Parigi
Quello che vedo mi appare come un quadro, manierista azzarderei. Il vetro non è limpido e in parte opacizza la campagna che si estende davanti a me. Sono forse i colori cangianti dell'autunno che mi portano a questo paragone improprio. O forse è un leggero effetto distorsivo e, si sa, i manieristi interpretavano a loro modo le regole prospettiche.
Rimango ipnotizzato, il foliage, arrangiato da un immaginario pennello, è il mezzo con cui inseguo i miei pensieri.
Le immagini continuano a scorrere e la quasi assenza dei suoni, per l'insonorizzazione del treno ad alta velocità, le rendono simili a quelle di un film muto, ma che dopo un po' si ripete. Mi discosto dal finestrino e lo sguardo della ragazza di fronte a me si incrocia col mio.
È salita da poco, un saluto fugace è stata la sola cosa che ci siamo rivolti, non c'è nessun altro nei quattro posti affacciati.
Non saprei cogliere un significato particolare in questo sguardo, è possibile che non ce ne siano o che, forse, ce ne siano troppi.
È carina; non potrei dire quanti anni abbia, forse una quarantina, in quel caso non dovrei più vederla come una ragazza, ma tendo lo stesso a farlo ed evito di pensare a quando dovrebbe scattare la soglia dove quel termine, ragazza, si trasforma in qualcos'altro.
Ha i lineamenti delicati, grazie a un abile coiffeur i capelli corti biondo miele risultano mossi.
E se fosse lì, davanti a me, il motivo del mio viaggio?
È lei ad abbassare gli occhi per prima; meglio così, la cosa stava diventando imbarazzante, posso tornare al mio film muto e ai miei pensieri.
Difficile dare una spiegazione chiara del perché abbia scelto un treno anziché un volo aereo: non per salvare il pianeta dallo spreco di energia; non per guadagnar tempo, viste le sette ore di viaggio; e non certo per una fiducia incondizionata nel mezzo su rotaia. Il significato di questa scelta non è stato nemmeno economico, con un po' di pazienza potevo di certo trovare un volo low cost a prezzo inferiore. La cerchia dei motivi della mia scelta ormai si è ristretta, ma faccio ancora fatica a trovare una giustificazione, razionale quantomeno.
Le immagini si susseguono in un incedere ipnotico, ho l'impressione che siano ancora più lente, ma questo è l'effetto della prospettiva. Lo capisco quando incrocio un convoglio che sfreccia in senso opposto e che, come un'interferenza anomala, interrompe il programma che sto guardando. È il momento dove torno di nuovo alla realtà e riprendo in mano il libro che avevo appoggiato sul sedile vicino.
La mia compagna di viaggio pare stia sonnecchiando. Forse, quando incrociai le sfumature delle sue iridi, si stava solo chiedendo perché prima guardassi l'orizzonte anziché dedicarmi alla lettura.
Non indugio con lo sguardo su tutte le donne che incontro, è così anche questa volta, ma la verità è che mi sto preparando a lei e in molti sguardi femminili cerco proprio lei.
Per ora, però, mi limito a cercare la pagina a cui ero arrivato, visto che non uso segnalibri. È un buon sistema per tener la memoria allenata e per capire quanto sia interessante quello che sto leggendo. Mi capita, riaprendo un libro, che questo sistema non funzioni alla perfezione e che debba rileggere mezza pagina, prima di capire che un incontro tra quei testi e il sottoscritto si era già consumato. È un brutto segnale quando succede. Non per una precoce demenza senile o per qualche morbo, la mia memoria è ancora ottima, ma per il libro, che non sta entrando nelle mie grazie.
Oggi so bene dove sono arrivato, ma sento lo stesso che la mia attenzione non è ottimale. Richiudo il volume e guardo il titolo: "Amori ridicoli" di Milan Kundera. Diversi racconti sono stati piacevoli, perché ora la mia mente vacilla? In senso letterario, sia chiaro.
