Capitolo 5

Gavriel

2-3-4 giugno, in a dark and desert street.

Quando, finalmente, raggiungo la porta di casa, allungo un braccio per aprirla, e mi ci rovescio, letteralmente, dentro.
Sto correndo per le scale. Il giubbotto freddo, umido di pioggia, mi appesantisce, facendomi tremare le gambe un po' di più ad ogni gradino.

Mentre faccio scattare la serratura dietro le mie spalle, mi accorgo che non riesco più a respirare. Spalanco la bocca per inghiottire più ossigeno, ma continuo a sentirmi soffocare, come se tutto ciò che riuscissi ad annaspare fosse sabbia che va man mano a riempirmi i polmoni, a sigillarmi la gola.

Raggiungo la mia stanza e mi lascio cadere sulle piastrelle gelate della stanza, con lo sguardo chiazzato di macchie scure, mentre cerco di tenere insieme disperatamente, senza riuscirci, tutti i pezzi del mio cuore, che continua a rompersi ad ogni battito accelerato.

Steso, stretto fra l'armadio e la scrivania, con gli occhi fissi contro un soffitto pallido quanto me, cerco di riprendere il controllo. Cerco di concentrarmi sul mio respiro. Lascio che i minuti mi scivolino sopra come gocce di pioggia su un impermeabile.

È successo di nuovo: nonostante tutti i miei sforzi resto comunque un mostro senza via di redenzione.
Ogni volta che condivido con qualcuno il mio legame con l'altro mondo finisce sempre male, dovrei smetterla di giocare con il fuoco, di mostrare alla gente cose che non capiranno.

Non posso continuare così, il mondo non è fatto per conoscere certe cose, eppure non vedo via d'uscita.
Io sono questo: un messaggero di morte e distruzione.

E poi, ecco ritornare le vecchie abitudini; come se potessi concentrare tutta la forza in un singolo punto del mio corpo, alzo il braccio sopra la mia testa e sferro un pugno fortissimo contro il muro.

Ecco.

Non sento più il freddo del mio giubbotto zuppo nel quale mi sono avvolto, nascondendomi, e nemmeno il ticchettio delle gocce di pioggia contro il vetro della portafinestra poco distante da dove sono steso. Sento solo il sangue caldo che traccia una ragnatela rossa sul dorso della mia mano, aprendo con un bruciore intenso dei tagli sulle mie nocche.

Adesso, finalmente, ho un motivo per piangere. La mia gola brucia, le mie labbra sono impastate di lacrime, di sale, e in bocca un sapore amaro fa contrarre i lineamenti del mio volto stanco in una smorfia.

Ma non piango solo per me, piango per tutti quelli che, come Alex, ho distrutto in questi anni.
Avrei potuto fare come tutti gli altri miei 'colleghi', dire alle persone ciò che vorrebbero sentirsi dire; così almeno si sarebbero sentite in pace con sé stesse e io avrei guadagnato alle loro spalle.

"Sua figlia ha vissuto una vita felice, se n'è andata ricordando tutto l'amore che le avete donato in ogni secondo della sua esistenza"
"David non ha sofferto, la morte è stata la fine migliore per lui"
"Continuerà a vegliare su di voi..."

La mia vita sarebbe più facile.
Ma non ce la faccio. Io ho bisogno di dire la verità, di far capire alle persone ciò che i frammenti d'anima hanno provato, altrimenti sarebbe come mentire a me stesso.

Ogni volta che entro in contatto con uno di loro è come se vivessi un'altra vita nel giro di qualche secondo. Creano un solco indelebile nella mia anima, impossibile da ignorare.

Sferro un altro pugno contro il muro, con l'altra mano. Appoggio le nocche crepate sulla bocca, lascio che il sapore metallico del sangue mi faccia venire voglia di sputare dal disgusto.

