Beato sia il tuo sangue

Assisi, convento di San Damiano - primavera 1225

«Francesco...»

L'aria è permeata d'incenso, la cappella pervasa di soffusa, dolce luce dorata e il loro illustre ospite di starsene a letto, buono e dormiente, proprio non ne vuole sapere. Sospirando - la pazienza è una virtù che si coltiva con l'esperienza in fin dei conti - Chiara abbandona la panca, accorrendo all'intruso.

Occhiate perplesse e uno squillante farfuglio si propagano dalle sue consorelle alzate per la preghiera del Mattutino. I rilievi dorati del decrepito e glorioso crocifisso fiammeggiano al bagliore vacillante delle lanterne.

È notte. Assisi dorme, la natura confabula nel suo segreto profondo e ingioiellato di stelle. I malati, a onor del vero, dovrebbero enumerarsi tra i primi a riempire i guanciali di soffici, ritmici respiri.

Non Francesco sembrerebbe.

S'appiglia alla soglia della cappella con un braccio, la presa negli interstizi tra i mattoni, l'altro braccio si mantiene saldamente a un Frate Leone che, a giudicare dall'espressione, è entusiasta quanto lei di quest'ennesima passeggiata notturna. Scuote il capo, Leone, rassegnato davanti alla testardaggine di Francesco.

«Volevo...» Striscia i piedi, movenze goffe, irrigidite dagli arti atrofizzati. Nessuna benda gli cinge gli occhi, nota Chiara. Il buio notturno non lo disturba. Ma le palpebre prendono a sbattere infastidite al primo accenno di luce. «Volevo pregare con voi...»

Nelle sue condizioni? Prima il Signore e poi i riguardi per la propria salute. Lo scorso anno, applicando questa concezione, Chiara se l'è vista brutta, provata dai digiuni e ripresa anche da Francesco, esortata a seguire pratiche di devozioni meno atrocemente mortificanti e dannose per il corpo.

Corpo tempio dello spirito. Quello di Francesco, onorato dal Signore, innalzato a cattedrale più che tempio. Allora perché non si cura?

Anche gli asini, tra cui Frate Asino, pigro e disubbidente, devono riposare.

«Tu.» Chiara gli circonda il viso con le mani, una carezza sulle guance incavate. Francesco sfoggia una maschera di stanchezza assurda. «Devi dormire.»

«Il Signore viene prima!»

Leone, accompagnatore controvoglia, il mite e umile Frate Leone che non per nulla s'è guadagnato, da parte di Francesco, l'appellativo di Pecorella di Dio, si pone, questa volta, bastian contrario ai desideri del confratello.

«L'hai già lodato a sufficienza Francesco.»

Il Cantico, composto da poco, si è posizionato tra le melodie di sottofondo più ascoltate nel loro convento, sgorgante inesauribilmente dalle gole dei confratelli assistenti alle incombenze di Francesco.

Chiara annuisce, staccando leggera la morsa di Francesco al muro e caricandosi il peso del suo braccio penzolante intorno al collo. «Vero.» Al broncio di lui non esita a batter risposta. «Noi qua facciamo tardi. Ma tardi sul serio.»

Più o meno: le monache si coricano, Chiara le ridesta, scuotendole gentilmente per il Mattutino, e, a celebrazione conclusa e silenzio ridisceso, scivolano nuovamente sotto le sgualcite, rovinate coperte di sacco nel dormitorio. Chiara chiude la fila, ultima, sincerandosi che tutto sia al suo posto, esattamente come in principio è stata la prima a levarsi. In tutto questo trambusto frusciante, di bisbigli, sai graffianti e cristalline note, non si sognerebbe mai di svegliare Francesco, non importa quanta devozione li unisca.

Lui è ospite a San Damiano, loro protetto sotto la loro custodia. E sta troppo male.

«E a-allora?»

Il glaucoma gli si è esteso negli ultimi mesi, intaccando le pupille vicine a una definitiva cecità. Il contorno arrossato, corroso dalle cura, la pelle venata di bruciature e grinze sulle tempie, dove ferri roventi hanno avuto la presunzione di poter estinguere i suoi umori sbilanciati, campeggiano a memento perenne.

Francesco se ne sta andando. Inesorabilmente. Lentamente.

Sorella Morte alita, respiro gelido, sul suo collo.