Torno alle mie riflessioni, Kundera può attendere. La ragazza dorme ancora, almeno sembra.
Non penso più al motivo per cui ho scelto il treno, ma al motivo per cui l'ho preso. È questa la vera riflessione, e ha dell'assurdo.
Sto andando a Parigi per incontrare una persona e di lei conosco solo il nome e poco altro, il nome stesso credo sia di fantasia quindi, in realtà, quello che so è solo come si fa chiamare: Sally.
Sono in territorio francese da un po' e a breve ci sarà l'ultima fermata a Chambéry. Ho avuto la pessima idea di ordinare qualcosa, è bastato accedere al portale con l'app. Ora sto mangiando, osservato da un ragazzino paffuto e dalla signora che credo sia la nonna. In questo caso, sull'uso del termine signora non ho alcuna remora. Mangerai quando saremo arrivati, gli dice stizzita mentre fissa me, come se il mio semplice addentare un tramezzino fosse quanto di più osceno si potesse fare verso il pargolo.
Sento anche lo sguardo della ragazza e questa volta lo vedo come qualcosa che viene in mio soccorso, il suo timido sorriso, almeno, mi fa pensare a questo.
"Potrei condividere un pezzo del mio..."
"Ci mancherebbe altro, lo sa che non deve mangiare fuori pasto", risponde la signora, come se stesse parlando di me anziché dell'ipotetico nipote.
Il treno rallenta, la ragazza si alza e prende dalla cappelliera il suo trolley.
Siamo giunti alla stazione di Chambéry.
Lei mi sorride per l'ultima volta e io non posso far altro che ricambiare, fantasticando su quale potrebbe essere il significato di tale empatia, pur non essendo lei la persona che dovrò incontrare.
Bene o male ho quasi terminato il libro, era una delle condizioni: vieni con un buon libro, sarà lui a guidarti.
Chissà cosa intendeva.
Il ragazzino si sta mangiando dei dolci che non saprei come definire, la nonna o la governante tedesca che sia, deve aver ceduto. Un morso del mio panino sarebbe stato più salutare. Sta mandando briciole dappertutto e, leccandosele, cerca di togliersi l'unto dalle dita. Non mi resta che riguardare il mio paesaggio manierista o riprendere il libro, devo solo evitare di vedere il paffutello nel riflesso del vetro, oltre a quella sorta di Rottenmeier corrotta.
Spero solo che il posto libero venga preso al più presto da qualcuno che mi distragga.
Il film muto sulle dolci colline della Borgogna mi rapisce di nuovo e quando mi ridesto i posti dei miei due vicini si sono liberati e quello della ragazza è rimasto vuoto.
Non ci sono altre fermate e non possono essere scesi, a meno che li abbiano defenestrati, cosa plausibile e auspicabile, almeno da parte mia, anche se questa rimane una tiepida illusione destinata a raffreddarsi subito: so benissimo che non c'è modo di abbassare i vetri.
Quando tornano, lei è sempre più arcigna e il fanciullo è intento a rimpinzarsi di nuove leccornie, anche queste difficili da identificare. Decido di muovermi io, è indispensabile un po' di movimento quando il viaggio è lungo.
-
Il treno rallenta e il tempo, tutto sommato, è scivolato via. Stiamo entrando nella stazione Gare de Lyon di Parigi.
Scendo dal vagone e vengo inghiottito da un flusso di corrente umana, è poi lo stesso flusso che mi accompagna verso una delle uscite della stazione.
Sono di fuori, mi volto e vedo la grande torre dell'orologio; mi colpisce la somiglianza sfacciata con il Big Ben di Westminster. Sono quasi certo che quella di Londra risalga all'Ottocento, ragion per cui deduco che siano stati i francesi a copiare. Il loro campanilismo, è proprio il caso di dirlo, avrà di sicuro una giustificazione adeguata.