È così che mi sento: disgustato da me stesso, da quello che sono.
Vorrei fermarmi, ma poi non saprei più come andare avanti: la mia vita, la scuola, le feste che odio, infatti, sono le uniche cose che mi fanno sentire normale, le uniche che non mi fanno cadere nel crepaccio accanto cui cammino ogni volta che uso i miei poteri.

Ormai non ne posso più fare a meno, è diventata come una droga per me.
Cerco sempre di dirigermi verso la normalità, ma poi torno indietro ogni volta, come un frammento di metallo attratto da una calamita.

Sono impotente.

Sferro un altro pugno contro il muro. E un altro.
E un altro.
E adesso il sangue mi ha chiazzato i jeans, e la t-shirt, e il mio volto e le mie labbra sono sporche di rosso, e le mie dita sono appiccicose e dai miei occhi non escono più lacrime.

Vedo solo rosso. Come un assassino sulla scena del proprio misfatto.

E lì, steso per terra, sporco di sangue, capisco che é esattamente come mi sento; un assassino. Uno sporco assassino. Perché l'ho condotto io stesso verso la morte. L'ho lasciato andare via senza poter fare niente.

Ho visto troppe volte persone cadere in preda alla pazzia, urlarmi contro o semplicemente guardarmi come un animale da circo capace di fare trucchi divertenti. Ma mai, fino ad ora, avrei pensato di veder morire una persona davanti ai miei occhi.

È buffo: ho conosciuto anime di persone morte per tutta la vita, ma non ho mai assistito alla morte di persona. Solo ora mi rendo conto che non è affatto un bello spettacolo, anzi, credo che non riuscirò più a togliermelo dalla testa.

Me l'aspettavo diversa la morte, la immaginavo come una sorta di liberazione: l'anima che esce dalla gabbia del proprio corpo; invece mi è sembrata terribilmente triste e spoglia, come un quadro cui sono stati rubati tutti i colori.

Ero sicuro di vedere l'anima di Alex innalzarsi verso il cielo, invece ho visto solo un corpo cui è stato rubato il suo dono più grande: la propria vita.

Mi giro su un fianco, mi porto le ginocchia al petto e le stringo con forza. Come scariche elettriche, il dolore si irradia dalle mie mani per tutto il corpo.

Mi lascio cullare dal rumore del vento che soffia tra i rami degli alberi, all'improvviso mi sento totalmente svuotato.
Il sonno coglie l'occasione per prendere il sopravvento, così mi addormento steso sul pavimento della mia camera.

Come un cucciolo ferito dalla sua stessa ferocia.

𖠄 *ೃ

Il risveglio di prima mattina è una delle cose più traumatiche, ancor più se hai dormito sul pavimento, appallottolato in un angolo e con un braccio come cuscino.

Non appena cerco di sollevarmi dalle piastrelle bianche della mia stanza, un senso di nausea mi attanaglia lo stomaco; degli arabeschi scarlatti ricoprono il pavimento e il muro alle mie spalle, ormai il sangue è diventato scuro e secco ma il suo sentore metallico non ha abbandonato del tutto l'aria.

Mi metto in piedi a fatica e cerco di reggermi in posizione eretta appoggiandomi alla scrivania rettangolare. Il mio aspetto, come anche quello della stanza, sembra identico a una scena del crimine.

Mi tolgo la giacca di pelle e getto a terra la mia t-shirt preferita, spero tanto di riuscire a ripulirla da tutto quel sangue.

Ripongo i soldi guadagnati in fondo all'armadio, dove so esserci una piccola cassaforte nascosta che custodisce tutto ciò che ho di prezioso: i miei risparmi e una collana d'oro. Quest'ultima la posseggo da tutta la vita, però non ho mai saputo chi me l'ha donata, l'unica cosa di cui sono certo è che non ricordo un giorno all'orfanotrofio in cui non la portassi.

È una semplice catenina d'oro con appese un paio di ali, sul retro di ciascuna è inciso un simbolo: da una parte un'Ankh e dall'altra una specie di triangolo capovolto, molto simile a una runa angelica, con una croce nel centro e una V sulla punta inferiore.