«Allora sono dell'idea che Nostro Signore apprezzerà molto di più le lodi che gli tributerai nei sogni.» Tocca a Chiara riprenderlo questa volta. Meno severa, più materna. «Andiamo, ti riportiamo a letto.»

Francesco convoglia la forza necessaria a sollevare la testa, il nero denso della chioma mescolato con i coaguli di tenebre tutt'intorno.

«Fratello pagliericcio.»

Un sacco imbottito di paglia, scricchiolante di canne secche e cave.

«Esattamente.»

«Preferirei la nuda terra.»

E ci ricaschiamo con i lamenti. Fargli accettare i cuscini è stata una battaglia colossale, adesso che s'inventa per il resto? È malato. Gravemente malato. Non se ne vuole fare una diamine di ragione. Non passa più il tempo in eremi isolati, grotte e fratture rocciose, insenature e gole spaccate, a invocare la presenza di Dio e inebriarsi della bellezza della natura Sua opera!

Frate Asino, perfetto. Cocciuto quanto un asino.

«La medicina è ordita nel disegno della Creazione.» gli rimbecca Chiara, trascinandolo oramai assieme a Leone, i piedi di Francesco che non lo sostengono più. «Altrimenti il Signore non ce l'avrebbe donata.»

«O manifestata in San Damiano.» s'accoda Leone. San Damiano l'uomo, il santo, non il loro conventino. Medico illuminato dalla fede, collaboratore di Cosma.

«Vedi?» Sono riemersi all'aperto, il cielo un tripudio di costellazioni lattiginose, l'erba intrisa d'umidità, fremente di grilli. Si destreggiano nell'intrico di ulivi contorti, i tronchi raggrinziti dalle pieghe del tempo. «Leone mi ascolta.»

«Anche io!»

«È evidente: sei scappato dal letto.»

«Su tutto il resto non puoi obbiettare! Sono un paziente integerrimo!»

Esemplare, proprio, il signorino, montante bizze per i cuscini. È pacifico suvvia, Chiara lo ammette sorridendo. Calmo, sonnolento, si rilassa e respira nella vita meditativa, laboriosa di San Damiano. Tornato al punto di partenza, ci pondera Chiara. Da San Damiano tutto è sorto, germogliata la pianticella, diramate le radici dell'Ordine che ora attecchiscono salde sulla roccia della Curia.

Protette da Elia. L'altro giorno si è scomodato, nuovamente, a insistere su quanto la degenza di Francesco non possa superare i giorni stabiliti qui a San Damiano. Cinquanta giorni e più. Era questa l'intesa. Chiara non l'ha dimenticata e riconosce benissimo di non poter accudire Francesco in eterno.

Tuttavia, finché dimorerà tra le loro claustrali mura, e al momento così è, si farà carico lei volentieri delle sue necessità, curandolo, imboccandolo, cambiandolo.

Non può metter bocca su questo Elia.

A volte crede di non capirlo, ha perso di vista il Frate Elia dei primi tempi, loro compagno nelle peripezie della povertà. Adesso è il sommo e venerabile Ministro Generale. Un capo sostanzialmente. Francesco non aveva previsto un capo o schemi gerarchici. Uguaglianza e servizio egualitario, questo il suo modello. Bocciato, come molto altro di originario, a lui caro, nelle infinite, logoranti stesure e riscritture della Regola. A chi va imputata questa nuova carica allora? Eh?

Chiara qualche idea se l'è fatta.

Per il bene superiore, strepiterebbe Elia, sono obbligatori dei compromessi.

Il bene superiore, risponderebbe Chiara se ce l'avesse davanti, è Dio. Quel Dio al quale abbiamo donato le nostre intere essenze. O ti sei allontanato da lui?

E se anche fosse? Il mondo trabocca di figlioli prodighi. Chi si crede lei per giudicare?

«Piano.» Scostano i panneggi d'accesso alla capanna, Francesco un molle peso tra di loro. «Piano.» intima a Leone. Lo stendono insieme, lui muove un gemito, il volto livido, occhiaie scavate. «Francesco?»

Abbandona il capo all'indietro, svelando il pomo ballonzolante e bianco, esangue in maniera spettrale. Una macchia scura s'ingrandisce sul fianco, impregna il saio. Leone accende una lanterna, il nero si tinge di rosso. Francesco è sfigurato dal dolore. Chiara si copre la bocca con le mani, lo spavento improvviso.