Sono sul ponte della Senna intitolato a Charles de Gaulle, mentre trascino il piccolo trolley da vacanza di pochi giorni. Sulla mia destra vedo il Viadotto di Austerlitz, un ponte ad arco in acciaio, costruito solo per la metropolitana. Non conosco molto di Parigi, ma so documentarmi.
Devo prendere un mezzo che mi porti alla Tour Eiffel, è il luogo dove devo andare.
Lei mi ha scritto che è possibile che non ci sia un posto per l'appuntamento, ma una serie di posti, e questo è il primo.
Scelgo la linea ferroviaria anziché la metropolitana, nella speranza di vedere qualcosa di più, visto che il tragitto dovrebbe costeggiare la Senna. E così è, vedo cose che grazie a Google riconosco, ma mi perdo di sicuro tanto altro.
Sto vagando nei giardini ai piedi della torre senza sapere dove incontrerò questa persona, senza sapere che volto abbia, senza sapere il suo vero nome e senza avere nemmeno il suo numero di cellulare. Credo sia tutto abbastanza paradossale.
Mi siedo su una panchina e ammiro gli oltre trecento metri di ferro che bucano il cielo a poche decine di metri da me. Me la ricordavo più scura, forse perché la pensavo arrugginita, ma così non sembra. Immagino le tonnellate di fosfato di zinco che saranno servite per smontare questa mia supposizione.
Prendo lo smartphone e accedo al mio account Instagram. Lo uso solo per promuovere la mia attività di scrittore in incognito su Wattpad, il social dove l'ho conosciuta. Scrive anche lei e ritengo scriva bene. Ha letto e legge diverse cose che ho scritto e non lo fa per ricambiare visualizzazioni o stelline, posso quasi affermarlo con certezza. Avrà dei motivi e non è detto che tra questi ci sia l'apprezzare ciò che scrivo o addirittura come scrivo. Credo mi legga per una serie di aspetti, vedo di elencarli, in ordine più che casuale: vedrà qualcosa di interessante nel mio stile e forse qualcosa nei contenuti - anche se su questo nutro severi dubbi -, e qualcosa nell'autore, cioè in me; quel me che si è immaginata però, visto che non mi conosce. Su questo aspetto, di cosa ci veda in me, ho solo dei vaghi sospetti, originatisi nel contesto di un fitto scambio epistolare nato su Instagram, l'app che, in questo momento, sto aprendo.
"Ciao, sono qua."
Mi risponde subito.
"Ciao, qua dove?"
"Ai piedi del simbolo di Parigi."
Faccina che piange dalle risate, "Non ci credo, stai scherzando."
"No no."
"Dai... l'hai fatto sul serio?"
"Certo, cosa credevi? Ci ho solo messo un po'."
"Quanto?"
"Lascia perdere, invece... dimmi, dove sei? Mostrati."
Pausa.
Dopo un po' vedo che sta scrivendo.
"Non sono lì."
Rispondo, "Mi aspettavo di vederti su una panchina con in mano un libro di Ken Follett."
"Ma se non sai nemmeno come sono fatta."
"Ma conosco i libri di Follett."
Pausa.
Torno a digitare sulla tastiera, "Quindi?"
Altra pausa, aspetto parole che però non arrivano, poi eccole.
"Mi hai colta impreparata..."
"Immagino, ma ora... che facciamo? Torno indietro?"
"No, intendevo dire che... non sono pronta."
"Sei tu che mi hai detto che oggi saresti stata a Parigi."
"Certo... e come battuta ti ho scritto: 'Perché non vieni anche tu?' Ma era una battuta."
"Lo so, ma non avevo nulla di particolare da fare questo week."
"Tu sei matto, lo sai, vero?"
"Ne ho forti sospetti, da tempo."
Pausa.
"Sono a Notre Dame... l'hanno da poco riaperta e volevo visitarla... dopo il rogo."
"Ti raggiungo lì?"
Pausa, "Ok, ti aspetto."
"Ottimo, appena arrivo ti scrivo."
Pausa.
Pausa.