L'ultimo anno in cui ho vissuto là dentro ho conosciuto un frate che mi ha spiegato il significato di quei due simboli, il primo simboleggia la vita, mentre il secondo è il simbolo di Lucifero.
Non ho mai capito cosa possano centrare con un ragazzo che riesce a vedere le anime dei morti.

Da quel momento non ho più voluto indossarla, ma al contempo non ho avuto la forza di buttarla via, mi ha accompagnato per troppo tempo, ormai è una parte di me.

Dopo aver richiuso la cassaforte, tiro fuori dall'armadio dei vestiti a caso e li getto sul letto.

La mia stanza è totalmente bianca, senza quadri appesi alle pareti o oggetti che possano definire il tipo di persona che ci abita. Tutti i mobili sono regolari, fatti in plastica o metallo, e l'ampia finestra fa entrare talmente tanta luce da far sembrare il posto quasi surreale. Una stanza anonima, in poche parole.

Il mio sguardo rimane a fissare per qualche secondo il pavimento chiazzato di sangue. Più tardi potrò ripulirlo, ma non credo basterà per cancellare ciò che è successo.

Mentre mi dirigo in bagno, le immagini della scorsa notte mi ritornano in mente.

"Prendi il tuo sporco denaro e tieni la bocca chiusa. Per il resto del mondo Alex si è suicidato in preda alla pazzia, per il dolore della perdita subita"
"Non le importa niente di suo figlio?"
"Certo che m'importa. Solo, l'immagine della mia famiglia deve rimanere pulita. Non siamo gente che crede a certe sciocchezze"

Un conto è non voler credere, un altro è non voler vedere.

Non ha versato neanche una lacrima per Alex, non ha mosso un muscolo quando si è gettato dalla finestra. L'unica sua preoccupazione era lasciare intatta la propria reputazione, anche a costo di riempire di menzogne la memoria di suo figlio.

E la cosa peggiore è che di gente così ne è pieno il mondo.

Una volta messo piede in bagno, mi fermo ad osservare il mio riflesso nello specchio: ho gli occhi rossi e la base del collo macchiata di sangue, così come le mani e le labbra.

Sul mio pettorale sinistro spicca un tatuaggio scuro, un occhio stilizzato dalla pupilla a spirale.
È apparso sulla mia pelle dopo la prima 'seduta' con dei clienti, poi non è andato più via, come a testimoniare il fardello che mi porto dietro da anni.

Entrato nella doccia, il contatto con l'acqua calda mi da un sollievo enorme; almeno così posso ignorare più facilmente le lacrime che scivolano sul mio viso.

𖠄 *ೃ

Il vento fra i capelli riesce a risvegliare dal torpore tutti i miei muscoli, la velocità lascia indietro ogni brutto pensiero e il ruggito della mia moto copre qualsiasi altro rumore.

Faccio lo slalom tra le macchine che mi preseguono, mentre gli alberi ai lati della strada appaiono sempre più sfuocati.

Le fasciature intorno alle mie mani stringono le ferite in un doloroso abbraccio, sembro un pugile professionista, ma al momento il fastidioso pizzicore sulle mie nocche è l'ultima cosa che mi preoccupa.

Arrivo al college con mezz'ora di anticipo. Non so cosa mi abbia spinto a non saltare le lezioni di oggi, anche se in fondo voglio solo ignorare la vocina che mi ripete: vuoi solo dimenticare e andare avanti.

So che è impossibile, ma continuo a tentarci ogni giorno.

Mi dirigo verso il bar della scuola e, dopo aver ordinato un caffè nero senza zucchero, mi siedo a un tavolino più in disparte rispetto agli altri.

Mentre sorseggio la mia unica fonte di energia mattutina, colgo dei frammenti di conversazione provenienti da un gruppo di ragazzi poco distanti; sono tutti membri della squadra di basket, come indicano le loro divise.