Di nuovo. Il sangue.

«Corri a prendermi bende pulite, acqua e un cambio nuovo.» incarica immediata un disorientato Leone. «Svelto!»

Liquidato l'altro, si curva su Francesco. Calma. Ci sono passati altre volte. L'hanno affrontata. Cerca la sua mano nel buio, lui la trova e la serra bramoso, disperato, intagliandole il polso, tale la forza nelle unghie.

«Andrà tutto bene.» Rassicurarlo racchiude già un passo avanti, una vittoria. Sono le piaghe di Nostro Signore, la partecipazione intensa e sublime e corrisposta alla Passione. È logico che soffra, ma un'angheria amorosa. «Ci sono io. Pensa al Serafino, alle sue ali infuocate, alla sua effige crocifissa.»

«E-Era splendido...»

«Lo so.» L'accarezza sulla nuca, sprimacciandogli i cuscini. Un serafino disceso dai cieli a imprimergli il sigillo ultimo dell'Amore. Francesco talmente simile a Cristo da viverne l'epilogo sanguinoso.

Il mistero d'amore a cui Chiara si è concessa nella sua mortale, caduca completezza espressa in quello strazio di carne e ferite.

Concepisce già come un miracolo il privilegio di poterne occuparsene.

Leone rinviene, le braccia gremite dell'occorrente richiesto, oltre che fasce, qualche erba dalle proprietà mediche del loro orticello, una brocca di legno, una ciotola. Chiara travasa l'acqua, intinge le bende.

Ora viene la parte dura.

«Ti prometto che cercherò di fare attenzione.» avvisa Francesco e lui, fluttuante nel limbo tra incoscienza e lucidità, annuisce impercettibilmente.

Comincia dai piedi.

Sdrotola le bende imbevute, crostose del sacro sangue. Capocchie rosse e ribattute, come rotonda testa di chiodo presa a martellate, piegata e ripiegata, sbucano dal dorso. La punta trafigge la pianta, sporgendo allungata, una ferita aperta. Il sangue trasuda, fresco, fluendo in un bocciolo simile al contorno di ceralacca rappresa. Strizza le bende, ammassando quelle vecchie, tampona delicata, lo fascia con delle nuove. Francesco scatta al minimo tocco, Leone lo placca al suolo. Chiara si scusa.

«Mi dispiace, ma perdi sangue dovunque...»

«M-Mai quanto...» Contrae i pugni, sua valvola di sfogo, picchiandoli sul terreno a ogni sussulto di dolore. «... Nostro Signore in c-croce...»

Un piede, poi l'altro. Con l'aiuto di Leone gli sfila il saio fradicio, la sua figura macilenta, dimagrita a vista d'occhio nel corso delle infermità. Dal costato aperto, trapassato come da una lancia invisibile, spurgano fiotti rossastri, rivoli lordanti anche le mutande. Per quello dovrà lasciare la mano a Leone.

Chiara trita le erbette, coriandoli di foglioline, le miscela nell'acqua, ottenendone una poltiglia verdognola, impiastrandone poi una serie di bendaggi intrecciati. L'impiastro, ancora umido, lo incolla al costato lacerato, esercitando pressione affinché si appiccichi. Il dolore dev'essere insopportabile. Può a malapena immaginarlo. Il gemito represso di Francesco, labbra morse, pugno infuriato sul terreno, lasciano intendere quale supplizio immane, il bruciore, l'irritazione iniziale, stia sopportando.

«Ssh...» Riprende la sua mano, riallaccia il loro legame, la simbiosi di sguardi. Pianeti satelliti, stesse orbite, sempre in sintonia, varianti le forme e le sostanze, ma sempre loro. Sole e Luna. Francesco non può vederla, lo raggiungerà la sua voce. «Va tutto bene, è passato adesso, è passato. Non brucia più.»

«N-No...» Rimane lucido per puro sforzo di volontà.

«Bravissimo.» Chiara gli stampa un bacio in piena fronte, orgogliosa. I ruoli si sono invertiti, la pianticella rinforzata in tronco. «Adesso ci occupiamo delle mani e poi potrai riposare.»

La stretta si serra, un appello accorato. «Resta.»

«Francesco...»

«Ti prego.» Un'implorazione sfiorante il pianto, la sicurezza incrinata. «Resta con me. Non andartene.»