Non mi sembra abbia voglia di aggiungere altro, non mi resta che muovermi.
Penso di essere un coglione più che un matto. Quest'ultimo aggettivo, se detto da una donna a un uomo, ha quasi sempre un significato positivo, oserei dire intimo, un po' come 'scemo', con tutti i suoi sinonimi e le sue declinazioni, tipo scemotto, stupidino, sciocchino. Coglione no, significa proprio coglione, anche in un'improbabile forma vezzeggiativa.
Sono nella Place Jean-Paul II. La facciata gotica di Notre Dame, con le due torri di oltre sessanta metri, è di fronte a me. La pensavo più imponente, forse perché, come tutte le facciate, stanno sul lato corto. Detto questo, ne apprezzo però lo stile e la sensazione che emana, un qualcosa di mistico. Notre Dame ha in sé gran parte della storia di Francia e la storia di Francia è anche Notre Dame.
Intravedo la punta del campanile ricostruito, finito in cenere con gran parte della copertura durante l'incendio di cinque anni fa. Mi piaceva l'idea di pensare che in quei sottotetti si potesse aggirare il fantasma di Quasimodo. Pare che, per ripristinare gli antichi travi della cattedrale, siano state utilizzate più di millecinquecento querce di Rovere secolare, dando da subito, a quei legni appena posati, un'età già ultracentenaria. Ma non credo che questo sia bastato per riportare in vita il fantasma del gobbo di Notre Dame.
Entro, la curiosità di ammirarla all'interno è grande e per un attimo dimentico la ragione della mia presenza qui.
Mentre ammiro le cinque navate tirate a lucido, sorrette da pilastri cilindrici con capitelli a foglie d'acanto, penso che Parigi valga bene una messa, anche se so benissimo che l'incoronazione di Enrico IV avvenne in un'altra Notre Dame, a novanta chilometri da qui. Fu lui e non Napoleone a proferire quella frase, ma è vero che proprio qui venne incoronato il grande condottiero.
Torno a pensare al vero motivo della mia presenza a Parigi, ma non vedo tracce che mi possano far pensare a lei, solo turisti con lo sguardo rivolto in alto.
La domanda che però mi faccio è quali possano essere queste tracce.
È sui trentacinque anni, più o meno, capelli castani, forse lisci. Mi sembra di ricordare che una sera disse che se li stesse stirando con la piastra. Occhi... non ci giurerei, credo anche quelli castani, o nocciola? Mi piace pensarla con gli occhi sfumati di nocciola, un colore raro quasi come gli occhi verdi, ma sono certo che siano marroni, come i miei del resto.
Esco all'aperto. Notre Dame meritava più tempo, ma ora ho altro a cui pensare.
Sono nel piazzale della cattedrale, mentre le scrivo su Instagram che sono qua.
Mi risponde subito con la faccina sorridente, quella con le guance un po' arrossate, seguita da, "Sì, lo so."
Mi guardo in giro, alla ricerca di segnali che non vedo, poi mi rimetto a messaggiare, "Mi stai guardando?"
"No."
"E come sai che sono qui?"
"Mi hai detto tu che saresti venuto."
Sbuffo, "Sei tu che mi hai detto di venire qui."
Pausa.
Poi, di nuovo, ecco la risposta, ma non è un messaggio, questa volta si tratta di un vocale.
Premo per ascoltarlo.
"Non mi sentivo ancora pronta... per vederti, intendo."
Ha la voce delicata e al contempo incerta, che tradisce un non troppo velato accento romano.
L'audio continua.
"Scherzavo quando ti ho detto di venire, ma sotto sotto ci credevo... e ci speravo, ora però..."
Fine dell'audio.
Pausa.
Ne arriva un altro.
"Non vorrei compromettere tutto, abbiamo un bel rapporto, ma se ci incontriamo, in un luogo come questo, cambierà tutto, lo sai."