"Come mai Owen oggi non è venuto a lezione? Abbiamo una partita importante e lui non salterebbe mai un evento del genere..." chiede uno di loro, quello con i capelli rossi.
"Non hai saputo?" Domanda a sua volta il più alto dei tre.
"Cosa?"
"Ieri notte Owen e la sua amica Pandora, la cantante della band rock, hanno fatto un incidente. La sua macchina si è schiantata contro un albero, lui non si è fatto niente ma lei è stata ricoverata all'ospedale dove lavora il padre di Owen"

Al suono di quelle parole abbandono il caffè mezzo pieno sul tavolo e mi alzo di scatto.

Non due in una volta, ti prego.

Mi muovo verso i ragazzi e, senza un briciolo di esitazione, afferro l'ultimo che ha parlato per la maglietta.
"Qual è?" Esclamo, così vicino da notare ogni singola lemtiggine sul suo naso.
Lui mi guarda senza capire, troppo scioccato per il mio gesto impetuoso.
"L'ospedale. Qual è?" Ripeto, scuotendolo leggermente.
"Saint Cross Hospital"
Lo lascio andare e mi allontano velocemente.

Mentre cammino sento il ragazzo alto mormorare "Oggi l'incontro con lo strambo del giorno è toccato a te, Logan"

Addio reputazione.

Non che fosse un gran che, ma dopo questo comportamento da 'abitante di un manicomio' è sicuramente arrivata sotto zero.

𖠄 *ೃ

Arrivo in ospedale un'ora più tardi: con la fortuna che mi ritrovo, tra traffico e strade chiuse per lavori, ci ho messo il doppio del tempo.

Non appena entro dalla porta scorrevole, mi rendo conto di quanto sia enorme questo posto: non riuscirò mai a trovare da solo la camera di Pandora. Per questo, quando vedo un'infermiera passarmi davanti con passo spedito, mi affretto a fermarla per chiederle informazioni.

Indossa un'uniforme totalmente bianca, con maglia, pantalone e scarpe senza fibbie. Ed è molto carina, devo ammettere.

Mi guarda con un'espressione dispiaciuta "Mi dispiace, ma non posso darvi il numero della sua stanza"

Non voglio risponderle male, sembra una persona gentile. Ma da quando mi sono svegliato sono un tantino irascibile, quindi risulta un'impresa più che ardua.
"Che significa che non potete darmi il numero della sua stanza?" Ripeto come un imbecille.

"La signorina Pandora Esposito non può ricevere visite al momento"
Sto per rispondere in modo un po' meno garbato, quando sento una voce risuonare alle spalle della ragazza.

"Come mai non potrei?" Pandora s'intromette sorridendo e l'infermiera si gira nella sua direzione.
Non poteva apparire in un momento migliore. Come si dice: 'Coincidenze? Io non credo'.

"Il figlio del primario ha detto che devi riposare..." La ragazza cerca di convincere Pandora a desistere, ma, come mi sarei aspettato, quest'ultima odia sentirsi dire cosa fare.
"Con Owen me la vedrò io"
Le sorride una seconda volta, in questo caso in modo un po' meno amichevole, e l'infermiera si arrende a lasciarci soli.

"Gavriel, cosa ti porta alla ricerca della sottoscritta?"
Solo ora mi rendo conto di quanto sia stato in pensiero per lei.

Non ho ancora capito cosa mi porti a volermi avvicinare a questa ragazza, ma so solo che è la cosa giusta.

La abbraccio calorosamente e sento i suoi muscoli contrarsi sotto la mia stretta, non vuole cedere al mio gesto d'affetto.
Affondo la testa nell'incavo del suo collo e, quando la mia guancia sfiora lievemente la sua pelle chiara, sento una strana sensazione risalirmi tra le ossa. Chiudo gli occhi, un bagliore azzurro mi attraversa le palpebre, lo stesso che circonda sempre i frammenti d'anima.

Mi separo dall'abbraccio e cerco di riscuotermi, non voglio fare la figura dello strano, non ancora, almeno.
"Ho saputo stamattina al college del vostro incidente, così sono uscito prima e mi sono precipitato qui per vedere come stavi"

Uscito prima è un eufemismo, non sono neanche andato alla prima lezione.