Che scoglio, che sostegno gli sopravvive in un mondo rumoroso e schizzinoso che da lui pretende, che lo contesta, lo venera, lo santifica? I pochi fidati della prima ora, suo fratello. Lei. Elia sentenzierebbe che Francesco è un uomo in odor di santità e come tale deve ricevere i trattamenti di cui ha bisogno. Un uomo, appunto, rilancerebbe Chiara. E ancora in vita, nonostante quella vita sembri inacidirsi dentro di lui come rimasugli di latte cagliato e stantio sul fondo di una scodella.

Gesù Santissimo, la folgora un pensiero, e se scoprissero delle ferite?

Lo faranno, avvenuto il suo trapasso. Le declameranno ai quattro venti. Non può girarci attorno. E allora Francesco diventerà da morto una calamita di proseliti ancor più di quanto lo sia stato in vita.

«Sei una tra i p-pochi che non mi c-c-chiede qualcosa...»

Qualcosa, positivo o negativo ha poco rilievo.

Deve farlo. Per lui. «Resterò, stai sereno.»

Lo tamponano sui palmi, Francesco saltante di meno. Sbrigata la faccenda, rivestito d'un saio mondo, bendato, Chiara congeda Leone. Lo veglierà lei, ma che, per piacere, lo comunichi alle sue consorelle. Lasciati soli si adagia al suo fianco, suo letto l'erba tenera e verdeggiante. Francesco non molla la sua mano, orienta il viso al suo lato.

«Cerca di dormire.» gli sussurra, pollice strofinante nella curvatura tra esso e l'indice.

«Anche t-tu.»

«Certo.»

Come le sembra piccolo, smarrito, un opaco barlume del sole raggiante che era nato sulla fertile costa del monte Subasio. Sbaglia, si rettifica. Adesso Francesco rifulge, dalle sue mani, dai suoi piedi, dal suo fianco forato, della gloria di Dio.

Specchio dell'Altissimo, suo strumento, riflesso della Passione.

Dell'Amore.

Lui s'assopisce, finendo per addormentarsi profondamente, le coperte rimboccate. Trema negli spasmi della febbre, mugolii disconessi, vaghi.

«Jésus crucifié... je t'a-a-aime... Jésus c-crucifié...»

Sogna e delira pure in francese, esilarante se non languisse in una situazione simile. Chiara s'appisola a intermittenza, quando si risveglia che Francesco è tutt'un brivido lo rinfresca, panni stesi in fronte. È irriducibile il loro poverello. Non molla la presa, non si stacca neanche per sogno. Ha bisogno di lei, compulsivamente.

Un tempo i ruoli erano diversi, sbozza un sorriso.

Francesco riemerge a tratti dal torpore tra le Lodi e la Prima. L'alba incipria i rilievi montuosi, imbelletta di bruma gli uliveti e Leone viene a controllarli. Chiara non gli cede il cambio, benché ormai sveglia. Manterrà la promessa.

Approdano alla Terza, il sole ridente e primeggiante nell'azzurro. Uno sbadiglio e Francesco ripiomba nel putiferio vivente.

«Mmh... quanto ho dormito?»

«Quanto il tuo corpo ha ritenuto fosse utile.» lo vezzeggia Chiara, provandogli la fronte.

«Troppo.» sbuffa lui, rivoltandosi sul fianco esente da squarci. «Frate Asino ozioso e dormiglione!» incolpa il suddetto corpo.

«Eri molto stanco. Ti senti meglio?»

«Lo stomaco di Frate Asino gorgoglia, ma non dargli questa soddisfazione!»

Oh, gliela fornisce e lui si presta al gioco, spolverando un'intera scodella di brodo.

Satollo dalla colazione, marzolino e allegro, Francesco si trattiene a lisciare con un dito le piume scompigliate d'un tordo zampettante all'interno della capanna. Un momento che Chiara può rubare per sé. Leone sosta fuori. Si siede al suo fianco.

La valle spoletana si staglia nelle sua rigogliosa enormità, sconfinando in chiazze d'azzurro nebuloso e toppe di terriccio e poderi.

«Cos'hai provato quando l'hai visto?» È una curiosità che Chiara nasconde da molto.

«Visto... così?»

«Sì.»

Leone scrolla le spallucce, come se l'unicità di quei chiodi grumosi non l'avesse turbato, sovvertito le sue certezze, minato a credenze secolari.