Non so cosa dire né come dirlo, sono tentato di mandare un vocale anche io, ma preferisco digitare, ho più tempo per pensare e per cambiare quello che dirò.
"Sì, è vero, potrebbe cambiare tutto, anzi per forza cambierà tutto", ma il messaggio resta lì dov'è. Cancello. "Dovremmo prima incontrarci e... parlare, poi capiremo cosa potrà succedere."
Inviato.
Pausa.
Altro vocale.
"Tu cosa pensi che possa succedere?"
La domanda mi appare più come un tentativo di anticipare quanto poi dovrà essere per forza affrontato, ma io non voglio farlo in una chat. "Senti... ho fatto un viaggio lungo, perché non andiamo a berci qualcosa?"
Pausa.
Solo pause, pause interminabili.
"Ci sei ancora?" scrivo.
Le pause continuano.
Ok, l'ho spaventata, se già non lo era.
Lei fa una battuta e io le arrivo di sorpresa a Parigi, dove, cosa molto probabile, è venuta con qualcuno. Chi va a Parigi da solo? A parte me? Potrebbe essere impegnata. Forse è qua con il suo tipo o con delle amiche.
Guardo il cellulare, nessuna notifica.
Poi sento la nota che accompagna l'arrivo di un messaggio Instagram.
È lei, con un nuovo testo.
"Sono al Louvre, se vuoi puoi raggiungermi qui."
Non so cosa rispondere. Mi sembra di essere finito in un racconto che ho scritto poco tempo fa, Cicada 3301, dove tre ragazzi passavano da un enigma a un altro. Qua non ci sono enigmi, ma sembra ripetersi lo stesso cliché.
Penso che essere a Parigi e non andare al Louvre sarebbe un sacrilegio.
"Ok, dove ti trovo?"
"Sono davanti al Prigione Ribelle."
"?"
"Una delle statue di Michelangelo qua al Louvre, non la conosci?"
"No, e dov'è?
"Sala 4, primo piano, Ala Denon."
"Ah, ok."
"Era una battuta?"
"Sì, ma non preoccuparti, la troverò."
"Mai vista la Gioconda?"
"No."
"Vabbè, è in una sala vicina, ma lascia perdere, e poi c'è troppa ressa. Cerca Amore e Psiche di Canova, so che la conosci, è nella stessa sala del Prigione."
"La conosco."
Pausa
"Quando troverai il Canova cerca il Prigione ribelle, è il mio preferito, io sarò lì."
Questa volta la pausa la faccio io.
"Ok, sarà un piacere rivedere Amore e Psiche, ci ho scritto qualcosa in un capitolo dell'Ombra del Pipistrello."
"Lo so, l'ho letto, e mi era anche piaciuto."
"Bene, arrivo, ma tu non spostarti dal tuo ribelle, ok?"
-
Sto percorrendo l'ala ovest chiamata Denon. La sala quattro non esiste, ci sono però delle sale la cui numerazione parte dalla quattrocento. Mi è più d'aiuto l'app appena installata, con la quale trovo subito l'opera del Canova.
È una delle due originali, l'altra è all'Ermitage di San Pietroburgo, ma ne ho contemplato un'ottima copia a Villa Carlotta sul lago di Como, alcuni mesi fa. Non c'è molto da dire, ho una grande ammirazione per il Canova.
Abbandono il capolavoro neoclassico e vado alla ricerca dello schiavo, o del prigione, come lo chiamavano prima dell'Ottocento.
Non ci vuole molto. Una scultura marmorea, alta più di due metri, si para davanti a me.
Non fosse su un piedistallo mi aspetterei che prendesse vita. I muscoli sono contratti, sta cercando di liberarsi dai legacci che gli bloccano le mani dietro la schiena.
Sembra fondersi nella mia dimensione spaziale.
Rimango incantato e, per un attimo, Michelangelo mi fa dimenticare Canova.
Michelangelo... lo stesso nome dato al mio alter ego, in un romanzo.