Pandora mi sta fissando con un sopracciglio alzato: in questi momento devo sembrare uno stalker.

Mi affretto a trovare una scusa plausibile e alla fine dico "È da molto tempo che volevo parlarti, so che tu non mi hai mai notato, tra tutti i fan che vengono ai tuoi concerti, però ti ho sempre ammirata" poi aggiungo, cercando di fare una battuta simpatica "Alla festa ho solo colto l'occasione di conoscerti, visto che il tuo cane da guardia ti aveva lasciata da sola"

Mi guarda divertita "Owen non è il mio 'cane da guardia', me la so cavare anche da sola"

"Che classi frequenti al college?" Mi chiede mentre raggiunge il bar.

Osservo i suoi capelli scuri ondeggiare al ritmo dei suoi fianchi, tra questi spicca una ciocca candida come la neve. Non ricordo di averla notata alla festa.

Mi ricollego alla sua domanda, spero non si sia accorta della mia distrazione.

"Nessuna delle tue, ecco perché non mi hai mai visto. Sennò sarebbe stato difficile non notare un ragazzo come me" mi indico con un gesto teatrale, poi aggiungo "E il cibo della mensa mi fa schifo, quindi vado a mangiare nel parco vicino al college"
Meglio indossare di nuovo la mia cara maschera da bad boy pieno di sé.

Alza gli occhi al cielo, poi si avvicina al bancone per ordinare la colazione.
Ci sediamo entrambi a una tavolo poco distante, scena già vissuta per la seconda volta stamattina.

"Quindi sei tutta intera?" Mi rilasso sulla sedia e le chiedo informazioni sulla sua salute senza sembrare troppo apprensivo, anche se non posso evitare di fissare il cerotto sulla sua fronte.

Pandora a sua volta mi analizza attentamente, soffermandosi sulla cicatrice che mi attraversa il naso. Non è eccessivamente evidente, ma sotto le luci chiare dell'ospedale sicuramente da più nell'occhio.

Me la sono fatta mentre imparavo ad andare in moto. Non è stata una scena molto divertente, specialmente per lo scoiattolo che ho messo sotto.

"Si, sto bene" mi risponde dopo qualche secondo.

Mi racconta tutto l'accaduto e, finita la colazione, si alza per accompagnarmi all'ingresso.
"Sei stato carino a passare, comunque" mi dice.

"Mi ha fatto piacere rivederti. Magari qualche volta possiamo andare a pranzare insieme al parco" mi passo una mano sulla nuca imbarazzato.

Bad boy 0 - Timido Gavriel 1.

Mi ripeto che voglio incontrarla di nuovo solo per indagare più a fondo sul nostro legame, ma in fondo so che non è l'unica ragione.

"Solo se lasci il tuo ego a casa" mi risponde con un mezzo sorriso.
"Siamo un pacchetto completo"
Mi sporgo in avanti per scoccarle un bacio sulla guancia, poi mi avvio verso la porta scorrevole.

Ho bisogno di risposte.
Prima fra tutte quella alla domanda: perché non percepisco più la sua anima?

𖠄 *ೃ

L'acqua del secchio ha assunto una tinta rosea, così come lo straccio che stringo fra le dita cercando di cancellare ogni traccia di sangue dalla mia camera.

Non ho avuto la forza di tornare al college dopo quello che è successo all'ospedale: nonostante tutti i miei sforzi di vivere una vita normale, almeno in parte, alla fine sono sempre più immerso in quel mondo fatto di ombre e rimpianti del passato che è l'Aldilà.

Continuo a strofinare freneticamente le mattonelle chiare, ormai il sangue non c'è più, ma non riesco a fermarmi. È l'unico modo per tenere la mente occupata.

Il muro in semplice cemento pitturato di bianco, invece, è ancora macchiato di schizzi rosati. Per lui l'unica speranza è essere ripitturato.