«Ho pensato che fosse caduto. Era riverso nel nevischio, sulle rocce aguzze, privo di sensi. Avevamo un nostro segnale mattutino. Io intonavo un salmo, lui concludeva la strofa e sapevo che era il momento di portargli nutrimenti. Non mi ha risposto quella mattina. Ho ritentato, ripetuto il nostro codice. Silenzio assoluto. Ho iniziato a preoccuparmi, anche perché gli abitanti a valle mi avevano raccontato d'aver visto la Verna avvolta da una luce abbagliante, pensavano fosse scoppiato un incendio. Infrangendo il nostro accordo sono corso da lui e l'ho trovato... così

Nessuno era presente. Uno scambio a discrezione di Francesco e del Padre Eterno. La risposta alle sue sofferenze, alla sua fede brancolante nel buio.

Il suggello di una vita a imitazione di Cristo che Cristo custodiva già nel cuore. A imitazione di Cristo. Un tempo. Al principio. Quando cantavano al Creato e servivano gli ultimi, fratelli nella discarica dell'umanità, spoglianti di tutto per amare il Tutto.

Un tempo. Chiara ingoia un boccone d'amarezza.

«E tu Chiara?» le pone Leone. «Cos'hai provato quando te le ha mostrate?»

Lei. Congiunge le dita.

«Ho pensato che non esiste amore senza sofferenza. Non c'è salvezza priva di croce. Francesco sta portando la sua.»

Loro sono i suoi Simone di Cirene. L'aiuteranno. Ora e sempre.







Note

Nonostante le ampie descrizioni e resoconti ed il fatto che vi fossero numerosi testimoni oculari delle stigmate, non può tacersi la circostanza che la bolla di canonizzazione di San Francesco del 19 luglio 1228 "Mira circa nos", risalente ad appena due anni dopo la morte del Santo, non ne faccia alcun cenno.
Non mancarono in verità, già da parte di alcuni contemporanei, contestazioni ed opposizioni, ritenendo quei segni impressi nelle carni del Patrono d'Italia frutto di una frode.
Lo stesso Gregorio IX (Cardinale Ugolino), prima di procedere alla canonizzazione di Francesco, pare nutrisse dei dubbi riguardo a quel fatto prodigioso. E' sempre San Bonaventura, nel capitolo della sua "Legenda Major" dedicato alla "Potenza miracolosa della Stimmate" del Poverello, a parlarne.
Scriveva che "Papa Gregorio IX, di felice memoria, al quale il Santo aveva profetizzato l'elezione alla cattedra di Pietro, nutriva in cuore, prima di canonizzare l'alfiere della croce (cioè San Francesco), dei dubbi sulla ferita del costato. Ebbene, una notte, come lo stesso glorioso presule raccontava tra le lacrime, gli apparve in sogno il beato Francesco che, con volto piuttosto severo, lo rimproverò per quelle esitazioni e, alzando bene il braccio destro, scoprì la ferita e gli chiese una fiala, per raccogliere il sangue zampillante che fluiva dal costato. Il sommo Pontefice, in visione, porse la fiala richiesta e la vide riempirsi fino all'orlo di sangue vivo. Da allora egli si infiammò di grandissima devozione e ferventissimo zelo per quel sacro miracolo, al punto da non riuscire a sopportare che qualcuno osasse, nella sua superbia e presunzione, misconoscere la realtà dei quei segni fulgentissimi, senza rimproverarlo duramente" (Leg. Maj., II, 1, 2).
La Chiesa, comunque, dopo maturo giudizio, con ben nove bolle pontificie (di Gregorio IX, di Alessandro IV e di Niccolò III), susseguitesi tra il 1237 ed il 1291, difese la realtà delle stigmate di Francesco, senza peraltro esprimere un'interpretazione definitiva del fenomeno, la cui genesi è soprannaturale e deriva dall'Amore.
La Chiesa riconobbe la straordinarietà del fenomeno verificatosi nel 1224, inteso quale segno privilegiato concesso da Cristo al suo umile servo di Assisi, anche da un punto di vista liturgico, inserendo la ricorrenza nel calendario. Papa Benedetto XI infatti, concesse all'Ordine Francescano ed all'intero Orbe cattolico di celebrarne annualmente il ricordo il 17 settembre.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top