Solo quando rinvengo, dopo aver scongiurato un attacco imminente da sindrome di Stendhal, mi accorgo della ragazza al mio fianco.
Pare rapita anche lei dall'arte che ha di fronte.
Ha meno di quarant'anni e i capelli di un castano chiaro, molto chiaro, quasi biondo. Gli occhi non li distinguo, non ancora. È alta, porta pantaloni in pelle neri e un maglione che le copre appena il sedere.
Per i miei parametri è molto carina. Forse si è sentita osservata, è quello che penso quando si gira verso di me. Il mio sguardo incrocia i suoi occhi, ma subito lo distolgo e faccio finta di ammirare quella che, di fronte a me, è ormai diventata una semplice pietra lavorata. Sto ancora elaborando il colore dei suoi occhi, chiari direi. Perdermi nella pigmentazione delle sue iridi non mi ha aiutato a capire di che colore fossero.
È lei. Ma perché non dice nulla? Non mi conosce, è per questo.
Le scrivo. "Sono qui... al tuo fianco, di fronte al tuo schiavo."
Invio.
Subito mi giro verso di lei, ma non sento nessuna notifica. Beh, siamo in un museo, l'avrà silenziato o messo in vibrazione.
Guardo il cell e vedo che Sally scrive, ma la donna vicina a me non si scompone.
Non è lei.
È in quel momento che la bionda, ormai posso dirlo che è bionda e non castana, mi sorride. Chissà cosa ha capito.
Sarà per un'altra volta, le dico mentalmente mentre ricambio il sorriso.
Riguardo lo smartphone.
"Non sono più lì."
Lo spettro di Cicada 3301 torna più minaccioso che mai, comincio a capire lo stress di chi è riuscito a leggerlo.
Mi allontano scrivendo, lo sguardo della tipa sembra voler dire: "Prima ammicchi poi te ne vai guardando il cellulare? Complimenti."
"Dove sei? Ti avevo preso per un'altra."
"La bionda?"
"Sì, la bionda."
"Bella donna. Sì, quando ero lì l'ho vista e ho pensato: non mi può confondere con lei."
"Perché?"
"Non sono bionda."
"Ok, castana chiara."
"Allora ti ricordi."
"Vagamente, e a parte questo?"
"Non sono così alta e magra."
"Altro?"
"Non so, direi che forse sono più... un tipo."
-
Non ha più aggiunto altro.
Vago per tutto il Louvre cercando di trovare, negli occhi di una moltitudine di donne, una scintilla rivelatrice.
Solo la chiusura mi fa capire che, almeno per oggi, non la conoscerò. Non al Louvre.
Sto camminando lungo la riva della Senna. Il sole è calato e sfumature pastello si stanno imprimendo nel paesaggio che ho di fronte.
Forse dovrei tornare da dove sono arrivato, tutto mi sembra una grande idiozia, magari lei non è mai stata qua, anche se, ma non è una prova certa, la bionda pare averla vista.
Ho bisogno di bere qualcosa. Il barcone adibito a Cafè, tutto illuminato, non mi entusiasma. Lo lascio volentieri ai turisti che lo valorizzeranno meglio di me.
La pedonale, lungo la riva della Senna, si trasforma in un viottolo in porfido e il fiume a pochi metri da me mi fa credere di essere in aperta campagna, invece che nel centro di Parigi. Non mi rendo conto, ma sto tornando verso la Tour, ne vedo la parte terminale, ed è illuminata, come sempre succede dopo dieci minuti al calar del sole. Sono in quella che chiamano La boucle de la Seine; domani mattina farò una corsetta da queste parti, dovrei reggere per cinque chilometri.
Già, perché ormai è chiaro che farò il turista. Prendo il cellulare, ho il forte sospetto di non trovare quel messaggio che aspetto. Ma non è così.
C'è qualcosa su Instagram che mi ero perso.
"La vista di Parigi da quassù è... straordinaria."
"Immagino tu sia in cima alla torre."
"Hai immaginato bene."