Mi sollevo dal pavimento, ho le ginocchia indolenzite dalla posizione scomoda in cui ho passato le ultime ore e le bende che mi circondano le mani sono completamente inzuppate.

Le strappo via senza neanche staccare i cerotti che le tengono insieme, non emetto neanche un gemito di dolore.

Le ferite sulle mie mani sono ancora visibili, però sembrano appartenere a qualche giorno fa anziché qualche ora. La pelle non è più aperta e frastagliata, i tagli hanno assunto una forma regolare e la pelle è diventata rosa nei punti in cui questa notte era quasi visibile l'osso.

Dovrebbe essere una cosa positiva guarire così in fretta, ma personalmente mi fa sentire ancor più alieno a questo mondo.

Mi faccio una nuova fasciatura e mi rimetto al lavoro.

𖠄 *ೃ

Tornare al college la mattina seguente è stata una fatica enorme; per fortuna il pranzo si prospettava come la parte migliore della giornata.

Stamattina, infatti, dopo essermi scontrato con Pandora, ho avuto l'occasione di riproporle l'invito a pranzare insieme. Quindi ora mi ritrovo seduto su un'oscena tovaglia a scacchi nel bel mezzo del parco deserto vicino al nostro college.

Ho portato il pranzo anche per lei, me la cavo a cucinare e volevo essere gentile.

Quando la vedo apparire tra gli alberi poco distanti le faccio un segno con la mano, anche se credo sia impossibile non notare l'unico essere umano presente in questo parco.

I capelli candidi le svolazzano intorno per la leggera brezza estiva.
Il loro 'nuovo colore' ha confermato ulteriormente i miei dubbi: le è successo qualcosa dopo la festa, qualcosa che ha a che fare con il mio mondo, lo percepisco.

Dopo aver scherzato e parlato per un po', mi rendo conto che è arrivato il momento. Ho cercato di ritardarlo il più possibile, ma prima o poi dovevo chiarire la confusione che ho in testa.

Non voglio cominciare a tempestarla di domande: per conoscere la verità, devo cominciare con l'essere sincero su me stesso.

"Senti, piccola..." le passo un braccio intorno alle spalle, sotto la maglia leggera riesco a sentire le sue ossa sporgenti, è più magra di quanto ricordassi, poi continuo "...devo dirti una cosa, solo che non so come potresti prenderla"

Si raddrizza di scatto, percepisco l'agitazione che si impossessa di lei.

"Mi devo preoccupare, Gavriel?"
Le accarezzo dolcemente una guancia e poi la costringo a guardarmi negli occhi. Trattengo il respiro quando mi accorgo che non sono gli stessi pozzi neri che ricordo, ora sono più simili a un cielo stellato.

"È qualcosa che riguarda me..." dico e lei sembra rilassarsi all'istante.
"Non dirmi che non hai sentito le voci che girano sul sottoscritto" cerco di prenderla alla larga, visto che non voglio cominciare con: faccio lunghe conversazioni con fantasmi; è divertente, sai?

Mi stendo sul telo intrecciando le mani sulle pancia.

"Non ci faccio molto caso, sai? Preferisco verificare le cose di persona"

Mi giro su un fianco per guardarla in faccia, fino alla fine mi toccherà sputare il rospo. "Meglio così, preferisco dirtelo di persona. Io non ho molti amici al college e con tutti quelli che ho avuto non è andata a finire bene. In qualunque modo ho deciso di agire si sono tutti allontanati da me: ho provato a nascondere il mio segreto, ma si sà, le bugie vanno sempre a galla, ho provato ad essere sincero, ma anche in quel caso sono stato abbandonato. Alla fine mi sono rassegnato a restare solo"

Abbasso lo sguardo, il cuore mi martella nel petto.
"Perché?" Mi chiede e io rimango a guardarla interdetto.
"Perché cosa?" Ripeto.
"Perché vuoi dirmelo. Io non sono nessuno"
"Non è vero, Pam. Io non so come spiegartelo, ma tu sei diversa... lo percepisco. Sento che..."
"...siamo legati. Si, l'ho sentito anche io. Solo non sono ancora riuscita a capire in che modo"

Un peso enorme sembra sollevarsi dal mio petto: allora non sono il solo a provare quella sensazione.

