio, da adulta "questa volta l'hai proprio combinata grossa, Benjamin, aspetta solo che tuo padre torni a casa dal viaggio. Nessuno ti salverà da una bella punizione"

"Che cosa dice il termometro?"

"Dice che la tua temperatura corporea è di quasi trentanove gradi"

"Ohh, questo significa che ho la febbre alta, giusto? Posso chiamare Theodore?"

"No, tu non chiamerai nessuno. Non voglio farlo preoccupare inutilmente. E poi, così facendo, diventerei complice del tuo piano"

"Ma io sono sicuro che vorrebbe essere informato subito riguardo alla mia salute. Per favore, Gracey!" esclama, supplicandomi "per favore, per favore, per favore!".

Sospiro, sollevo gli occhi al soffitto, e mi ritrovo costretta a cedere ancora alla sua richiesta: come posso negare qualcosa ad un ragazzino con la febbre alta che, per giunta, sa essere terribilmente convincente?

Prendo il cellulare, cerco il numero dell'ex compagno di mia madre tra le ultime chiamate ricevute e schiaccio il tasto verde, appoggiando lo schermo all'orecchio sinistro.

"Solo un tentativo" mormoro, poi, mentre attendo una risposta dall'altra parte "se non risponde, aspetteremo il suo ritorno"

"Sono sicuro che risponderà" ribatte, testardo, Benjamin, sedendosi a gambe incrociate, aspettando con trepidazione di sentire la voce del padre per parlare con lui e per supplicarlo di tornare indietro subito; attendo ancora per qualche secondo e poi premo il tasto rosso, bloccando lo schermo e riponendo il cellulare in una tasca anteriore dei pantaloni.

"Non ha risposto. Hai avuto la possibilità di portare a termine il tuo piano malvagio, ma a quanto pare dobbiamo aspettare il suo ritorno!" esclamo, preparandomi ad impartirgli una lunga ramanzina, ma vengo bloccata dal cellulare che inizia a vibrare e, con mia sorpresa, vedo che si tratta proprio di Theodore: evidentemente quando ho interrotto la chiamata, lui stava per rispondere "pronto?"

"Volevi parlarmi?".

La sua domanda, secca, diretta e senza alcun saluto fa scattare nella mia mente un campanello d'allarme, ma non ho il tempo di approfondire la questione perché Ben mi ricorda il motivo principale della telefonata prendendosela con la stoffa della mia maglietta, precisamente con la manica destra.

"Sì, e con urgenza. Si tratta di Benjamin. Ha combinato un grosso guaio"

"Cioè? Ha picchiato qualcuno a scuola?"

"No, ma credimi, forse sarebbe stato meglio che fosse accaduto questo" rispondo, riuscendo a liberarmi dalla presa molesta "a quanto pare, questo piccolo criminale ha avuto la brillante idea di sgattaiolare fuori casa nel cuore della notte e di dormire in giardino, nella casa sull'albero, con la speranza di ammalarsi e di farti ritornare a Chicago il prima possibile. Ed ora vuole parlare con te".

Silenzio.

Un lungo sospiro.

"Passamelo".

Consegno il mio telefono nelle mani trepidanti di Benjamin ed esco dalla stanza, lasciandogli un po' di privacy, tuttavia non mi allontano troppo e la porta socchiusa mi permette di ascoltare l'intera conversazione, composta da una lunga serie di domande, alternate a suppliche, da parte di Ben, e che si conclude quando quest'ultimo decide di sfoderare un asso nella manica che mi lascia interdetta.

"Ti prego, torna a casa! Ho bisogno di te, papà".

Un vero e proprio colpo basso.

"Sei crudele" lo rimprovero quando torno in possesso del mio cellulare "sai perfettamente che la parola 'papà' è il suo punto debole, e tu sei andato a girare il coltello nella ferita. Non avresti dovuto farlo, è stato un comportamento molto meschino. E non ti spiego neppure che cosa significa il termine 'meschino' perché sono sicura che lo conosci perfettamente"

"Non sono stato né crudele né meschino, era giusto che Theodore sapesse che ho la febbre. Ha detto che prenderà il primo volo per Chicago, entro ventiquattro ore sarà di nuovo qui con voi. Dovresti ringraziarmi"

"Ohh, hai una bella faccia tosta a dirmi questo. E perché dovrei ringraziarti?" gli chiedo, sedendomi sul bordo del letto.

Nelle sue labbra compare il sorriso furbetto che, ormai, conosco fin troppo bene.

"Perché anche tu desideri che torni a casa il prima possibile, intero, e senza fori di proiettile, Gracey" risponde lui, tirando su con il naso.

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