"E immagino che appena arriverò, tu te ne sarai già andata."
Pausa.
"Non so, può darsi."
"Ti stai divertendo?"
"No."
"E allora perché lo fai?"
Pausa.
"Ho paura."
"Di cosa?"
"Di rompere qualcosa di bello."
Questa volta la pausa la faccio io. "Cosa potrebbe succedere di brutto?"
"Non lo so, magari si rompe l'incantesimo."
"E cosa lo potrebbe rompere?" scrivo come se l'avessi davanti e la fissassi nei suoi occhi marroni o forse color nocciola.
"Tu, è ovvio."
"Giusto, siamo sempre noi a rompere... anche gli incanti", e aggiungo la faccina che piange dal ridere.
Immagino stia ridendo anche lei.
"Rompete gli incanti e non solo quelli...", altra faccina che ride con le lacrime agli occhi.
"Stai diventando spiritosa", digito mentre cammino e cerco di guardare avanti per evitare di sbattere contro altri passanti o di finire nella Senna.
"Non ho un gran senso dell'ironia."
"Me ne sono accorto."
"Cosa intendi?"
"Appunto."
"Non ho capito."
"Intendevo che mi stai facendo girare a vuoto da ore, non mi sembra una cosa ironica."
Pausa, "Hai ragione."
"Sto arrivando alla torre, ci sarai?"
"Stavolta ci sarò."
"Dove? in cima?"
"No, preferisco guardarla dal basso."
Più nulla.
Aspetto ancor un po', poi metto via lo smartphone, forse più per timore di altri messaggi fuorvianti.
Avrei voluto chiederle come la troverò, ma lo farò quando sarò lì.
Il porfido ha ceduto il passo a una striscia di asfalto che corre a fianco della strada.
La torre illuminata è uno spettacolo, non saprei come descriverla. Potrebbe essere paragonata a un immenso albero di Natale, ma non è così, ogni accostamento sarebbe irriguardoso per questa meraviglia.
Salgo la scalinata che mi porta sulla passerella pedonale che mi farà attraversare la Senna, tra me e lei la distanza ormai si sta annullando. La Torre e la ragazza, due entità distanti e al contempo vicine.
Sorrido pensando a lei il cui animo è forse racchiuso in una torre d'avorio o, meglio, di metallo.
Ora sono ai suoi piedi, della torre intendo.
È buio e la sera è avanzata.
Strano, il pullulare di gente che mi ero immaginato non è quello che vedo. Le poche persone presenti sembrano via via allontanarsi senza fretta, con discrezione.
Mi rendo conto di essere solo, ai piedi della torre.
Non so cosa fare, guardo il cellulare. Nulla.
Dovrei scriverle, ma non lo faccio, qualcosa mi dice che non è necessario.
Mi siedo su una panchina e torno ad ammirare la torre, sembra mi voglia parlare, avrei tante cose da chiederle e da dirle, ma attorno a me c'è solo silenzio, un silenzio strano e irreale che a un tratto si infrange.
"È libera?"
La ragazza di fronte a me sembra quasi in imbarazzo e quando noto che ha i capelli castani e lisci, mi pare di intravedere anche il colore dei suoi occhi.
Nella penombra potrebbero essere di qualsiasi colore, ma sono certo che sono castani.
"Ti aspettavo, Sally", le dico immaginando una nuova gaffe.
Lei non aggiunge altro e prende posto, vicino a me. In mano stringe un libro.
"Posso?"
Me lo porge.
La cruna dell'ago, di Ken Follet.
Lei non mi toglie gli occhi di dosso, "Sorridi perché hai capito che ero io dal libro?"
"L'ho capito da tante cose, ma non sorridevo per questo, pensavo a una cosa stupida. Pensavo all'ago."
Sorride anche lei, "Ago, come Ago-Rey?"
"Esatto."
"La chiameremo allora la cruna dell'Ago-Rey."
Mi avvicino.