Si stende al mio fianco e promette "Non scapperò"

Faccio un respiro profondo e esclamo il più tranquillamente possibile "Io... non sono un ragazzo normale. Riesco a vedere oltre il velo che ci separa dall'altra faccia della realtà che conosciamo"

Più giri di parole non ne potevo fare.

"L'Aldilà?" Chiede solamente.
"In un certo senso si, però vedo solo le anime che decidono di spingersi nella mia direzione. Quando ero piccolo credevo di essere speciale, ma crescendo mi sono reso conto di quanto è crudele il mondo con tutto ciò che considera diverso. E ho capito che l'unico modo per sopravvivere è nascondersi, anche se a volte risulta davvero difficile" spiego.

Ora tocca a lei essere sincera.

Mi avvicino lentamente al suo viso "Tu cos'hai da nascondere invece?"
La vedo sussultare, non credo che la conversazione prenderà una bella piega.
"Te l'ho detto... percepisco qualcosa di diverso in te, non sei come gli altri umani. Questa sensazione si è intensificata da quando ti ho rivista ieri in ospedale, cosa ti è successo veramente dopo l'incidente?" Insisto.

La vedo allontanarsi da me, sembra spaventata. Non dice nient'altro e il silenzio tra di noi continua a farsi sentire.

"Di qualcosa, per favore"
La cosa peggiore che poteva fare era guardarmi senza dire niente: io le ho donato il mio più grande segreto e lei mi ripaga così?
Cerco di calmarmi e le poso una mano sulla spalla come per invitarla a confidarsi.

"Io... devo andare, si è fatto tardi" dice invece lei.
Si libera dalla mia stretta e si alza di scatto senza aggiungere nient'altro. Si allontana verso il college.

Non posso lasciarla andare così: io ho bisogno di sapere.

Una scarica di rabbia mi attraversa dalla testa ai piedi.
"Non puoi lasciarmi così!" Urlo.

Le vado dietro e qualche secondo più tardi riesco ad afferrarla per un polso e a tirarla verso il mio petto.
Ha un un'espressione quasi spaventata, il mio viso dev'essere una maschera di rabbia e disperazione im questo momento.
"Devi darmi tempo, Gavriel. Non sono pronta."

Al suono di quelle parole non riesco più a guardarla in faccia; il mio sguardo cade sul suo polso, ancora stretto tra le mie dita.

La manica della maglia grigia si è abbassata fino a metà del suo avambraccio, una croce corvina spicca all'interno del suo polso candido.

All'improvviso mi ritorna in mente una frase che ho sentito molti anni fa.
È stato lo stesso frate che mi ha spiegato il significato dei simboli sulla mia collana a pronunciarla: 'Ogni simbolo ha il suo significato, che vale molto più di mille parole. Perché un solo segno può narrare una storia intera: tu hai il dono della vista Gavriel. Ma devi stare attento, non tutti i simboli sono semplici da interpretare; per esempio, la croce non indica misericordia o compassione, quella è il simbolo della Morte'.

Il peso di quella consapevolezza mi piomba addosso come un macigno.
"Tu, tu sei..."
Non riesco a terminare la frase, è come se quella parola mi si fosse bloccata in gola, come ingabbiata da una rete invisibile.

Le passo un pollice sopra il tatuaggio e un bruciore improvviso mi attraversa il braccio.

Pandora urla di dolore e io la lascio andare di scatto, il polpastrello mi brucia come se avessi toccato un fornello acceso.
Ora la croce sul suo braccio è diventata rossa come il sangue.

Mi guarda nuovamente negli occhi. All'interno di quelle iridi blu leggo solo la paura più profonda: la paura di sé stessa.

"Si Gavriel, io sono la Morte"

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