Siamo a quella distanza dove ci si può prima sfiorare e poi toccare.
Le passo una mano sul volto delicato, ammantato da un velo di tristezza.
"Sei delusa?"
"Ora che ti ho visto? Non ancora, vediamo cosa succederà nei prossimi secondi."
"Perché ho l'impressione che tu sia triste?"
"Lo ero da prima, sta a te togliere quest'impressione, ma potrebbe non essere facile."
"Perché è più difficile che io passi dalla cruna dell'ago, piuttosto che...?"
"L'ago, nel libro, era uno stiletto", aggiunge con tono che percepisco pretenzioso.
"Quindi potresti pungermi. Sei una specie di... mantide."
"Pensi questo?"
Mi avvicino e la bacio.
Lei si lascia andare e segue i miei movimenti, anche quelli più nascosti.
Mi stacco con discrezione.
"Sono ancora vivo vedo, quindi, forse no, non agisci come una mantide."
"Le mantidi uccidono dopo l'accoppiamento."
Mi chiedo se stia scherzando e ricordo che essere ironica non è il suo piatto forte.
"Quindi finché non ci accoppiamo sono salvo", dico con nonchalance, "È una battuta", preciso.
Sorride, non credo per la freddura.
La guardo. Ha i capelli a caschetto, castani, qualche colpo di sole glieli ha schiariti, ma non è bionda. La carnagione chiara e... gli occhi castani, ora ne sono certo.
"Perché siamo qui?" le chiedo, stupendomi di quanto io sia serio.
"Perché siamo due matti", mi risponde.
"Non credo possa bastare."
"Perché mi sei piaciuto dal primo momento in cui ho parlato con te, anche senza averti mai visto. Perché ho scoperto di avere molto in comune con te, pur essendo noi tanto diversi e tu tanto vanesio. Perché mi piace come parli, nelle chat perlomeno, visto che ai miei vocali hai sempre risposto solo con chat, e mi piace ancora di più come scrivi. Perché abbiamo un vecchio amico in comune che si chiama Ken, e tu me l'hai ricordato. Mi piaci perché sei sfuggente, ma quando ci sei hai il dono di farmi ridere."
Mi fissa e conclude, "Ma, forse, la verità è che avevo bisogno di qualcuno che mi ascoltasse e potesse fare una pazzia per me. Può bastare?"
Rimango senza parole, poi qualcosa riesco a dire, "Credo di sì."
Facciamo a ritroso la strada che mi aveva portato lì, lungo la Senna.
Non parliamo più, ci guardiamo, anzi ci osserviamo, ci studiamo, andiamo alla ricerca di quei dettagli che avevamo solo immaginato.
La notte sta avvolgendo Parigi, alle nostre spalle la Tour Eiffel illumina le tenebre.
Mi prende la mano, "Ho una camera in un Hotel qua vicino...".
Sorrido, "Ok."
-
Quando mi sveglio l'alba sta sorgendo.
Sposto un po' le lenzuola. Mi chiedo se lei sia felice.
La guardo, seguo la sinuosità del suo corpo. Dorme.
Mi rimetto i vestiti, che erano sparsi per la camera e mi riavvicino a lei.
Vorrei dirle che è stato bello e che le cose belle, per ricordarle tali, devono finire all'improvviso.
I nostri destini non possono incontrarsi, non in questa vita. Ma dovevamo provare e vedere quanto ci saremmo potuti avvicinare. L'ho voluto io e l'hai voluto tu, sapendo a cosa saremmo andati incontro.
Mentre esco penso che tu stia fingendo di dormire e se potessi guardarti in viso vedrei i tuoi occhi marroni.
Se potessi leggerti i pensieri, saprei che la pensi come me.
Se fosse un racconto, uno dei miei racconti, aggiungerei che i tuoi occhi marroni si stiano inumidendo e qualche lacrima stia bagnando il cuscino e, molto probabilmente, mi sveglierei nel mio letto, scoprendo di aver immaginato tutto.
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